Saggio sul berlusconismo di Marco Spedicato
A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo
di essere i nostri babbi e i nostri maestri
(C. COLLODI, Le avventure di Pinocchio)
Premessa
Ideologia? Come sarebbe a dire ‘ideologia’? Ho letto bene – si chiederà il lettore – dice proprio ‘ideologia’? Ebbene sì. Nonostante la ben poco disinteressata diffusione della “teoria” della fine delle ideologie, sostenuta, guarda caso, da tutti quei politicanti dediti al vizio del trasformismo, che cercano così di mascherare le loro “epocali” giravolte, è ora di renderci conto che l’ideologia è viva e… lotta contro di noi. Mentre ci crogioliamo ancora al tepore del falò delle ideologie, la cruda verità è che a bruciare sono soltanto alcune ideologie, mentre le altre prosperano silenziosamente.
È vero che attualmente le identità etico-culturali si trovano in uno stato di incertezza, ma, come notava Debord, «oggi non è possibile trascurare il fatto che l’uso intensivo dello spettacolo ha, come c’era da aspettarsi, reso ideologica la maggioranza dei contemporanei, per quanto solo a tratti e a sbalzi», cioè non esistono più terreni vergini per l’ideologia, ossia soggetti ingenui e incontaminati da conquistare. Oppure, il che è lo stesso, possiamo dire che, in generale, viviamo in un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute in opposizione ad altre e in mancanza di altre genuine, ma questo è un discorso che riguarda anche la forma dei partiti politici attuali, molti dei quali in effetti sempre più simili a semplici accozzaglie elettorali. E tuttavia, in assenza (o quasi) di repressione sociale, l’importanza dell’ideologia cresce necessariamente: in contesti in cui la convivenza non è determinata in modo decisivo dalla forza, la coesione della società passa per quella che i sociologi chiamano «collettività identificante», cioè il gruppo in cui ci si identifica in base alle proprie idee, credenze, principi, seppure non solennemente dichiarati.
Mi propongo in questo saggio di analizzare il berlusconismo dal punto di vista della sua ideologia specifica (dico specifica perché, ad esempio, il neoliberismo fa certamente parte, benché con una certa elasticità, dell’armamentario berlusconiano, ma è comune a quasi tutte le forze politiche attuali, italiane e non). Ho cercato dunque di evidenziare il filo conduttore del berlusconismo (l’ideologia del dilettantismo), dovendo però necessariamente allargare il discorso al dilettantismo “reale” per poter rendere pienamente comprensibili i vari passaggi del ragionamento: il lettore troverà perciò molte apparenti divagazioni in quel che segue, ma il mio obiettivo è quello di provare a gettare un po’ di luce su ciò che con troppa faciloneria molti hanno liquidato, e continuano a liquidare, come vaneggiamenti e incoerenze di un megalomane.
1. Prime avvisaglie
C’è qualcuno che ricorda Quelli che… il calcio? La domanda sembrerà bizzarra, dato che va tuttora in onda una trasmissione televisiva (quasi omonima) che è la sua erede, ma io mi riferisco proprio all’originale, quella condotta da Fabio Fazio e che esordì nel 1993, e non alla copia sbiadita che abbiamo sotto gli occhi. Quelli che… il calcio di Fazio fu una trasmissione “rivoluzionaria”, aggettivo di per sé non tanto indicativo se è vero, come è vero, che ci troviamo praticamente sommersi da prodotti “rivoluzionari”, dal nuovo cosmetico all’ultimo modello di automobile, ecc. Ma quella trasmissione fu rivoluzionaria davvero. Perché fu rivoluzionaria? Prima di tutto, a un livello più superficiale, per il suo argomento: si occupava infatti di calcio (sport nazionale italiano, come tutti sanno) in un’ottica non più specialistica, per iniziati, ma scanzonata e sbarazzina. Basta questo per farne una trasmissione rivoluzionaria? Dato il contesto in cui andò in onda, che era fatto di programmi per lo più ingessati e prevedibili, probabilmente sì. Ma siamo ancora un po’ nel vago.
Guardando quella trasmissione si restava colpiti dal fatto che tutti erano costantemente sopra le righe, e in un senso ben preciso: ognuno faceva qualcosa che eccedeva il proprio ruolo. C’era Fazio, il presentatore, che più che condurre faceva il Pierino della situazione, con il compito di punzecchiare ospiti e colleghi per indurli a “strafare”. E poi c’era Sassi che faceva battute (!), Orietta Berti che parlava di calcio (!), Bartoletti che, fra un aggiornamento dai campi e l’altro, canticchiava le canzoni di Orietta Berti, Van Wood che un po’ suonava la chitarra e un po’ faceva l’astrologo (e non si capiva quale delle due versioni fosse quella principale), Idris, di professione giornalista, che impersonava il “buon selvaggio” (il lato “buono” era evidentemente costituito dal tifare Juventus), e così via in un crescendo che, sebbene fosse ovviamente voluto, costruito, risultava del tutto convincente e coinvolgeva anche gli ospiti non fissi.
E poi c’era Paolo Brosio, che faceva l’inviato. Ma era un modo particolare di fare l’inviato: i siparietti fra Fazio che lo spronava a compiere le sue “missioni” e lui che, riluttante e quasi impaurito, acconsentiva solo dopo vari scambi di battute col presentatore sono memorabili quasi quanto quelli che lo stesso Brosio, fino a poco tempo prima, poneva in essere col direttore del suo telegiornale. Quelle di Brosio le ho definite missioni perché da quei battibecchi doveva risultare evidente a tutti gli spettatori una cosa ben precisa: la sproporzione fra i mezzi e il fine (i quali mezzi poi, come vedremo, nel dilettante si trasformano appunto in fine). Brosio, fra la goduria di Fazio e degli ospiti, veniva spedito a percorrere in bicicletta dei tragitti a mo’ di vera e propria tappa ciclistica, oppure, al contrario, veniva spedito a Londra per importunare le vecchiette che guardavano in santa pace la TV. E cose del genere.
La costante era che questo personaggio, per un motivo o per l’altro, all’inizio non era mai convinto di poter portare a termine la missione assegnatagli dal “perfido” Fazio, eppure alla fine era comunque disposto a provarci. Il Paolo Brosio di Quelli che… il calcio è, a mio modo di vedere, l’imbranato in rivolta: il dilettante.
Il Nuovo Zingarelli alla voce ‘dilettante’ riporta:
«1) Che, chi coltiva un’arte, una scienza o si dedica a un’attività sportiva non per lucro ma per diletto o per pura passione agonistica;
2) [est.] Che, chi manca di esperienza, perizia, e sim.; [spreg.] Che, chi si occupa di q.c. con grande faciloneria, in modo superficiale e senza un’adeguata preparazione».
Ora, io credo che tutti e tre gli aspetti di cui sopra si possano senz’altro attribuire al Brosio inviato di Quelli che… il calcio (perché è del personaggio Brosio, ovviamente, che sto parlando). Forse qualche dubbio potrebbe esserci per il primo punto, dato che ho affermato che l’inviato era sulle prime sempre riluttante, cosicché non si tratterebbe certamente di “diletto”. In realtà ho detto anche che c’era ogni volta una specie di opera di convincimento da parte di Fazio, che si inseriva in una “coscienza dei propri limiti” che Brosio puntualmente mostrava, e che vinceva sempre ogni riluttanza; in altre parole, anche se non possiamo parlare propriamente di diletto, possiamo però benissimo parlare di passione agonistica: è appunto in questo senso che ho parlato di “imbranato in rivolta”.
Tutto questo avveniva alla RAI, la televisione di Stato. Ma anche dall’altra parte della barricata, sulle reti Fininvest (poi Mediaset), c’era una trasmissione interessante ai fini del nostro discorso, e si chiamava, ironia della sorte, Non è la RAI. Vi si poteva ammirare una torma di ragazzine, se non proprio bambine, prive di qualunque particolare abilità, intente a dimenarsi, cantare (in playback), piagnucolare, interagire qua e là coi telespettatori (durante i vari giochini), o addirittura fare discorsi di senso compiuto (con l’aiuto, certo, degli appositi auricolari che fornivano i suggerimenti della regia).
Anche questo, come l’altro, fu un programma di successo. Perché è interessante per il nostro discorso? Perché evidentemente il senso di questo programma era del tipo: «guardate come dal nulla riusciamo a creare dei fenomeni»; mentre il senso di Quelli che… il calcio era piuttosto: «guardate dove possiamo arrivare». Quindi in un caso si ha, per così dire, un “dilettantismo pianificato”, e nell’altro un “dilettantismo esibito”. Quello che mi pare fondamentale è riconoscere che, a partire da quei due programmi televisivi, e alla luce di quanto è avvenuto contemporaneamente e successivamente nella società italiana, la figura del dilettante e il dilettantismo hanno assunto decisamente un ruolo centrale nell’immaginario collettivo.
È un caso l’apparizione nello stesso periodo, e indipendentemente l’una dall’altra, di due trasmissioni televisive così simili per filosofia di fondo e impatto sul pubblico? Ciò avveniva ai tempi di Mani Pulite, il “ciclone giudiziario” che spazzò via una parte rilevante del ceto politico dirigente. Si dirà: e dove starebbe il nesso? Il fatto è che Mani Pulite fu oggettivamente una rivoluzione; una rivoluzione anomala, senza rivoluzionari, ma pur sempre una rivoluzione. Con l’operazione Mani Pulite fu smantellato, di fatto, il sistema politico che aveva retto l’Italia per quasi cinquant’anni, o meglio i ruderi di quella società bloccata che aveva resistito per tutti gli anni della “guerra fredda” e che aveva ormai esaurito la sua funzione. In un bellissimo saggio, “L’estate 1914”, Nicola Chiaromonte faceva notare come il cittadino medio, fino a prova contraria, abbia un rispetto innato per gli specialisti: al contrario, si può dire allora che effetto di ogni rivoluzione è appunto il crollo di questo rispetto per gli specialisti. E, infatti, chiunque ricorderà che il clima che si respirava in Italia nei primi anni Novanta era molto simile, ad esempio, al «Que se vayan todos!» dell’Argentina del 2002. È in questo clima che nacque il berlusconismo.
Noto con stupore che molti non riescono ancora a spiegarsi la nascita e lo sviluppo di questo fenomeno. In realtà la cosa è molto semplice: in una situazione in cui i poteri dello Stato sono oggettivamente in conflitto fra loro, Berlusconi appare come il garante dell’equilibrio fra i poteri o, per essere ancora più precisi, del loro riequilibrio, in base alla sua sbandierata “estraneità” ad essi, cioè in base al suo essere un non-politico (oltre che, ovviamente, un non-magistrato), ossia un non-specialista.
In pratica l’originario “prodotto di laboratorio” (il partito-azienda Forza Italia) si è evoluto dal lato istituzionale in senso “anti-giustizialistico”, come appena detto, riciclando spezzoni della vecchia classe dirigente, fino alla recente annessione di Alleanza Nazionale e conseguente trasformazione in Popolo della Libertà, e dal lato della società in senso populistico, utilizzando l’ideologia oggetto di questo saggio (vedremo comunque come l’“anti-giustizialismo” stesso non sia che un aspetto particolare dell’ideologia “dilettantistica”). Estremamente funzionale allo sviluppo di questo fenomeno fu poi naturalmente l’introduzione del sistema elettorale maggioritario, che porta alla personalizzazione dello scontro politico. E il prestigio personale di Berlusconi è consistito proprio nel fatto di coltivare l’impegno politico non per lucro, per mestiere, come fanno invece «i professionisti della politica», con cui a un certo punto ha anche polemizzato apertamente in proposito, bensì… per passione. Questo naturalmente a livello di immagine, perché poi la realtà è diversa (significativa è la canzone dei Modena City Ramblers intitolata “El Presidente”).
Va ricordato inoltre che la nostra è un’epoca di malafede.
«In questo consiste la malafede contemporanea e, al tempo stesso, il significato di ciò che si chiama nihilismo: nel tenersi alla forma di quella che fu una credenza autentica senza più assumerne la sostanza, ma solo perché non ce n’è un’altra cui ci si possa affidare. Ciò vuol dire che non si crede a nulla, ma ci si lascia andare sul filo degli eventi come su una corrente precipitosa e fatale. E bisogna aggiungere che il moto di questa corrente non riguarda solo i fatti tecnici, economici o politici, ma anche (e soprattutto) le forme della sensibilità e la vita intellettuale, coinvolgendo la vita della cultura in un automatismo che, applicato a un tal campo, è inevitabilmente mortifero: l’automatismo della ricerca del “nuovo”, il quale si riduce in realtà a un continuo segnare il passo nel disordine».
Più modestamente, a noi interessa il fatto che questo automatismo della ricerca del nuovo o, come si dice correntemente, “nuovismo” è stato una concausa della nascita del berlusconismo.
2. La marea
Ma torniamo a parlare della TV, e precisamente di quelle trasmissioni che da qualche anno a questa parte (anche se il fenomeno pare oggi ridimensionarsi) hanno invaso e trasformato i palinsesti: i famigerati reality show. Come introduzione all’argomento utilizziamo alcune osservazioni di addetti ai lavori sulla reality television in generale.
Scrive Marina Villa:
«Per reality television intendiamo una prassi comunicativa neotelevisiva che caratterizza tutti i programmi che si ispirano a un’aderenza con la realtà quotidiana, colta sia nei suoi aspetti più drammatici sia in quelli più banali, grazie al coinvolgimento sempre più stretto del pubblico e delle persone comuni».
Ma, d’altra parte,
«“[…] attraverso le modalità produttive, [la reality television] assegna massima forza alla duplicità, alla riflessività, alle contrapposizioni insite nei generi che sono confluiti nel reality (docu-soap, docu-drama, reality show, infotaiment [sic]), esaltando così le intime contraddizioni del reale” (C. De Maria et al., Reality tv, ERI-VQPT, Roma 2002, p. 12)».
L’autrice aggiunge:
«Nella reality television la sceneggiatura, la scrittura dei testi è infatti un elemento determinante […]. I nuovi tipi di programmi della reality television come Big Brother sembrano testi più aperti […]. Ma anche qui un forte intervento registico e di scrittura è necessario. Il materiale fornito dalle immagini della vita quotidiana è informe, si tratta di riprese in continuità senza un filo conduttore, a volte incomprensibili per chi non conosce bene le dinamiche del programma […]. Del resto, come si è detto, per il reality show non conta tanto che la storia sia vera o falsa, l’importante è che la storia che si sta raccontando sia una buona storia. In un contesto come quello della reality television, le buone storie sono spesso quelle più eclatanti, esasperate, inverosimili».
Citando poi Paolo Vasile, produttore di reality television, la Villa nota:
«Anche in un programma come il Grande Fratello la realtà quotidiana degli ospiti della casa è “trasfigurata, accelerata. Si può parlare di una quotidianità estrema”».
E conclude:
«Raccontando delle storie ispirate alla vita delle persone o inscenando delle situazioni di prova (anche le più inverosimili ed eccessive), quello che interessa alla reality television è mostrare le reazioni non controllate dei protagonisti, in base a un assunto che associa la verità di ciò che si vede alla reattività e la reattività all’assenza di simulazione».
Teniamo bene a mente in particolare queste ultime osservazioni, che sottolineano quella caratteristica dei reality che l’autrice definisce una «continua messa in scena di casi eclatanti e di situazioni-limite».
Prima di procedere, va ribadito che il reality è un genere di programma che fagocita altri generi, li assimila e li riutilizza amalgamandoli in un nuovo contesto, e che forse anche per questo motivo non esiste una definizione di reality show universalmente accettata dagli esperti. Qui, ad ogni modo, prenderemo in considerazione come reality show, fra quelli trasmessi dalla televisione analogica terrestre e di produzione italiana, quei programmi non documentaristici che comportano un’intrusione delle telecamere nella vita quotidiana dei partecipanti, anche se in circostanze più o meno eccezionali.
Va detto che già il nome di questo tipo di programmi ha creato molte polemiche: «è tutto costruito e recitato» – «no, è tutto vero». Non bisogna dimenticare che un reality è comunque un gioco: sembra banale dirlo, ma nel concetto di gioco la stessa distinzione fra serietà e non-serietà è fortemente sfumata e problematica, per non dire inconcepibile (si veda la definizione di gioco che dà Huizinga in Homo ludens). Se non si tiene presente questo, si ricade inevitabilmente in quella divisione manichea in «voyeuristi» e «dietrologi» evidenziata da Gualtiero De Marinis, che spiega:
«Più semplicemente quel che succede è: si sceglie un cast di persone con determinate caratteristiche che possano portare a determinati snodi o contrasti, si stabilisce un sistema di retribuzione/pena che funzioni come correttivo, poi si fa partire la macchina e si rimane in attesa a osservare “di nascosto l’effetto che fa”, come diceva Jannacci. Dunque né realtà pura, né complotto. Soltanto un sistema dinamico, determinabile nel suo andamento generale, ma intrinsecamente imprevedibile nelle sue espressioni singolari ed estemporanee».
In ogni caso, al di là dell’aspetto qualitativo di questi programmi, è interessante vedere se esista un qualche filo logico che permetta di avere delle conferme alla validità del nostro discorso sul dilettantismo, e perciò è necessario scendere un po’ più nei dettagli.
Notevole è a mio parere il secondo reality show in ordine di tempo trasmesso in Italia (ha seguito di poco Grande Fratello): Survivor. Perché è notevole questo reality? Perché in esso traspare la vera quintessenza dei principali reality. ‘Survivor’ è un termine inglese che significa letteralmente ‘sopravvissuto’. C’è un capitolo del libro L’io minimo di Christopher Lasch che si intitola proprio “La mentalità della sopravvivenza”. In esso si afferma, all’inizio:
«In un’epoca difficile, ancora immersa nel godimento dei comfort materiali sconosciuti alle generazioni precedenti, eppure ossessionata dal pensiero del disastro, il problema della sopravvivenza offusca qualsiasi più nobile pensiero».
E più avanti:
«La disposizione a pensare alle organizzazioni come istituzioni totali, e alla vita moderna in generale come una successione di situazioni limite, può essere fatta risalire ai campi di sterminio e di concentramento della seconda guerra mondiale, la consapevolezza della cui esistenza ha influenzato il modo di vedere la vita sociale più profondamente di quanto si pensi».
Lasch ne deduce quanto segue:
«La vita quotidiana comincia ad assumere alcune delle caratteristiche meno auspicabili e più perniciose del comportamento in situazioni limite: riduzione della prospettiva alle necessità immediate della sopravvivenza; autosservazione ironica; proteiformità dell’io; anestesia emotiva».
Queste parole sono state scritte negli USA dei primi anni Ottanta del secolo scorso ma penso che descrivano altrettanto bene la società in cui viviamo, e l’accenno alle situazioni-limite mi pare molto significativo se accostato a quello di Marina Villa citato in precedenza. Mi pare evidente, cioè, che il filo rosso che lega i più importanti reality è appunto la presenza di situazioni-limite. Questa è del tutto esplicita in Survivor, ma si ritrova, con varianti marginali, in L’isola dei famosi e La talpa, che hanno a che fare con un limite di tipo “spaziale”, ma anche in La fattoria e Ritorno al presente, in cui il limite è di tipo “temporale”.
A questo punto si dirà: anche ammettendo che il ragionamento sia giusto, che c’entra con il dilettantismo? Ricordo allora che Lasch parlava di «proteiformità dell’io»: cos’è questa proteiformità dell’io se non l’abitudine ad esporsi agli stimoli più disparati, a sperimentare cose nuove, a spostare i propri limiti in continuazione, al di là delle proprie capacità e del proprio ruolo? Non è forse sintomo di dilettantismo?
Tornando ai reality, è venuto il momento di parlare di quello che è probabilmente considerato il reality show per antonomasia: Grande Fratello. Questo reality, che è stato il primo ad andare in onda in Italia, nel 2000, apparentemente non ha molto a che fare con il tema della sopravvivenza: i reclusi, infatti, si trovano in una casa dotata praticamente di tutti i comfort, e gli unici disagi consistono in una specie di razionamento e nel fatto stesso del loro isolamento dall’ambiente esterno (le “prove” settimanali sono semplicemente ridicole). Insomma, parlare di sopravvivenza sarebbe davvero troppo. Eppure… Eppure la realtà è che per dei festaioli anche la semplice clausura assume i contorni di una terribile ordalia. La situazione-limite consiste allora nell’essere privati del superfluo e della capacità di movimento, cosa che ai concorrenti deve sembrare, e lo dico senza ombra di ironia, davvero terribile (del resto già Marx diceva che tutti i grandi fatti della storia universale si presentano due volte: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa; nel nostro caso, la prima volta come campo di concentramento e la seconda come programma televisivo). Grande Fratello ha le sembianze di un nulla costruito sul nulla, di un nulla al quadrato, ma appunto perché l’abilità richiesta dal gioco non è un fare, ma piuttosto un non-fare.
Anche nel più recente La pupa e il secchione si assiste a una situazione-limite: degli “intellettuali” sono qui a stretto contatto con delle “pupe” modaiole e ignoranti, e la pazienza di tutti è messa a dura prova; stesso discorso vale per 1,2,3… stalla!, in cui delle starlet o aspiranti tali sono costrette a convivere con dei veri contadini e a condividerne, almeno in teoria, le fatiche.
Allo stesso filone appartiene poi Unan1mous, in cui però i partecipanti devono scegliere il vincitore con una decisione all’unanimità, il che forse fa venire in mente più la cosiddetta “teoria dei giochi” che un reality show.
Un reality in cui il tema del dilettantismo è invece addirittura palese è Campioni - Il sogno, dove si ha a che fare con dilettanti “in carne e ossa”, nel senso che i concorrenti sono i giocatori di una vera squadra di calcio dilettantistica impegnata nel campionato di appartenenza; stesso discorso per Reality Circus, in cui i partecipanti devono, pur non essendo del mestiere, fare vita da circensi, e per Wild West, con concorrenti che si improvvisano mandriani.
Esistono inoltre reality incentrati sulla performance, in cui prevale cioè un elemento agonistico, elemento che pure abbiamo visto presente nella definizione di dilettante citata in precedenza: è questo il caso di Operazione trionfo e Popstar/Superstar Tour, gare canore fra concorrenti sconosciuti, di Music Farm, gara canora fra cantanti più o meno famosi, di Saranno famosi/Amici di Maria De Filippi/Amici, gara comprendente varie discipline artistiche, del relativo sottoprodotto Il Ballo delle debuttanti, incrociato però con questioni di bon ton, del più recente Italian Academy 2, gara di danza, ma anche di Super Senior, in cui la sfida, per gli ultrasessantenni partecipanti, è con se stessi e le proprie capacità, dato che l’obiettivo finale è l’allestimento di uno spettacolo teatrale.
In definitiva, i reality che non sembrano rientrare nello schema interpretativo qui proposto sono: La casa delle playgirls, a partecipazione interamente femminile ed in chiave dichiaratamente sexy, le cui concorrenti, per vincere, devono essere più seducenti delle altre; Cambio moglie, in cui due mogli si scambiano, ovviamente per un tempo limitato, le rispettive famiglie; Vero amore, in cui diverse coppie sono messe alla prova da tentazioni di natura sessuale; ed infine La sposa perfetta, dai contenuti reazionari, funzionante secondo un rigido schema vassallo-valvassore-valvassino, nella fattispecie modificato in suocera-buon partito-ragazza da marito (ritengo di poter definire approssimativamente questo filone minoritario di reality come filone “sentimental-sessuale”).
Riassumendo, i reality esaminati sono riconducibili per lo più a tre tipologie:
1) situazioni-limite;
2) dilettantismo “lavorativo” o palese;
3) spiccato carattere agonistico.
E queste tipologie, come sappiamo, sono sintetizzabili nel concetto di dilettantismo.
3. Ulteriori conferme
Ora, parlando di dilettantismo il punto è questo: la duplicità e l’ampiezza di questo concetto corrispondono perfettamente all’ambiguità di fondo della nostra società. La mancanza di situazioni veramente chiare e definite, il carattere sempre più sfuggente delle persone, l’incoerenza e l’aspetto carnevalesco dei rapporti umani sono cose ormai fin troppo familiari a chiunque per dovervisi soffermare.
Tornando al mondo dello spettacolo, ci si dovrebbe chiedere: siamo sicuri che in passato i dilettanti siano stati assenti dalla televisione? La risposta è no, nel senso che i dilettanti c’erano eccome, ma concentrati in un solo programma: mi riferisco, naturalmente, a La corrida (che va tuttora in onda). Mi limito però a far notare che lo scopo e il senso di questa trasmissione era e resta quello di sbeffeggiare i dilettanti (come recita il sottotitolo: “dilettanti allo sbaraglio”), in quanto qui il vero protagonista non è il dilettante ma il pubblico che lo giudica. È vero che la trasmissione esiste ancora, ma non è che l’eccezione che conferma la regola, un residuo dell’antichità, una specie di fossile del tutto marginale rispetto all’intera programmazione televisiva attuale.
C’è qualche altra osservazione da fare. Ci sono altri segnali, sempre in ambito televisivo, che mi sembrano confermare ulteriormente queste mie osservazioni sul dilettantismo.
Uno di questi segnali è il “caso Celentano”, cioè il mezzo putiferio scatenato dalla trasmissione di Adriano Celentano Rockpolitik (del 2005, in quattro puntate). In questa trasmissione, in qualche misura dissonante dal resto della TV italiana, Celentano è riuscito a tenere insieme musica (sua e non sua), monologhi (suoi), satira (di altri) e denuncia (degli autori del programma). Dove sta il problema? A prima vista consiste soprattutto nel fatto che Celentano ha ridato dignità e ascolti a un genere osteggiato dal governo allora in carica: la satira. Ma sedendo e mirando ci si accorge che il vero punto dolente è un altro. Tutti ricorderanno infatti il tenore delle polemiche sollevate prima, durante e dopo la trasmissione da alcuni politici: «Celentano gode di troppa libertà» [sic], «Celentano è un cantante e faccia il cantante», «non fa intrattenimento, fa politica», «è politicamente sgrammaticato», ecc. Non è come dire, traducendo in linguaggio più comprensibile, che Celentano travalica i ruoli? E questo non è forse “dilettantismo”? Fra l’altro mi pare che la mescolanza di generi praticata in Rockpolitik non renda affatto azzardato un paragone fra questo programma e la gesamtkunstwerk (“opera d’arte totale”) wagneriana (e si noti come Wagner stesso fosse considerato, già dai suoi contemporanei, un dilettante). Quello che stupisce è allora la provenienza di simili critiche, dato che si può dire che il successo del programma di Celentano è della stessa sostanza… del Padre. L’unica spiegazione al riguardo sta evidentemente nel vecchio detto «chi sa il trucco non l’insegni». Il problema ha poi assunto le proporzioni che ha assunto perché riguarda la star Adriano Celentano, altrimenti non avrebbe certo avuto la stessa risonanza. Scrive Debord nella sua opera più importante:
«La condizione di vedette è la specializzazione del vissuto apparente, l’oggetto d’identificazione alla vita apparente senza profondità, che deve compensare il frazionamento delle specializzazioni produttive effettivamente vissute. Le vedette esistono per rappresentare tipi variati di stili di vita e di stili di comprensione della società, liberi di esercitarsi globalmente. Esse incarnano il risultato inaccessibile del lavoro sociale, mimando dei sottoprodotti di questo lavoro, che sono magicamente trasferiti al di sopra di esso come suo fine: il potere e le vacanze, la decisione e il consumo, che sono all’inizio e alla fine di un processo indiscusso. Là, è il potere governativo che si personalizza in pseudovedette; qui è la vedette del consumo che si fa riconoscere plebiscitariamente come pseudopotere sul vissuto».
Nella nostra società, dice cioè Debord, lo spettacolo avvolge ogni cosa, penetra dappertutto e crea i propri agenti (le vedette, i divi, o comunque li si voglia chiamare), privi di ogni qualità autonoma e le cui divergenze sono perciò apparenti.
Rispetto a Rockpolitik, diverso è il caso di una trasmissione come Striscia la notizia: anche qui si ha una compresenza di generi, ma essi restano meccanicamente sovrapposti e sempre distinguibili a occhio nudo. Il dilettante supera o almeno attraversa la divisione dei ruoli (generi), mentre in Striscia la notizia questo non accade: l’imitatore che si imbuca alle feste è comico, le inchieste e i servizi sono giornalistici, le “veline” sono intrattenimento, i conduttori delle semplici didascalie. Manca cioè un elemento unificante, di sintesi del tutto.
In definitiva, da questa breve analisi dello spettacolo in Italia mi sembra emergere con forza una tendenza al dilettantismo, che naturalmente non ci autorizza a confonderla con la realtà tout court. Per capire in quale misura il dilettantismo è penetrato nella società italiana sono certamente necessarie verifiche di altro tipo, ma mi pare innegabile che gli elementi emersi vanno in direzione della sedimentazione di un senso comune “dilettantistico”. Né, d’altra parte, il discorso deve restare necessariamente circoscritto all’Italia: basti pensare che i format di molti dei programmi qui considerati sono stranieri.
E, a proposito, c’è anche un altro caso eclatante di dilettantismo: il mitico Homer Simpson. Homer è il capofamiglia del cartone animato di culto I Simpson, che, stando a quanto ha dichiarato il suo ideatore Matt Groening, ha nel pubblico italiano il terzo avamposto mondiale per livello di ascolti (è stato trasmesso in Italia a partire dal 1991). Homer Simpson ha svolto via via i più svariati lavori senza alcuna preparazione (ad esempio agricoltore, pugile, comandante di una nave militare, missionario, barista e chi più ne ha più ne metta), compreso quello abituale di “addetto alla sicurezza” di una centrale nucleare (con esiti spesso disastrosi), e tuttavia non si cura minimamente della sua leggendaria inettitudine (memorabile, sul punto di essere licenziato, la sua esclamazione: «Marge, non si tratta di soldi: il mio lavoro è la mia identità!», che, per chi conosce il personaggio, è una bestialità esilarante e vuol dire in realtà esattamente il contrario). Homer Simpson è probabilmente la più chiara, incisiva ed estrema figura di dilettante mai apparsa nell’ambito della creazione artistica. Anche se una delle sue massime è: «Provare è il primo passo verso il fallimento», che non è proprio una massima da dilettante, il suo comportamento è totalmente agli antipodi, dato che ogni sua azione è compiuta prima ancora che il suo cervello si sia messo in moto (altra frase memorabile: «Presto, Lisa, accendi la TV, sto cominciando a pensare!»). La sua figura risalta ancora di più in confronto con gli altri membri della famiglia Simpson, che sono (tranne la piccola Maggie, che si può considerare, mutatis mutandis, una figura analoga a quella del padre: si vedano alcune incredibili e del tutto inverosimili performance come i due salvataggi di Homer, dall’annegamento nell’oceano e dalla mafia a fucilate, e il ferimento del signor Burns) nettamente caratterizzati: la casalinga (Marge), il teppista (Bart) e l’intellettuale (Lisa).
Ma la figura di Homer Simpson, per quanto riuscita, resta appunto una creazione artistica: nel mondo reale nessuno può cambiare lavoro con la facilità e la velocità di Homer. Per dirla più chiaramente, fra dilettantismo e precarietà c’è un rapporto di proporzionalità inversa: il dilettante sceglie un’attività, ma anche i suoi ritmi e la sua durata, mentre il precario non sceglie né l’attività, né i ritmi, né la durata (è infatti perennemente “a tempo determinato”). E, dato che nella nostra esperienza quotidiana siamo immersi nella precarietà fino al collo, la tendenza dello spettacolo al dilettantismo qui emersa (ma un fugace accenno a questo tema c’è già in Debord, che parlava di «fine parodistica della divisione del lavoro») si può senz’altro definire una negazione spettacolare della precarietà. Ma bisogna aggiungere che essa trova comunque il suo fondamento nella vera e propria «mutazione antropologica» connessa al «genocidio culturale» che caratterizzò l’avvento della società dei consumi in Italia e che Pasolini descrisse “in diretta”, proprio mentre avveniva, con accenti di grande intensità.
4. Anatomia di un concetto
A ben vedere, già in passato il tema del dilettantismo è affiorato qua e là, più o meno direttamente, ben prima dell’avvento della società dello spettacolo (altro nome, più preciso e penetrante, della società dei consumi ovvero della società a capitalismo avanzato).
Precisamente, la teorizzazione del dilettante comincia in Germania nell’ultimo decennio del Settecento, con degli abbozzi per un articolo (che poi non fu mai scritto per esteso) scritti in comune da Goethe e Schiller nel marzo-maggio 1799 a Jena e pubblicati nel 1832 fra le opere di Goethe. Nel complesso in questi abbozzi, che eserciteranno grande influenza, il dilettantismo viene visto, per quanto necessario dal punto di vista storico, sociale e istintuale, come più dannoso che utile, sia al soggetto sia soprattutto alle arti.
Ma chi è il dilettante?
«Un artista, gli italiani lo chiamano sempre “maestro”. Se vedono che uno esercita un’arte senza farne professione, dicono “si diletta”. […] La parola “dilettante” non si trova nella lingua italiana più antica. Significa un amatore delle arti, che non vuole solo contemplare e godere, ma anche prendere parte all’esercizio di esse. […] Quando parliamo di dilettanti, escludiamo il caso di uno nato con un reale talento artistico e a cui le circostanze abbiano impedito di coltivarlo da artista. Parliamo soltanto di quelli che, senza possedere un talento particolare per questa o quell’arte, lasciano fare solo all’impulso generale all’imitazione».
Già si può notare come il termine abbia una netta connotazione negativa. Proseguono infatti gli autori:
«Il dilettante sta all’arte come colui che fa un lavoro abborracciato sta al mestiere. […] Dilettante si diventa. Artista si nasce. […] Esperienza che si fa coi fanciulli, stimolati da ogni cosa in attività che cada sotto i loro occhi: soldati, attori, funamboli. Si propongono un fine irraggiungibile, che vedono ottenere da adulti esercitati e riflessivi. I loro mezzi diventano scopo: scopo fanciullesco, mero gioco, occasione per esercitare la loro passione. Quanto i dilettanti somigliano a costoro».
Un saggio interessante sul tema è poi “Dilettantismo” di Rudolf Kassner, del 1910, ricco di cenni storici, che merita di essere citato ampiamente.
«Le epoche con una coscienza giuridica altamente sviluppata, con una grande educazione politica e piene di un forte senso della comunità, sul cui fondamento esse siano sempre cresciute, non conoscono in genere né il concetto né la questione dei dilettanti. […] Gli alti princìpi e i grandi risultati costringono l’uomo a decidersi – per il bene o per il male – e il dilettante invece è sempre indeciso nell’anima».
È subito evidente che anche Kassner non ha una buona opinione del dilettante, che contrappone alla legge, intesa innanzi tutto in senso giuridico, ma anche in senso etico:
«Neanche la dogmatica e l’etica delle religioni menzionano il dilettante. […] Solo singoli uomini profondamente religiosi come Agostino, Pascal, Kierkegaard, per i quali la fede fu l’esperienza più profonda della loro vita, hanno in qualche modo sentito e conosciuto il dilettante. […] Ma […] il punto di vista della chiesa è questo: senza peccato originale non vi è altro peccato, senza peccato originale il peccatore non è affatto un peccatore bensì appunto un dilettante, un dilettante nel peccato e nella virtù, una creatura vaga, un parassita, uno zingaro e un clown, […] la chiesa non lasciò e non lascia mai crescere l’idea del dilettante, bensì giudica e condanna il dilettante come rivoltoso, perché a lei non serve il singolo e perché nel suo mondo tutto tende alla legge e al giudice supremo».
Seguono poi alcune osservazioni molto penetranti:
«Il dilettante è sempre nel tempo. Anzi, egli sopravvaluta il tempo e i suoi concetti. È proprio da questo che lo si deve riconoscere, dal fatto che ha una concezione così esagerata di tutto ciò che è attuale e dal fatto che riconduce tutto all’attuale. Ed è perciò che egli è senza solitudine e fugace. E privo di un vero presente. […] Nel diciassettesimo e diciottesimo secolo il dilettante sopravvalutava le arti e i sistemi, l’uomo esteriore, l’uomo politico. Nel nostro tempo egli sopravvaluta l’uomo in sé, l’uomo senza misura, senza legame. […] Lo dico subito francamente: il dilettantismo si sviluppa preferibilmente nell’individualismo. […] Ciò significa: perché possa esistere il dilettante l’uomo deve essere già stato portato ad una certa concezione della propria libertà e del proprio significato e deve aver difeso per un certo periodo questa concezione come un bene prezioso e unico, deve aver imparato a essere uomo per amore dell’uomo».
Possiamo notare come queste osservazioni siano affini al tema della sopravvivenza che abbiamo già incontrato in Lasch. Kassner torna quindi ad occuparsi della storia del concetto:
«I greci non hanno un termine per il nostro dilettante. Tuttavia conoscevano la questione. Chi legge Platone potrebbe pensare che i greci conoscessero su tutta la terra solamente artisti e dilettanti. Ma non del tutto. Perché il greco dà valore al fatto di sapere e capire una cosa e non, come noi moderni, al fatto di trarne piacere. Il nostro concetto del dilettante deriva proprio da questo trar piacere da una cosa e dall’arte, mentre per noi è il termine “abborracciatore” che indica colui che non conosce una cosa. Il dilettante greco quindi sarebbe stato piuttosto l’abborracciatore, il non-artista che non capisce la tecnica di una cosa, che affronta male la materia […]. Forse solo Platone introdusse la sfumatura del dilettante nel concetto così semplice e chiaro di non-artista, così come nell’uomo di Platone si ha già l’intuizione dell’individualismo moderno».
Dopo aver trattato di alcune figure affini a quella del dilettante, e del dilettantismo presso vari popoli, l’autore conclude:
«Se per una volta consideriamo il dilettantismo nel senso popolare del termine, così come lo intende la persona istruita che ragiona in modo abitudinario, allora si può affermare che la vita moderna, la nostra epoca non sono adatte per il dilettantismo. […] La macchina piega e distorce l’uomo e l’uomo tramite essa diventa solo un membro, un braccio, cinque dita, due occhi, una nuca, ma non un dilettante. Dov’è allora tra i lavoratori il posto per il dilettante? Non c’è, e dunque noi chiamiamo dilettante colui che non lavora, colui che è dedito ai piaceri, il fannullone».
Queste conclusioni in particolare ci portano ora a dover indagare sulla dicotomia lavoro-divertimento, come sviluppo di quella appena emersa abborracciamento-piacere: cercheremo così di arrivare alla sostanza di questo strano concetto “a due facce”. A tal fine partiamo da alcune interessanti osservazioni contenute nei Pensieri di Pascal. Scrive Pascal:
«L’uomo, per quanto sia pieno di tristezza, se lo si può convincere a partecipare a qualche distrazione, finché questa durerà, sarà felice; e per quanto felice sia, se non è distratto e occupato da qualche passione, o da qualche divertimento che impedisca alla noia di riempirgli l’animo, sarà ben presto scontento e infelice. Senza distrazione non c’è gioia, con la distrazione non c’è tristezza. La felicità delle persone di alta condizione dipende dal fatto di avere intorno molta gente che le distrae, e di potersi mantenere in quella stessa condizione».
E più avanti:
«La sola cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e tuttavia è la più grande delle nostre miserie, perché è soprattutto esso che ci impedisce di pensare a noi stessi, e che, insensibilmente, fa sì che ci perdiamo. Senza il divertimento, saremmo nella noia, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più sicuro per uscirne. Ma la distrazione ci diverte, e ci fa arrivare insensibilmente alla morte».
Pascal riflette quindi sul rapporto che gli uomini hanno col tempo:
«Ciascuno esamini i suoi pensieri: li troverà tutti occupati nel passato o nell’avvenire. Non pensiamo quasi per niente al presente, e se ci pensiamo, è soltanto perché ci illumini per predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono i nostri mezzi; soltanto l’avvenire è il nostro fine. In tal modo, non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e, disponendoci sempre a essere felici, è inevitabile che non lo siamo mai».
Si può dedurre da queste riflessioni, risalenti al diciassettesimo secolo e che riflettono ovviamente quella realtà, che:
1) il divertimento ha una connotazione decisamente negativa, perché è inteso come distrazione, etimologicamente come un “distogliersi da” una realtà sociale rigidissima, praticamente statica, come un’evasione temporanea dalla routine – il divertimento, che non tutti si possono permettere, è un antidoto (molto relativo) alla routine immutabile (Pascal dice proprio «noia», come abbiamo visto);
2) il presente è il tempo della noia, per cui non ci si pensa mai veramente, ma si preferisce “sperare di vivere”, cioè pensare al futuro.
Confrontiamoci adesso con la situazione di un’epoca successiva, e precisamente la seconda metà dell’Ottocento, acutamente analizzata da Walter Benjamin nel saggio “Di alcuni motivi in Baudelaire”. Scrive Benjamin:
«Angoscia, ripugnanza e spavento suscitò la folla metropolitana in quelli che primi la fissarono in volto. In Poe essa ha qualcosa di barbarico. La disciplina la frena solo a stento. […] Muoversi attraverso il traffico, comporta per il singolo una serie di chocs e di collisioni. Negli incroci pericolosi, è percorso da contrazioni in rapida successione, come dai colpi di una batteria. Baudelaire parla dell’uomo che s’immerge nella folla come in un serbatoio di energia elettrica. E lo definisce subito dopo, descrivendo così l’esperienza dello choc, “un caleidoscopio dotato di coscienza”. […] Venne il giorno in cui il film corrispose a un nuovo e urgente bisogno di stimoli. Nel film la percezione a scatti si afferma come principio formale. Ciò che determina il ritmo della produzione a catena condiziona, nel film, il ritmo della ricezione».
Quindi Benjamin, citando Marx, nota:
«“Ogni lavoro alla macchina esige […] un precoce tirocinio dell’operaio”. Questo tirocinio va distinto dall’esercizio. L’esercizio, solo decisivo nel mestiere, aveva ancora una funzione nella manifattura. Sulla base della manifattura “ogni particolare ramo di produzione trova nell’esperienza la forma tecnica ad esso conforme, e la perfeziona lentamente”».
La novità è che la stessa manifattura produce, d’altra parte, una classe di operai non specializzati, che l’azienda di mestiere escludeva rigorosamente.
«L’operaio non specializzato è quello più profondamente degradato dal tirocinio della macchina. Il suo lavoro è impermeabile all’esperienza. L’esercizio non vi ha più alcun diritto. Ciò che il lunapark realizza nelle sue gabbie volanti e in altri divertimenti del genere non è che un saggio del tirocinio a cui l’operaio non specializzato è sottoposto nella fabbrica».
Vale a dire che il divertimento diventa obbligatorio. Scrive ancora Benjamin:
«All’esperienza dello choc fatta dal passante nella folla corrisponde quella dell’operaio addetto alle macchine. […] In ogni caso Baudelaire era lontanissimo da un concetto simile. Ma egli è stato affascinato da un processo dove il meccanismo riflesso che la macchina mette in moto nell’operaio si può studiare nell’ozioso come in uno specchio. Questo processo è il gioco d’azzardo. […] Allo scatto nel movimento della macchina corrisponde il coup nel gioco d’azzardo […] e la schiavitù del salariato fa, in qualche modo, pendant a quella del giocatore. Il lavoro dell’uno e dell’altro è egualmente libero da ogni contenuto».
E inoltre:
«Se si considera il gioco d’azzardo non tanto dal punto di vista tecnico quanto da quello psicologico, la concezione di Baudelaire appare ancora più significativa. Il giocatore mira al guadagno: questo è chiaro. Ma il suo gusto di vincere e far quattrini non si può definire un desiderio nel senso proprio della parola. Ciò che lo occupa intimamente è, forse, avidità, forse una cupa decisione. Comunque si trova in uno stato d’animo in cui non può fare tesoro dell’esperienza. Il desiderio, invece, appartiene agli ordini dell’esperienza».
Benjamin cita poi alcuni versi di Baudelaire, sintetizzandoli da par suo:
«Et mon coeur s’effraya d’envier maint pauvre homme
Courant avec ferveur à l’abîme béant,
Et qui, soûl de son sang, préférerait en somme
La douleur à la mort et et l’enfer au néant.
In questi ultimi versi, Baudelaire fa dell’impazienza il substrato della furia del gioco».
Cosa ci dice, in sostanza, Benjamin? Ci dice che in seguito alla rivoluzione industriale:
1) l’abitante della grande città è sottoposto quotidianamente a una serie di choc, e questo fa sì che cominci ad avvertire un continuo bisogno di stimoli;
2) il lavoro si allontana dal mestiere, perché l’esperienza vi perde ogni importanza;
3) l’esposizione agli choc equivale al tirocinio dell’operaio addetto alle macchine e al gioco d’azzardo;
4) l’esperienza e il desiderio perdono la loro importanza nella psiche dell’uomo.
Ora, se ricordiamo la voce ‘dilettante’ del vocabolario, è evidente che le osservazioni di Pascal hanno a che fare con la prima definizione e quelle di Benjamin con la seconda. Questo di dilettante, infatti, come abbiamo visto, è un concetto duplice. Ma qual è il suo elemento unificante? Con ogni evidenza, non può che essere proprio il desiderio: simmetricamente, desiderio di vivere al di fuori del presente («divertimento» in Pascal) e desiderio di vivere al presente («bisogno di stimoli» in Benjamin).
Qui c’è un’apparente contraddizione: non diceva Benjamin che il desiderio perde importanza nella psiche dell’uomo moderno? Come può essere allora alla base di questo strano concetto che suppongo rilevante nella nostra situazione attuale? Il fatto è che il desiderio di cui parla Benjamin, il desiderio-esperienza, è solo un tipo di desiderio: esiste anche un desiderio inconscio, desiderio “a presa rapida” che esige immediata realizzazione e di conseguenza fa a meno dell’esperienza.
5. Forme del desiderio
Parlando del desiderio, è necessario riconoscerne la natura ambigua. Come dice Fabio Ciaramelli:
«Il desiderio dell’altro […] implica allora una trasformazione profonda del desiderio inconscio. Se infatti quest’ultimo è caratterizzato dal godimento immediato del suo oggetto, e quindi dalla totale assenza dello scarto temporale tra il desiderio e il suo soddisfacimento, il desiderio dell’altro ha una struttura inevitabilmente trasversale, indiretta od obliqua. Il punto decisivo è che il desiderio inconscio non ha autentica alterità, confinato com’è all’interno della vita psichica originaria. […] Ma - - come ci ricorda Levinas - - il desiderio autentico non aspira al ritorno proprio perché, lungi dal tendere a ciò da cui procede, s’orienta verso l’estraneità dell’altro - - vale a dire verso quanto eccede la sua origine all’interno stesso del soggetto. […] L’originario si configura perciò come radicale non immediatezza, cioè come esplosione verso un’alterità estranea al proprio, ma fin dall’inizio, in virtù della sua stessa assenza, implicata nel proprio. […] Il desiderio umano è ambiguo, proprio perché è al tempo stesso pulsionale e indiretto, cioè culturalmente codificato. […] La deriva del desiderio - - il suo movimento indiretto verso sempre parziali forme di appagamento e soddisfacimento differito - - è originaria proprio perché il desiderio non è mai immediato e diretto ma fin dall’inizio coinvolto nella mediazione istituita. […] Tra desiderio inconscio e desiderio sociale, centrale è il ruolo della rimozione originaria come rinuncia all’immediato».
Per riassumere, il concetto di dilettante appare dunque costituito in primo luogo, in negativo, da due elementi (divertimento e non-specializzazione), ma anche, in positivo, dal desiderio; a sua volta lo stesso desiderio è ambiguo, in quanto al tempo stesso pulsionale e culturalmente codificato. Abbiamo così addirittura una doppia ambiguità.
Concentriamoci a questo punto sui “nemici” del desiderio. Uno, come abbiamo visto, è il desiderio stesso rivolto all’indietro verso una pienezza originaria che non è che un suo fantasma: il desiderio inconscio (ossia il bisogno). Ma ce n’è un altro, non meno importante: la frustrazione, cioè la continua mancata gratificazione del desiderio. Se nel caso del desiderio inconscio si ha, all’estremo, una specie di delirio di onnipotenza, in quei casi in cui l’entità della frustrazione è così elevata da superare i limiti di tolleranza da parte del soggetto si ha apatia (indifferenza, demotivazione totale) e angoscia (agitazione incontrollabile) o, per meglio dire, una tenaglia ristagno-parossismo del desiderio che, come nel primo caso, ne indica la regressione a uno stato barbarico. La differenza è che in quest’ultimo caso la barbarie è compressa e concentrata, mentre nell’altro è diluita e uniforme. Entrambi i casi sono poi diversi da quello della speranza.
Leopardi diceva che la speranza è «una quasi stessa, o certo inseparabil, cosa col desiderio», ma ciò è vero solo in un senso ben definito: il desiderio, infatti, è avvertimento di una mancanza, ma bisogno consapevole, energia applicata a uno scopo, mentre la speranza è oscillazione derivante dal timore che questa mancanza non sarà colmata; per cui possiamo dire che la speranza è sì desiderio, ma intermittente, traballante, è desiderio misto a paura (il che, per inciso, spiega come mai la speranza sia sempre tenuta in gran conto, Bloch a parte, dai potenti e dai mistificatori di tutte le risme).
Facciamo alcuni esempi tratti dall’arte cinematografica (c’è da dire che in genere gli artisti “sentono” il proprio tempo meglio di molti intellettuali).
Il primo esempio da prendere in considerazione è Charlot di Charlie Chaplin. Pur tenendo presente che Charlot non è un personaggio ma una maschera, si può sinteticamente affermare che egli è un vagabondo, un escluso che non vorrebbe altro che l’integrazione nella società, integrazione che si dimostra (con l’eccezione di pochi film) impossibile. Ad ogni modo, è questa la faccia di Charlot entrata nell’immaginario collettivo: un poveraccio continuamente sulla difensiva, pur con i suoi sberleffi e le sue irriverenze, uno straccione mosso unicamente dal bisogno, e principalmente dal bisogno più elementare, la fame (memorabile la scena di La febbre dell’oro in cui Charlot vede il suo compagno d’avventura sotto le sembianze di un pollo gigante). Per cui Charlot, il vagabondo, è una maschera del desiderio inconscio.
Consideriamo adesso un altro personaggio famosissimo: l’Alex De Large di Arancia meccanica di Stanley Kubrick. Alex è il capo di una banda di giovani teppisti dediti a violenze e stupri, e la sua “filosofia” si può dedurre facilmente dalla risposta che dà ai compagni quando gli propongono di fare un grosso colpo, «un bel colpo da adulti», per avere tanti soldi: «Non hai tutto il necessario? Se volete una bella auto la cogliete dall’aiuola stradale, se ti servono i tintinnanti li gratti, no?». Anche qui, come si vede, siamo nel regno del desiderio inconscio, dell’appagamento immediato. Alex, però, è il vagabondo della società dei consumi, e ha un destino decisamente diverso da quello di Charlot: dopo aver tentato di “rieducarlo”, infatti, il governo fa marcia indietro riportandolo alle sue vecchie abitudini; mentre Alex è immobilizzato a letto, convalescente, il ministro va a fargli visita e lo imbocca. Il capitalismo, dunque, che imbocca il vagabondo.
Il terzo esempio cinematografico da considerare è Fantozzi. Fantozzi è il leggendario ragioniere maltrattato da tutti, perennemente alle prese con contrattempi e angherie, che subisce in continuazione ma cui occasionalmente si ribella. Le sue ribellioni non sono però mai preordinate, ma avvengono del tutto spontaneamente, come scatti improvvisi: come dimenticare l’impietosa stroncatura del film La corazzata Potëmkin, o l’ira funesta contro la statua della madre del megadirettore (contro la quale, per la fretta, ogni mattina andava puntualmente a sbattere)? Fantozzi è un frustrato: siamo quindi dalle parti di quella che ho definito “tenaglia ristagno-parossismo del desiderio”. Bisogna aggiungere che Fantozzi è un professionista: molto scrupoloso nel suo lavoro, al punto da svolgere spesso e volentieri anche quello dei colleghi cialtroni, il suo mondo è un mondo gerarchico e formale (ci si dà sempre del lei, anche a sproposito), tutti si chiamano non per nome ma per titolo (ragioniere, geometra, ecc.), e la condizione lavorativa ha un peso tanto determinante, seppure in negativo, che gli impiegati sono seguiti da nuvole minacciose («ogni impiegato ha la sua nuvola personale»); inoltre Fantozzi, una volta andato in pensione, sente nonostante tutto nostalgia del lavoro, arrivando perfino a farsi riassumere (in nero) dalla megaditta. La costante è che, lavoro o non lavoro, Fantozzi è trattato da tutti quelli con cui ha a che fare come una nullità assoluta (una «merdaccia»), e la sua vita è decisamente squallida.
Ora, se confrontiamo il tragico destino di Ugo Fantozzi con quello di Alex De Large, vediamo facilmente che l’antitesi non può essere più totale. Stando alle indicazioni che ci vengono da queste immortali creazioni artistiche, dobbiamo riconoscere questo: la società a capitalismo avanzato ha stabilito che Alex è più utile di Fantozzi, che il vagabondo è più utile del professionista. E ciò avviene per la diversa forma che il desiderio assume nelle due tipologie: desiderio ristagnante-parossistico nel caso del professionista, desiderio inconscio nel caso del vagabondo.
Scrive Ciaramelli:
«La dimensione creativa del desiderio è frustrata e disconosciuta nell’immaginario narcisistico dell’età dei consumi di massa, al cui interno prevale e s’impone con prepotenza il modello ripetitivo dell’appagamento immediato da realizzarsi, da parte di pochi privilegiati, attraverso il meccanismo autoreferenziale del consumo e del possesso. Tutto cospira e deve cospirare ad annullare gli ostacoli che si frappongono all’agognata gratificazione. Ecco perché si tende ad abolire la mediazione, disintegrando lo spazio dei simboli. In conseguenza di ciò, differimento, deviazione e quant’altro contribuisca a rimandare il possesso dell’oggetto viene denigrato e tendenzialmente espunto dalla struttura del desiderio. […] Che la corsa a sempre nuovi oggetti di consumo resi appetibili dal proliferare contagioso e mimetico del desiderio sia una farsa triste e grottesca per un numero crescente di disperati, non le impedisce di occupare il centro dell’immaginario collettivo nell’epoca della globalizzazione. Ragion per cui caratteristica e contraddizione che domina il nostro tempo è l’inflazione del desiderio, tenuto in considerazione solo in quanto costituisce l’unico tramite efficace in vista dell’induzione indispensabile di sempre nuovi bisogni».
Per quanto riguarda la scomparsa dell’etica del lavoro, già nei primi anni Sessanta del secolo scorso Henri Lefebvre scrive:
«In altri tempi, quando l’artigianato, la corporazione, il mestiere avevano ancora molta importanza, l’uomo sociale per eccellenza, il lavoratore, si formava nel e con il lavoro. In questo senso la genesi dell’essere individuale riproduceva la genesi dell’uomo sociale. La situazione era relativamente semplice. Attitudini e comportamenti “fuori del lavoro” provenivano più o meno direttamente, ma essenzialmente, dal lavoro. L’individuo “era” questo o quello: minatore, carpentiere, muratore, professore… Il mestiere determinava quasi completamente la vita quotidiana. Creava dei tipi umani ben differenziati […]. Oggi, nei paesi industriali avanzati, questa situazione relativa del lavoro e del “fuori-lavoro” tende a rovesciarsi. Uno spostamento dei centri d’interesse si compie. È l’attitudine verso il lavoro che si forma nella vita quotidiana […]. Più precisamente: un tempo il lavoro possedeva un “valore” in senso etico come in senso economico. C’erano i “valori” del lavoro: il lavoro ben fatto, il prodotto considerato ancora come un’opera personale, comparabile sino a un certo punto all’oggetto creato dall’artigiano o dall’artista, e così via. Con la divisione parcellare del lavoro (e nelle fabbriche con l’entrata in massa degli operai “comuni”, manovali specializzati sulle macchine) quell’etica tradizionale si è polverizzata. Il lavoro non attira più nessuno».
D’altra parte, che il vagabondo (cioè, in sostanza, il sottoproletario) sia ormai integrato nella società attuale è confermato dal fatto che anche chi per lungo tempo gli ha attribuito potenzialità rivoluzionarie si è dovuto ricredere.
Quello che mi pare innegabile, in ogni caso, è il declino del professionismo. La divisione del lavoro permane ed è anche molto rigida, ma il professionista, in quanto professionista, non conta più niente.
6. Precarizzazione, ruoli, ideologia
Resta da vedere se in quest’ultima fase dello sviluppo capitalistico la situazione sia la stessa, ai nostri fini, di quella che abbiamo visto analizzata da Benjamin e Lefebvre, o se invece siano intervenuti mutamenti sostanziali. Scrive Vittorio Rieser (in un saggio che è senz’altro il caso di citare dettagliatamente) che
«non c’è dubbio che etichettare la fase attuale del capitalismo come “post-fordista”, così come etichettarla in termini di “globalizzazione”, abbia una componente ideologica, che offusca alcuni elementi della realtà. Esaltandone altri. Ma, al tempo stesso, non c’è dubbio che la fase attuale presenti forti elementi di discontinuità rispetto alla precedente: in particolare, rispetto alla qualificazione del lavoro e al mercato del lavoro (esterno e interno all’impresa) in cui essa si muove […]. In realtà, è cambiato il terreno su cui si innesta (e quindi si misura) la qualificazione del lavoro, dall’organizzazione del lavoro al suo mercato - e quindi alcune dispute sull’aumento o diminuzione della qualificazione non hanno senso, se non si ridiscutono i criteri con cui la si analizza e la si misura. Per di più, questo mutamento di terreno non è omogeneo. Vi sono ampie porzioni dei processi produttivi dove, almeno prima facie, i vecchi criteri funzionano […]. Per questo, per cogliere complessivamente questo mutamento generale ma disomogeneo del terreno, è opportuno partire da un livello di astrazione più elevato: in queste note proponiamo di ripartire dal concetto marxiano di “lavoro astratto”».
Il “lavoro astratto”, secondo quanto afferma Marx nei Grundrisse, è
«“[…] lavoro puro e semplice, […] assolutamente indifferente a una particolare determinatezza, […] quanto più il lavoro perde ogni carattere artigianale, la sua particolare rifinitezza diventa sempre più qualcosa di astratto e indifferente, ed esso diventa progressivamente attività puramente astratta, attività puramente meccanica, e perciò indifferente, indifferente alla sua forma particolare; attività semplicemente formale, o, che è lo stesso, semplicemente materiale, attività in generale, indifferente alla forma”. Il carattere “astratto” del lavoro cresce con il livello di sviluppo capitalistico […]. Ma, al tempo stesso, vi sono notazioni come questa: “[…] il capitale spinge il lavoro oltre i limiti dei suoi bisogni naturali, e in tal modo crea gli elementi materiali per lo sviluppo di una individualità ricca e dotata di aspirazioni universali, nella produzione non meno che nel consumo”. Il “lavoro astratto” è stato spesso sinteticamente definito come “lavoro senza qualità”. Certo, però esattamente nel senso in cui il protagonista del romanzo di Musil è “uomo senza qualità”: […] senza qualità proprie, non (necessariamente) “di bassa qualità”. Tale lavoro può presentare qualità professionali elevatissime, e però non sono “sue”, non sono “di sua proprietà”, ma derivano (quando va bene, o vengono negate, quando va male) dal suo rapporto col capitale; entrano (o non entrano) in funzione nel rapporto subordinato col comando capitalistico. Forse, più propriamente, anziché “senza qualità” (che in italiano può dar luogo ad equivoci), si potrebbe definire in termini di “qualità alienata”. […] Nelle fasi precedenti dello sviluppo capitalistico, la fascia (sia pure minoritaria e in diminuzione) dei lavoratori di elevata professionalità si caratterizzava anche per il fatto che tale professionalità era, in qualche modo, patrimonio personale del lavoratore, che poteva “portarsela con sé” sul mercato del lavoro e lungo l’arco della sua vita lavorativa. Oggi, assistiamo a una scissione crescente tra elevata qualificazione e “possesso personale” della qualificazione stessa. […] La qualificazione si presenta così come una sommatoria di micro-processi di apprendimento, spesso tra loro eterogenei, la cui sequenza non è controllata dal lavoratore».
Per concludere,
«l’eterogeneità dei processi di apprendimento richiesti per non essere “tagliati fuori” riduce il peso dell’accumulazione di esperienza (sia nel senso “micro”, relativo alla mansione specificata, sia in quello “macro”, relativo al tipo di qualificazione acquisita), e aumenta quello del livello scolastico e dell’età (il giovane è più atto a processi di apprendimento mutevoli ed eterogenei che non l’anziano). […] Ciò significa - tra l’altro - che anche il livello formativo diventa “astratto”, non è più patrimonio su cui il lavoratore può investire prevedendo il suo “rendimento”, ma è solo un “biglietto di ingresso” indispensabile per entrare nel mondo del “lavoro astratto” (eventualmente) qualificato».
Fin qui Rieser. Ma c’è di più.
«La terziarizzazione del lavoro, connessa ai processi di outsourcing, all’espansione strategica delle funzioni di servizio incorporate nelle merci e alla mercificazione dei beni relazionali, ha sviluppato rappresentazioni del lavoro fortemente centrate sulla potenza costruttiva del soggetto al lavoro, svincolato da un contesto formale di subordinazione. Queste culture, cresciute all’interno dei processi di esodo delle soggettività dall’ideologia novecentesca del lavoro e sussunte dentro ai processi di trasformazione delle economie produttive, hanno prodotto la centralità della dimensione imprenditiva del lavoro: l’apologia individualistica del rischio e della sfida, della creatività e della capacità innovativa, sono l’espressione di questa rinnovata retorica della potenza autogenerativa del soggetto al lavoro. […] Si consideri inoltre come i processi di terziarizzazione e le conseguenti centralità assunte dalle pratiche cognitive di produzione, manipolazione e innovazione di simboli, informazioni e linguaggi tendano a dare un’immagine della soddisfazione lavorativa svincolata dal perseguimento di un risultato utile e remunerativo e si esprimano invece […] come capacità del soggetto, non solo e non tanto di eseguire un compito con sufficiente cura e professionalità, quanto piuttosto di mettere in atto qualità creative di produzione del compito stesso; […] il lavoro come imprenditività si avvicina allo statuto del gioco; la contingenza, l’imprevedibilità, l’inevitabile provvisorietà della propria condizione producono un depotenziamento dell’esperienza e della sua funzione nei processi di crescita e socializzazione dell’individuo, costringendo ad un pensiero centrato sul presente, sul qui ed ora, alieno a qualsiasi ipotesi di progetto e di sedimentazione dell’esperienza come condizione di accesso al reale e alla maturità psichica».
Possiamo allora constatare come, nonostante i cambiamenti intervenuti in quest’ultima fase “post-fordistica”, il nostro ragionamento sul dilettantismo ne esca rafforzato: è su questo substrato di precarizzazione che si sviluppa la tendenza al dilettantismo emersa dall’analisi precedente. Abbiamo visto che, in positivo, il lavoratore “astratto”, come il dilettante, ha delle potenzialità che vanno in direzione dell’universalità; ma può esistere un dilettantismo di questo tipo nella società capitalista? Come scrive il giovane Marx:
«L’uomo si appropria del suo essere onnilaterale in maniera onnilaterale, e quindi come uomo totale. Tutti i rapporti umani che l’uomo ha col mondo […] sono nel loro comportamento oggettivo o nel loro comportamento di fronte all’oggetto, l’appropriazione di questo stesso oggetto. […] La proprietà privata ci ha resi così ottusi ed unilaterali che un oggetto è considerato nostro soltanto quando lo abbiamo, […] quando viene da noi usato […]. La soppressione della proprietà privata rappresenta quindi la completa emancipazione di tutti i sensi e di tutti gli attributi umani; ma è una emancipazione siffatta appunto perché questi sensi e questi attributi sono diventati umani, sia soggettivamente sia oggettivamente. L’occhio è diventato occhio umano non appena il suo oggetto è diventato un oggetto sociale, umano, che procede dall’uomo per l’uomo. […] Il bisogno o il godimento hanno perciò perduto la loro natura egoistica, e la natura ha perduto la sua mera utilità, dal momento che l’utile è diventato l’utile umano».
Lefebvre aggiunge:
«L’uomo totale non è davanti a noi che un orizzonte al di là del nostro orizzonte. È un limite, un’idea, e non un fatto storico. Tuttavia dobbiamo “storicizzare” la nozione, pensarla storicamente e socialmente. E non alla maniera ingenua di coloro che credevano in una brusca apparizione, nella storia, dell’uomo nuovo, completo, che ha tutte le qualità sino allora incompatibili, vitalità e lucidità, umile coraggio nel lavoro e grande entusiasmo creatore».
La realtà, evidentemente, è ben diversa. L’individuo, infatti, vivendo in società, si scontra necessariamente col problema dei ruoli, che è stato affrontato da Vaneigem.
«Il ruolo è un consumo di potere. Esso colloca nella rappresentazione gerarchica, dunque nello spettacolo; in alto, in basso, nel mezzo, mai al di qua o al di là. […] Residuo della separazione, si sforza infine di creare un’unità del comportamento; in quanto tale, esso fa appello all’identificazione».
Continua Vaneigem:
«Il ruolo è quella caricatura di sé che si porta dappertutto, e che dappertutto introduce nell’assenza. Ma l’assenza è ordinata, addobbata, infiorata. […] Il fatto è che l’identificazione, come ogni disumanità, trova origine nell’umano. La vita inautentica si alimenta di desideri provati autenticamente. E l’identificazione mediante il ruolo fa doppio bottino: recupera il gioco delle metamorfosi, il piacere di mascherarsi e di trovarsi dappertutto sotto tutte le forme del mondo […]. Essa recupera anche il riflesso d’identità, la volontà di trovare negli altri uomini la parte più ricca e più autentica di sé. […] Più cose e ruoli si hanno, più si è; così ha deciso l’organizzazione dell’apparenza. Ma dal punto di vista della realtà vissuta, tanto si guadagna in grado di potere quanto si perde in volontà di realizzazione autentica. Si guadagna in apparire quanto si perde in essere e in dover-essere».
Per difendersi da tutto ciò, si tratta di avere un certo distacco nei confronti dei ruoli che permetta, se non la libertà assoluta, che è impossibile, una sufficiente leggerezza di movimento. Ma ad ogni modo:
«Gli arruolamenti successivi logorano i travestiti. […] Non soltanto la moltiplicazione dei ruoli tende a renderli equivalenti, ma oltretutto li frammenta, li rende derisori. […] Ci sono sempre meno grandi ruoli, sempre più comparse».
A un livello più alto c’è poi il problema degli specialisti, che sono, secondo l’espressione di Vaneigem, gli «scienziati del ruolo». Osserva a tal proposito Porcaro:
«In effetti un determinato grado di specializzazione sembra inevitabile. […] La specializzazione sembra connessa a qualsiasi forma di organizzazione stabile. […] Ciò che può e deve essere eliminato, ad opera della politica comunista, non è tanto la specializzazione, quanto la specializzazione antagonista. Si ha specializzazione ogni volta che ad un agente di un determinato ambito sociale viene concesso tempo per aumentare la propria conoscenza del funzionamento di tale ambito e, dunque, per divenire dirigente. […] Si ha invece specializzazione antagonista ogni volta che un ambito sociale venga diretto secondo logiche diverse da quelle che gli sono proprie, e dunque attraverso un linguaggio di comando che non è quello comune a tutti gli agenti. In tal caso agli altri agenti non può essere concesso tempo per accedere al linguaggio di comando sia perché tale tempo dovrebbe essere eccessivo (trattandosi di un linguaggio qualitativamente diverso da quello comune agli agenti), sia perché essi tenderebbero a tradurre il linguaggio di comando nel linguaggio loro proprio, ostacolando così l’imposizione di una logica alternativa a quella dell’ambito specifico. […] La politica comunista, insomma, non può proporre la completa abolizione dei ruoli direttivi, ma può proporre una fluidificazione di questi ruoli sulla base dell’aderenza al linguaggio proprio di un ambito specifico (e dunque dei suoi agenti) e della liberazione di tempo per la crescita individuale e collettiva».
Dopo esserci occupati del dilettantismo (im)possibile in una società capitalista, è venuto il momento di parlare del suo utilizzo come ideologia, ovvero dei principi dell’ideologia berlusconiana. L’ideologia berlusconiana, non esplicitamente dichiarata ma veicolata con le parole e gli atti direttamente dal capo carismatico, e agevolata dalla sedimentazione di un senso comune “dilettantistico”, di cui si è detto, si può riassumere grosso modo in questi pochi principi di fondo: volere è potere; non c’è niente da sapere; chiunque può fare qualunque cosa. Si tratta cioè di un’ideologia fortemente volontaristica basata sul desiderio, e precisamente su quello che abbiamo chiamato desiderio inconscio.
Questi principi spiegano facilmente tre cose.
La prima è l’ossessione per la “sicurezza”: infatti, se chiunque può fare qualunque cosa, nessuno può essere davvero sicuro del fatto suo, e tutti sono costantemente minacciati da altri soggetti incontrollabili; è significativo però che questa insicurezza venga accuratamente tenuta lontana dall’ambito lavorativo (cioè dalla precarietà) e indirizzata dai manovratori di questa ideologia in direzione di capri espiatori più o meno estemporanei (prima gli albanesi, poi i rumeni, poi i rom, ecc.: c’è da dire che al giorno d’oggi anche i capri espiatori sono “a tempo determinato”…). L’importante, nel mondo della politica apparente, è che il lavoro sia ridotto in clandestinità: per dirla con Shakespeare, non bisogna nominarlo; appena lo nomini, non c’è più.
La seconda cosa che si può spiegare a partire dai principi suddetti è l’“anti-giustizialismo”, che poi non è altro che invincibile avversione per la magistratura. Scrive Lefebvre:
«Il sentimento o il desiderio non scelgono affatto. Vorrebbero ad un tempo scegliere e non scegliere e possedere tutte le incompatibilità: molti mestieri, molte possibilità, molti futuri, molti amori. La pratica, ovvero l’esigenza dell’atto e della decisione, impone la scelta. Ma scegliere è giudicare».
Il dilettante è l’opposto del giudice. E l’avversione berlusconiana per i magistrati è ben nota: Berlusconi arrivò a dichiarare che i giudici «sono antropologicamente diversi dalla razza umana».
Quello che forse è sfuggito a molti è che, fra le altre cose, Berlusconi dev’essere anche un raffinato antropologo, dato che a dicembre del 2007, contestato a Cinecittà dai giovani dei centri sociali (e colpito da un uovo), li ha così apostrofati: «Sono arrivato a pensare che siamo antropologicamente diversi» (confermando involontariamente quanto aveva detto a suo tempo Pasolini). Non può essere un caso. Cosa ci dicono queste fisime “antropologiche” di Berlusconi? Ci dicono che non parla a un popolo indistinto, come avveniva nelle forme precedenti di populismo, ma solo ed esclusivamente ai suoi simili, il che è poi ciò che intende Pizzorno per «stile ideologico» di far politica. Se di messia si tratta, non si tratta di un messia combattente: non è sua intenzione convertire gli infedeli, ma catalizzare (e capitalizzare) qualcosa che esiste già, seppure allo stato brado. Insomma Berlusconi ha trovato la vacca da mungere, e la munge indisturbato.
La terza cosa che questa ideologia del dilettantismo spiega facilmente è la scarsissima sensibilità al famoso tema del conflitto di interessi: volete che un dilettante, che per definizione supera (o attraversa come un fantasma) i ruoli, sia anche solo vagamente consapevole di una problematica del genere? Per lui è perfettamente naturale accumulare i ruoli, magari svolgerli tutti contemporaneamente, come il grande capo fa o vorrebbe fare.
Va da sé, inoltre, che l’attacco frontale a questa ideologia sui generis non funziona (l’ideologia opposta sarebbe il “professionismo”: competenza, serietà, precisione, ecc.; ma essa è inutilizzabile dopo la mutazione di cui si è parlato in precedenza). Peraltro viene ribadito che chi è per le regole «attacca la libertà» (in realtà il desiderio, che è cosa diversa), è «illiberale», «antidemocratico», e così via: il desiderio non viene chiamato con il suo nome, ma viene travestito da libertà.
A questo punto cominciamo a tirare le somme dicendo, senza alcun intento polemico, innanzi tutto cosa non è il berlusconismo.
È stato detto che il berlusconismo è dispotismo, perché tende all’unificazione dei poteri, al loro accentramento anziché alla loro divisione, come invece prescrive il liberalismo; ma, se è vero che la divisione dei poteri non è certo un caposaldo del berlusconismo, è anche vero che il loro accentramento è pur sempre tendenziale, relativo, cosicché si può parlare al massimo di dispotismo potenziale, non certo attuale.
Si è parlato poi, al contrario, da parte degli apologeti, proprio di liberalismo; ma questa è una tesi che davvero non sta in piedi, per quanto appena detto e per un’acuta osservazione di Pizzorno:
«la cerchia delle posizioni più importanti, quelle prossime al centro [della società], sfugge, almeno apparentemente, alla regola che le vorrebbe strettamente correlate. […] Il fatto è che quando si penetra in questa cerchia centrale, il concetto stesso di ruoli distinti e isolabili non è più adeguato, e così cade ogni problema di correlazione o meno tra di essi. Più esattamente, i ruoli che potevamo distinguere secondo una certa classificazione strutturale ai livelli non altissimi della divisione dei compiti sociali tendono a congiungersi, e come a far corpo unico, quando ci si avvicina al centro, […] il potere che si realizza in un certo ambito di rapporti sociali si riversa automaticamente in tutti gli altri ambiti. I ruoli […] tendono a fondersi in un solo ruolo onnicomprensivo, che si esprime, fra l’altro, nella figura privata pubblicizzata».
Questa è la base concreta del dilettantismo berlusconiano: dov’è in tutto ciò il liberalismo?
Un altro paragone che è stato fatto è quello col qualunquismo; ma il qualunquismo aborriva in ugual modo tutti i partiti, tutte le ideologie, mentre il berlusconismo ha costantemente guardato a destra, aborrendo unicamente i «comunisti» (anche se con questo termine indica indistintamente tutti quelli che sono “antropologicamente diversi”).
Si è parlato, infine, del berlusconismo come neofascismo; ma, in primo luogo, il fascismo è statalista mentre il berlusconismo è anti-statalista; in secondo luogo, il fascismo è guerrafondaio mentre il berlusconismo, quando va in guerra, ci va di soppiatto (in occasione della guerra in Iraq Berlusconi disse: «Andiamo in Iraq ma non siamo belligeranti»…); terzo, come diceva Trotsky, «il fascismo è un’organizzazione di lotta della borghesia nel momento e per i bisogni d’una guerra civile»: dunque, niente guerra civile, niente fascismo; quarto, la struttura caratteriale del fascista deriva, secondo Reich, dall’inibizione della sessualità naturale, cosa che non corrisponde certo alla nostra realtà attuale.
A maggior ragione trovo fuori luogo parlare del berlusconismo come «autobiografia della nazione», se teniamo conto che, nonostante tutto, dal suo apparire fino ad oggi esso è stato sempre minoranza nel Paese.
La mia definizione del berlusconismo è invece la seguente: il berlusconismo è un fenomeno populistico che utilizza il dilettantismo come ideologia a fini reazionari.
Ma il dilettantismo può costituire sia un semplice serbatoio di voti per l’Omino di burro nel Paese dei balocchi che una tappa di avvicinamento all’uomo totale. La differenza è la stessa che passa fra bisogno e desiderio.
«Tra bisogno e desiderio vi sono molte mediazioni. A dire il vero, vi è tutto: la società intera (attività produttrice e modalità del consumo), la cultura, il passato e la storia, il linguaggio, le norme, le ingiunzioni e i divieti, la gerarchia dei valori e delle preferenze. Il desiderio non diviene tale se non è assunto dall’individuo attraverso i suoi conflitti, voluto e accettato, confrontato coscientemente con il “bene” (l’oggetto) e il godimento apportato da quel bene. Non diviene veramente desiderio che divenendo potenza vitale e spirituale, accettata e esercitata dall’individuo, vita metamorfizzata in coscienza creatrice, creante e creata: ridivenendo bisogno. Inizialmente, il bisogno è natura; diviene opera e si realizza in opere».
In conclusione, è difficile dire se il berlusconismo sopravviverà al suo leader, ma, che questo accada oppure no, c’è da scommettere che dovremo continuare comunque a fare i conti con la sua ideologia: il dilettantismo.
[maggio 2009]