ARCHIVIO TEMATICO (in allestimento. Pronto l'indice dei redattori)

mercoledì 28 settembre 2011

Alcune note sull'articolo “Tornare alla lira e cancellare il debito?”, di Riccardo Achilli




L'articolo recentemente comparso su Utopia Rossa, a firma di Michele Nobile, intitolato “Tornare alla lira e cancellare il debito?” illustra una posizione attenta, che va al di là delle banalità e degli slogan, e nell'insieme interessante e condivisibile. Nella sostanza, l'articolo in questione, che può essere letto al seguente link http://utopiarossa.blogspot.com/2011/09/tornare-la-lira-e-cancellare-il-debito.html confuta l'efficacia, e persino la praticabilità concreta, di provvedimenti animati da spirito rivoluzionario, ma condotti in modo parziale e a livello nazionale, come la recenta proposta di far uscire l'Italia dall'area-euro e di nazionalizzarne il sistema bancario, lanciata dall'appello dell'assemblea di Chianciano. L'articolo di Nobile sostiene, a mio parere fondatamente, la tesi secondo cui tali provvedimenti, se condotti isolatamente e su base nazionale, finiscono per favorire la stessa borghesia e per far pagare il conto ai proletariati degli altri Paesi.
La posizione assunta da tale articolo è quindi interessante, e fa piazza pulita di luoghi comuni e facili soluzioni. Ma, come tutte le posizioni interessanti, stimola anche ulteriori riflessioni, e apre la porta ad ulteriori affinamenti dell'analisi, mirati ad arricchirla, introducendo necessari elementi di complessità, rispetto ad un tema, come quello dell'euro e della crisi dei debiti sovrani, estremamente complesso. E' sempre opportuno, a mio parere, partire dall'assunto che la costruzione dell'euro è stata una invenzione del capitalismo finanziario europeo, al suo esclusivo e totale servizio. Di fatto, un'area monetaria unica favorisce in modo straordinario l'investimento finanziario, eliminando il rischio di cambio e stabilizzando le aspettative inflazionistiche verso il basso. Va evidenziato infatti che la consistenza totale di titoli non azionari denominati in euro passa dai circa 6.000 miliardi di inizio 1999 ai 14.000 miliardi di inizio 2010; i prestiti bancari ad intermediari finanziari non bancari (tipicamente erogati a fronte di investimenti finanziari) nell'area euro crescono costantemente dal 2000 fino al 2009, a tassi tendenziali che raggiungono anche il 25% . La costituzione dell'euro si rivela quindi un ottimo viatico per gli affari conclusi dagli operatori finanziari globali. Peraltro, l'introduzione dell'euro ha anche ocnsentito una maggiore integrazione del mercato finanziario europeo in quello globale. Il saldo netto degli investimenti di portafoglio, nella bilancia dei pagamenti dell'area-euro, che fino a fine 2000 era negativo per circa 2 punti di PIL, dall'inizio del 2001 diviene strutturalmente positivo, raggiungendo valori pari al 3,5% del PIL dell'area-euro nel 2007, e segnalando quindi un crescente interesse per il mercato finanziario europeo da parte di investitori finanziari esterni (fonte dei dati: Banca d'Italia).
Oltre agli interessi legati ai mercati finanziari, la realizzazione dell'euro ha risposto anche ad interessi industriali dei Paesi forti, Germania in primis. Il progetto di moneta unica è stato realizzato, superando le resistenze tedesche nel rinunciare al marco ed alle politiche monetariste austere della Bundesbank, offrendo in cambio la possibilità di far cessare le politiche di svalutazione competitiva attuate dalle economie più deboli, sotto il profilo della disciplina di finanza pubblica ed inflazionistica, che avevano consentito a tali economie di conquistarsi posizioni vantaggiose sul mercato interno tedesco. La condizione posta dalla Germania (ma in realtà posta dai grandi operatori finanziari globali, i veri beneficiari dell'introduzione dell'euro) per far partire l'euro è stata chiara: mai più un utilizzo allegro del tasso di cambio, che avrebbe alimentato tensioni inflazionistiche controproducenti per il rapido sviluppo degli investimenti sui mercati finanziari europei. La volatilità dei prezzi induce infatti indesiderabili elementi di incertezza e rischio nelle transazioni finanziarie di medio termine. La riconduzione, con l'introduzione dell'euro, delle politiche valutarie di tutti i Paesi aderenti verso il paradigma della “valuta forte” che ha da sempre guidato il dogma monetarista Bundesbank, richiede politiche fiscali e monetarie austere, mirate alla fissazione di target inflazionistici decrescenti, con tutto ciò che tali politiche austere comportano sugli assetti distributivi e sulla coesione sociale. Inoltre, l'impossibilità di manovrare la leva delle svalutazioni competitive per sostenere le esportazioni implica, per i Paesi dell'euro, la necessità di rafforzare la competitività strutturale dal lato dell'offerta, tramite una crescente destrutturazione dei mercati del lavoro e dei diritti dei lavoratori, mirate all'obiettivo di aumentare il valore del rapporto fra produttività e costo dei fattori produttivi. Non va infine dimenticato che una unione monetaria fra Paesi con piena sovranità sulle loro politiche fiscali presuppone, per la sua stessa sopravvivenza rispetto a possibili attacchi speculativi, una omogeneità dei parametri fondamentali di inflazione e finanza pubblica, e poiché la situazione di partenza dei Paesi aderenti era (ed è tuttora) molto diversificata, l'unione monetaria richiede un continuo sforzo di riduzione dei disavanzi e dei debiti pubblici rispetto al PIL e di contenimento delle tensioni inflazionistiche, tramite politiche economiche di tipo fondamentalmente monetarista e liberista, sforzo sancito nel patto di Maastricht e successivamente nel patto di stabilità, e che viene pagato tramite una compressione della spesa sociale.
Tutto ciò si traduce in una gigantesca operazione di ristrutturazione sociale ai danni dei proletariati nazionali dei Paesi dell'euro, che la recessione economica non può che accelerare. Infatti, il modello di politica economica impostosi con l'avvento dell'euro è basato sullo smantellamento dei residui delle politiche keynesiane dal lato della domanda e sul rafforzamento degli interventi di irrobustimento della competitività dal lato dell'offerta. La spesa complessiv per protezione sociale, nei Paesi dell'area-euro, passa dal 26,8% del PIL nel 1997 al 25,8% nel 2007. I risultati di ciò sono evidenti. L'indice del Gini, che misura la sperequazione nella distribuzione del reddito, ed il cui valore aumenta all'aumentare delle diseguaglianze distributive, nella UE-15 cresce da un valore di 29,0 nel 1999 ad uno di 30,2 nel 2007 (cioè prima che gli effetti della recessione lo facessero crescere ulteriormente); la popolazione a rischio di caduta in povertà, nell'area-euro, aumenta di circa 3,6 milioni di unità fra 2003 e 2009, la popolazione in condizioni di “grave deprivazione”, quindi che ha superato il rischio di povertà, essendovi pienamente caduta, sempre nell'aera-euro e sul medesimo periodo, cresce di circa 1,56 milioni di unità (fonte: Eurostat, indagine Eu-Silc).
Per quanto detto, non ho dubbi che anche Nobile pensi (e lo pensasse anche senza bisogno del mio articolo) che la costruzione dell'euro risponda a logiche ed interessi della borghesia finanziaria e sia stata pagata dal proletariato, con enormi sacrifici, sia nella fase di avvicinamento all'euro, sia nella successiva fase di gestione del progetto. L'abbattimento dell'euro, senza però tornare a logiche nazionaliste “chiuse”, dovrebbe quindi essere un obiettivo fondamentale per un rivoluzionario, e le forme di "desistenza rivoluzionaria" (della serie...non intromettiamoci nelle beghe della gestione del debito sovrano dei Paesi PIIGS e della difesa dell'euro, che sono problemi fra fazioni del capitalismo) non mi convincono affatto. Il capitalismo, a differenza di noialtri, è molto ben internazionalizzato, e se lasciato da solo, potrebbe (anche se sono scettico al riguardo) forse, trovare il modo di salvare l'euro. E' notizia di oggi che FMI, Banca mondiale, USA e Svizzera reperiranno 3.000 miliardi di euro per traghettare fuori dalla crisi le banche europee creditrici della Grecia, quando questa, a breve, verrà portata verso il default pilotato. Questo non implica la salvezza dell'area-euro nel suo insieme, e peraltro questa ulteriori iniezione di liquidità nei patrimoni bancari non potrà che comportare una monetizzazione del debito, e pressioni inflazionistiche, se le banche la useranno per fare credito o nuovi investimenti finanziari, oppure una ulteriore crisi di fiducia sui mercati, se le banche porteranno a patrimonio netto tale liquidità, senza aprire il rubinetto del credito. Tuttavia, tale mossa dimostra la capacità del capitalismo di trovare soluzioni: il problema del default greco, rispetto ai bilanci delle banche creditrici è probabilmente risolvibile (anche se non risolverà la crisi di credibilità che tale default comporterà per l'intero establishment politico-economico europeo; peraltro, nessuno ad oggi è in grado di prevedere quali sconvolgimenti politici potrebbe comportare il fallimento della borghesia greca nel tentativo di rimanere agganciata all'euro. Non si può nemmeno escludere l'eventualità che tale fallimento possa portare ad una radicalizzazione a sinistra del proletariato greco ed a una riorganizzazione/rafforzamento di tale area politica). Certo non è risolto il problema, ben più grave, del default di Spagna e Italia, ma se, nel frattempo, il capitalismo finanziario globale mette una pezza sulla Grecia, guadagnerà tempo, tempo che sarà speso per imporre ulteriori, tragici sacrifici ai proletariati di Spagna, Italia, Portogallo, Irlanda, e in misura minore Gran Bretagna, Francia e Germania (che, sia pur su livelli molto inferiori, hanno anch'essi problemi di extra deficit e di crescita tendenziale del debito pubblico rispetto al PIL), in termini di pesanti manovre finanziarie, al fine di recuperare tutto ciò che è recuperabile dei crediti che le banche vantano nei confronti dei governi, spremendo i singoli Paesi come limoni.
Quindi non si può assistere passivamente alle contorsioni dei mercati finanziari, lasciando che il capitalismo prolunghi l'agonia dell'euro, alle spese dei proletariati nazionali, sui quali verranno imposti ulteriori sacrifici in nome dell'euro stesso. Oppure, Marx non voglia, che il capitalismo trovi la soluzione di accentrare le politiche fiscali nazionali a Bruxelles, creando un super-Stato gestito con logiche monetaristiche (che è anche un obiettivo gradito per la Bundesbank, come dimostro nel mio articolo su Stark, pubblicato sul blog di Bandiera rossa qualche giorno fa). Allora, quale è il nocciolo della questione, sul quale concordo pienamente con Nobile? Che non si può proporre il ripudio del debito pubblico e l'uscita dall'euro unilateralmente, come fatto di "autotutela nazionale", ovvero per un Paese solo, come traspare dal manifesto di Chianciano. A pagare i costi sarebbero solo gli altri proletariati dei Paesi creditori. Inoltre si genererebbero fenomeni di guerra commerciale (con rigurgiti di protezionismo) e valutaria che finirebbero per rafforzare il ruolo, agli occhi dell'opinione pubblica, dell'istituzione statuale e della borghesia nazionale, anziché indebolirla, ed è per questo che l'uscita dal debito e dall'euro è caldeggiata da movimenti politici nazionalisti e di destra, che riprendono le posizioni “euro-secessioniste” dell'ex Ministro Paolo Savona.
Va però tenuto conto del fatto che la posizione legata alla fuoriuscita unilaterale dall'euro ha alcuni argomenti, per così dire, di “appeal” per l'opinione pubblica, e quindi le posizioni che spiegano la pericolosità di tale fuoriuscita devono necessariamene farci i conti. Un argomento di appeal in tal senso è che, con l'uscita unilaterale dall'euro, la conseguente recessione che attraverserebbe l'economia nazionale sarebbe, probabilmente, solo temporanea, da adattamento, benché intensa, e potrebbe gettare le basi per una nuova fase di crescita successiva. Tale argomentazione va analizzata con maggiore scrupolo, non liquidata semplicemente ricordando che l'uscita dall'euro prefigurerebbe un recessione, e basta. Certo, la fuga dei capitali, le difficoltà di conversione dello stock di risparmio denominato in euro che paralizzerebbero gli investimenti ed i consumi, lo shock inflazionistico indotto dalla reintroduzione di una valuta nazionale immediatamente sottoposta ad una forte svalutazione, comporterebbero pesanti effetti recessivi. Tuttavia, è anche vero che la recessione da adattamento potrebbe essere particolarmente breve per economie fortemente vocate all'export, come quella italiana, che potrebbero procurarsi dalle esportazioni la valuta pregiata di cui necessitano per fare investimenti e per ripristinare le riserve valutarie della Banca centrale, senza bisogno di aderire all'euro. Il ripristinato controllo nazionale della politica monetaria e la possibilità di ripartire con un debito pubblico alleggerito e con una valuta deprezzata, che stimola la competitività di prezzo delle esportazioni, permetterebbero, probabilmente, una consistente ripresa economica dopo la recessione “da fuoriuscita”. E poi c'è sempre il caso empirico dell'Argentina, che dopo aver abbandonato la dollarizzazione della sua economia e l'ingessamento “ex lege” della politica monetaria (entrambi i fenomeni indotti de facto dalla famigerata legge di convertibilità dell'ex Ministro Cavallo, che stabiliva un tasso di cambio rigido di 1 a 1 fra peso e dollaro e rigidi vincoli all'ammontare di riserve valutarie dela Banca centrale), ripristinando il peso, ed aver ripudiato una parte del suo debito estero, ha attraversato una breve, anche se violenta recessione, e da anni cresce ad un tasso medio dell'8-9%.
A fronte di tali argomenti, ha perfettamente ragione Nobile, nel suo articolo, nel dire che il conto di una simile strategia lo pagherebbero i proletariati dei Paesi creditori, che il ripudio del debito estero rafforzerebbe la nostra borghesia, consentendole di uscire indenne dalla crisi e di ripristinare, tramite la crescita economica, il suo pieno controllo sulla società, che la nazionalizzazione delle banche non condurrebbe di per sé ad un sistema socialista, ma potrebbe bene essere funzionale ad un progetto di salvataggio del sistema creditizio elaborato dalla borghesia, a suo uso e consumo (il primo a nazionalizzare le banche italiane in difficoltà fu Mussolini, con la legge bancaria del 1936). E come non dargli ragione, quando afferma che un simile progetto sarebbe gestito da una “sinistra” composta da partiti, come il PD, l'IDV, la SEL, sostanzialmente asserviti agli interessi della borghesia? Ma il punto di fondo, a mio parere, è che, di fronte agli argomenti dei “nazionalsciovinisti”, indubbiamente affascinanti per parte dell'opinione pubblica, opporre una sostanziale inerzia e desistenza è una risposta troppo debole. Occorre invece proporre una risposta proattiva. Il problema va risolto su scala internazionale. TUTTI I PROLETARIATI EUROPEI dovrebbero unirsi per chiedere la cancellazione dell'euro, la pubblicizzazione del sistema bancario globale, il suo frazionamento su base locale e di comunità, e la sua gestione in forme socializzate, ovvero direttamente dai lavoratori delle banche e dai risparmiatori che affidano a tali banche i loro risparmi, abolendo il tasso di interesse, e destinando il credito a progetti produttivi di tipo sociale, mutualistico e cooperativo, fino all'eliminazione stessa del sistema bancario, che ha senso soltanto laddove vi è un sistema monetario, ovvero uno Stato ed un mercato concorrenziale e di conseguenza la naturale (ed a quel punto automatica) cancellazione dei debiti sovrani.
Naturalmente, al momento tutto ciò è pura utopia. Allora, nell'”hic et nunc”, quali posizioni si dovrebbero/potrebbero realisticamente adottare? Chiedere una regolamentazione stringente dei mercati “over the counter”, permettendo che la circolazione di prodotti finanziari su tali mercati sia legata esclusivamente a motivi, dimostrabili, di mera copertura assicurativa da rischi futuri avrebbe una conseguenza immediata, ed eliminando così le transazioni puramnte speculative: in tal modo, automaticamente, gran parte dei flussi di investimento finanziario sarebbero deviati dall'Europa verso altre zone del mondo, costringendo le borghesie europee a recuperare un approccio al plusvalore di tipo produttivo, e non più finanziario, e quindi recuperando il ruolo centrale del proletariato, che nel capitalismo finanziario viene messo in secondo piano, perché il grosso degli investimenti non ha finalità produttive. Si potrebbe inoltre chiedere la cessazione di ogni aiuto pubblico nazionale o europeo a banche in crisi, chiedere che il debito sovrano dei Paesi in crisi sia pagato dai ricchi, di quei Paesi ma anche degli altri Paesi UE, dalle banche e dai fondi di investimento operanti nell'area UE (mediante un prelievo forzoso sulle loro riserve oppure, alternativamente, ed a scelta delle banche/fondi di investimento, un haircut di pari entità sui loro crediti nei confronti dei Paesi indebitati) e dalle multinazionali, impedendo qualsiasi tassazione sui bassi redditi, sui consumi o qualsiasi taglio della spesa pubblica per finalità sociali in qualsiasi Paese dell'area UE, indebitato o meno. Queste richieste dovrebbero essere avanzate per tutti i Paesi Ue, ed andrebbero quindi sostenute in modo coordinato da tutti i proletariati dei Paesi UE dai rispettivi partiti, e dovrebbero quindi bastare per assestare il colpo di grazia al capitalismo finanziario europeo, all'euro ed al monetarismo delle banche centrali allineate alla Bundesbank. Naturalmente ciò richiederebbe una Quinta Internazionale, che al momento non c'è, e quindi è anche difficile, oggi, pensare di poter coordinare i partiti proletari europei su tali posizioni comuni. Ma comunque ciò che va evitato è la desistenza rivoluzionaria. Quindi, in assenza di una capacità comune e coordinata di lotta su scala transnazionale, quanto meno occorrerebbe provare a lanciare, diciamo così per finalità didattiche e formative, parole d'ordine che superino gli angusti ed egoistici confini nazionali, quali quelle qui proposte (o altre che si ritenessero più realistiche/efficaci), nel tentativo di gettare un granello, insufficiente e piccolo quanto si vuole, sul lungo e difficile cammino della ricostruzione di una coscienza di classe e di una capacità di lotta su base internazionale.

martedì 27 settembre 2011

UNA BREVE NOTA SUL COMUNISMO VIETNAMITA


UNA BREVE NOTA SUL COMUNISMO VIETNAMITA
di Stefano Santarelli

Da alcuni giorni nel blog di un mio giovane compagno appare il volto di Ho Chi Minh, ma dietro questo volto rassicurante ed affabile si nascondono crimini e massacri che non hanno nulla da invidiare alle dittature staliniana ed hitleriana.
Ho Chi Minh è la figura più rappresentativa del piccolo Partito Comunista Indocinese che nasce ufficialmente nel 1930 il quale pur essendo costituito per la maggior parte da vietnamiti aveva comunque l'ambizione di puntare a guidare il processo rivoluzionario in tutta l'Indocina francese, Laos e Cambogia compresi. Il suo gruppo dirigente si era formato a Parigi e dimostra subito di non avere un ottica provinciale.
Infatti Ho Chi Minh che aveva aderito in Francia al Partito socialista dopo il congresso di Tours (1920) aderisce alla frazione comunista dove diventerà uno dei principali dirigenti dell'Internazionale comunista. Nel 1945 il PCI che conta appena 5000 militanti si lancia con il Fronte popolare che aveva preso il nome di Lega per l'indipendenza del Vietnam (Vietminh) nella resistenza armata contro l'occupante giapponese che aveva rovesciato l'amministrazione francese e riconosciuto l’indipendenza del Vietnam sotto la sovranità dell’imperatore fantoccio Bao Dai.
Ma proprio a partire dalle zone rurali del Vietnam del Nord inizia l'insurrezione contadina guidata dal Vietminh che porterà nell'agosto del 1945 alla conquista di Hanoi.
Alla resa giapponese e all’abdicazione di Bao Dai fece quindi seguito la proclamazione della Repubblica Democratica del Vietnam (RDV) e Ho Chi Minh ne diventa presidente.
La rivoluzione d’agosto porta i comunisti al potere facendo del PCI l’elemento centrale del nuovo stato il quale instaura immediatamente una durissima repressione nei confronti non solo del partito nazionalista alleato dei giapponesi, ma anche dei costituzionalisti moderati e della setta politica religiosa Hoa Hao.
I nazionalisti radicali del Viet Nam Quoc Dan Dang (VNQDD, Partito nazionale vietnamita, fondato nel 1927) che erano parte integrante del Vietminh e che avevano anch’essi subito la dura repressione coloniale vengono eliminati fisicamente già a luglio.
Analoga sorte viene riservata ai trotskisti che erano ben attivi nella città di Saigon dove potevano vantare un vero seguito di massa. Infatti i loro candidati nelle elezioni del 1939: Ta Thu Thau, Tran Van Thach e Hum Van Phan avevano ottenuto l'80% dei voti mentre il Partito comunista indocinese ottenne soltanto un misero 1%.
La repressione contro i trotskisti fu estremamente violenta e già il 29 agosto del 1945 un articolo della stampa vietmih di Hanoi invita a formare in ogni quartiere o villaggio dei “comitati di eliminazione dei traditori”. Centinaia di trotskisti che avevano appena combattuto contro le truppe franco-inglesi vengono trucidati. Il Vietmith si rende quindi responsabile tra l’agosto e il settembre di migliaia di omicidi e sequestri.
E Ta Tu Thau, principale dirigente della giovanissima sezione vietnamita della Quarta internazionale, viene arrestato ed ucciso.
Il processo di edificazione del nuovo Stato vietnamita fu tuttavia bloccato dalla rioccupazione francese: dalla fine del 1946, le forze della RDV furono impegnate in un aspro conflitto contro i Francesi. Dal 1949 la situazione venne resa più complessa dalla formazione di uno Stato del Vietnam (con capitale a Saigon) sotto la sovranità di Bao Dai, alleato dei Francesi, il quale ricevette, a partire dal 1951, crescenti aiuti anche dagli Stati Uniti.
Nel dicembre del ’53 nelle zone liberate dai francesi viene lanciata la riforma agraria con obiettivi identici a quelli che in Cina erano stati lanciati dal Partito comunista: stringere i legami del partito con i contadini, sviluppare il controllo statale ed eliminare qualsiasi opposizione al partito.
Si assiste ad un uso prolungato e continuo di qualsiasi forma di violenza torture comprese tanto che alla fine del ’54 lo stesso Ho Chi Minh deve ammettere:
Certi quadri hanno commesso ancora (sic) l’errore di usare la tortura. E’ un metodo selvaggio, quello che adoperano gli imperialisti, i capitalisti e i feudali per domare le masse e domare la rivoluzione (…) In questa fase (sic) il ricorso alla tortura è rigorosamente vietato”.
Si instaura un clima di terrore che colpisce anche gli eroi di guerra e che nel 1956 vede il culmine del terrore.
E’ difficile offrire delle cifre esatte, ma con un certo realismo si può tranquillamente affermare che andiamo sulle 50.000 esecuzioni nelle campagne (al di fuori quindi di qualunque combattimento) e dalle 50.000 alle 100.000 persone imprigionate con l’86% di epurati nelle cellule contadine del partito, e con punte del 95% di espulsioni tra i quadri della resistenza antifrancese. Anche l’esercito viene duramente colpito e le diserzioni ed il passaggio al Vietnam del Sud diventano così frequenti tanto da spaventare il partito che inizia un cambio di atteggiamento visto che non si può permettere un indebolimento della sua struttura militare.
Con il sostegno diretto di Ho Chi Minh si sviluppa una dura campagna contro gli intellettuali di Hanoi che non sono disposti ad appoggiare il partito e vengono mandati in “campi di lavoro”.
Questo clima di terrore viene ancora di più aggravato con la ripresa della guerra che si riaccende nel 1957 contro il Vietnam del Sud appoggiato dagli Stati Uniti. Ma questo sforzo bellico non impedisce nel 1963-64, e poi nel 1967, l’epurazione violenta di centinai di quadri del partito accusati di “filosovietismo” molti dei quali passeranno nei campi di rieducazione più di un decennio ovviamente senza neanche l’ombra di un processo.
Nella dura e lunga guerra condotta contro l’imperialismo americano non mancarono anche da parte dei vietcong veri crimini di guerra come quello compiuto nel febbraio del ’68 dove nell’antica capitale imperiale di Hué vennero massacrati, torturati e sepolti vivi più di 3000 persone tra cui sacerdoti vietnamiti, religiosi francesi e medici tedeschi. Un crimine di guerra questo nei confronti della propria popolazione che non è stato neanche superato dall’esercito statunitense che pure ha commesso massacri il più delle volte completamente ingiustificati.
Con il crollo del regime sudvietnamita nell’aprile del 1975, (il ritiro dell’esercito statunitense era avvenuto nel gennaio ’73) inizia la campagna rieducativa nei confronti della popolazione e dei militari del Sud Vietnam, una “rieducazione” che riguarda anche molti militanti comunisti.
Nei campi di prigionia dove erano rinchiusi i militari sudvietnamiti che fino all’aprile del 1975 erano nutriti e vestiti decentemente, senza essere costretti al lavoro, dopo l’abbattimento del regime sudvietnamita le razioni vennero drasticamente ridotte questi campi di prigionia si trasformarono ben presto in veri lager con questa motivazione da parte dei vietcong:
Finora avete approfittato del regime di prigionieri di guerra (…) Adesso tutto il paese è liberato, noi siamo i vincitori e voi i vinti. Dovreste considerarvi fortunati di essere ancora vivi! Dopo la Rivoluzione del 1917, in Russia tutti i vinti sono stati uccisi.”
Nel 1980 l’ex Primo ministro Pham Van Dong ammise che più di 200.000 persone erano stati rinchiusi in questi campi di concentramento, ma cifre più realistiche la fanno oscillare fra le 500.000 e 1 milione su una popolazione di circa 20 milioni di abitanti.
Non si può poi non citare il dramma di centinaia di migliaia di sudvietnamiti che hanno preferito fuggire su imbarcazioni di fortuna (i boat people) affrontando rischi spesso mortali pur di fuggire dal nuovo regime comunista.

Il partito costruito da Ho Chi Minh ha goduto da parte del mondo occidentale di una grande simpatia grazie all’eroica difesa che il popolo vietnamita ha compiuto contro il colonialismo francese prima e l’imperialismo americano dopo. Il fatto poi di avere provocato la prima sconfitta militare che la superpotenza americana abbia mai subito ne ha amplificato il suo alone leggendario.
Ma tutto questo non può fare passare sotto silenzio lo stalinismo che ha caratterizzato questo partito ed il suo leader. Un comunismo di impronta nazionalista, caratteristica questa comune ai regimi comunisti al potere in Asia, che ha potuto usufruire dell’importantissimo aiuto militare che la Cina e l’Unione sovietica hanno offerto per la difesa dei Vietcong. Un comunismo nazionale che non ha esitato a fare la guerra ai suo vicini “comunisti” così si è assistito alla fine degli anni ’70 alla guerra che il Vietnam ha condotto invadendo la Cambogia e deponendo il dittatore sanguinario Pol Pot e dopo contro la Cina che aveva invaso il suo territorio.
Attualmente grazie anche all’irruzione di forme di economia privata la direzione del Partito comunista si sta trasformando in una mafia affaristica e corrotta opprimendo una popolazione sempre più povera.

Bibl.
J.L. Margolin- Vietnam: le impasse di un comunismo di guerra, -in Courtois e altri –Il libro nero del comunismo- Mondadori 1998


sabato 24 settembre 2011

Livorno 2011: 90 anni da una rovinosa scissione


Per ricordare quel che accadde allora non ci sono parole migliori di quelle del grande Nenni che scrisse il suo libro “6 anni di guerra civile”, e lo pubblicò per la prima volta in francese in esilio in Francia. Fu stampato e tradotto una sola volta in Italia, nel 1945, poi è sparito dalla circolazione, certe verità infatti scottano e hanno continuato a scottare per decenni, vi porgo le sue parole come un sacro monito del passato verso il nostro presente e il nostro futuro:

“Livorno fu la culla della scissione

Il Partito Socialista si divideva proprio nel momento in cui aveva più bisogno della sua unità. Mosca esigeva che si accettassero senza riserva i famosi “ventun punti” che in quell’epoca fecero tanto parlare di loro. Chiedeva e soprattutto l’espulsione del partito di tutta l’ala riformista. Le sedute furono appassionate e tumultuose. Sinistra, centro e destra si accusavano reciprocamente delle difficoltà della situazione. Il congresso avendo rifiutato di espellere Turati e i riformisti, fu l’ala sinistra che si ritirò per fondare il partito comunista.

Fu un disastro. Da quel momento ogni azione nell’insieme divenne impossibile per il proletariato. Centomila compagni scoraggiati non rinnovarono la tessera, rifiutandosi di scegliere fra socialisti e comunisti,. La lotta tra i due partiti operai prese un carattere di violenza inaudita, e si vide lo spettacolo, forse unico, di una classe che si dilacera proprio nel momento in cui è attaccata da un nemico spietato e implacabile”

Ebbene, quel nemico è sempre stato l’artefice delle dittature più feroci nel mondo, con la sua potenza economica e con la spregiudicatezza della sua capacità di manovrarla per i suoi fini di profitto.

Ben prima che Hitler e Stalin si accordassero, consentendo così l’inizio della seconda guerra mondiale, quel nemico di tutti i popoli del mondo aveva già finanziato l’ascesa di entrambi i regimi.

Purtroppo la storia viene scritta sempre dai vincitori, ma ormai, per chi sa indagare, la storia non riesce più a mascherarsi come un tempo.

I bolscevichi infatti furono sostenuti dagli stessi personaggi e dalle stesse strutture finanziarie che poi, avrebbero sostenuto l’ascesa del nazismo in Germania, rendendo possibile il “miracolo” della sua rinascita economia con Hitler e soprattutto il suo prodigioso riarmo, in barba a tutte le clausole che avrebbero dovuto vietarlo.

Per la grande finanza internazionale ha sempre avuto più importanza il profitto di qualunque scelta ideologica, ed ogni ideologia è sempre stata piegata agli interessi economici.

Lo stesso Trotsky, nella sua biografia, riconosce i prestiti ricevuti da finanzieri come Alfred Milner della Chase National Bank di New York.

Nel 1915 l’American International Corporation già si predisponeva a finanziare la rivoluzione russa e i Roschild furono coinvolti direttamente in tale intento mediante Jacob Schift della Khun Leb di New York che nel 1917 depositò 50 milioni di dollari sul conto di Lenin e Trozsky presso una banca svedese. Suo nipote dichiarò al New York American Juornal il 3 febbraio del 1949 che suo nonno aveva poi versato tramite la stessa struttura finanziaria altri 20 milioni di dollari ai bolscevichi.

Senza la crisi del 1929 Hitler non sarebbe mai riuscito a conquistare il potere e non lo avrebbe nemmeno consolidato senza gli investimenti di grandi Corporation made in USA. La Ford anche dopo l’entrata in guerra degli USA, continuò a produrre materiali bellici che sarebbero stati utilizzati contro gli stessi americani, tali fabbriche americane in Germania non furono mai bombardate ed utilizzarono manodopera proveniente dai lager. La IBM fornì tramite la sua filiale tedesca chiamata Dehomag, la tecnologia necessaria per la catalogazione e l’internamento di milioni di ebrei nei lager.

Prescott Bush, nonno di George W., installò una fabbrica vicino ai campi di Auschwitz dove lavoravano prigionieri internati e fece grandi affari col regime nazista.

Matteotti quando pronunciò il suo coraggioso discorso, fu praticamente ignorato dalla stampa internazionale che liquidò poi il suo assassinio come una “questione interna” Le autorità americane e inglesi e lo stesso Churchill, che con Mussolini ebbe un imponente carteggio, allora consideravano il dittatore italiano come un “grande statista” Il Times allora addirittura acclamava il potere di Mussolini.

Tutto questo evidentemente ci fa capire che il Socialismo del XXI secolo esige un notevole salto di qualità, sia sul piano della “visione storica” sia su quello della capacità di contrasto globale di tale èlite finanziaria che opera tuttora per costruire una scala gerarchica rigidissima, in cui è previsto un gotha ristretto di ricchissimi padroni degli strumenti finanziari di produzione globale e di contrasto ad ogni tendenza “eversiva”, una serie abbastanza numerosa di “vassalli” che, in campo politico, ne mettono fedelmente in pratica le direttive, adattandole ad ogni singolo Stato, e infine una massa destinata alla “pollificazione” e cioè al consumo in batteria, più o meno dotata di becchime a seconda della sua posizione geostrategica; pronta a riconoscere sempre l’ “allevatore” pavlovianamente come un benefattore, anche quando entra nel pollaio per tirare il collo, o tagliando servizi, imponendo tasse o privatizzando beni essenziali come l’acqua, oppure spedendo i “polli” direttamente in guerra. Al di sotto di tutti naturalmente c’è la massa da macello destinata ai bombardamenti e alle scorie radioattive, alla cosiddetta “selezione naturale”

Sappiamo molto bene che i crimini nel mondo non si sono esauriti con il tramonto dei grandi totalitarismi e che il totalitarismo tuttora in atto, e che si sta diffondendo e consolidando su scala globale, è quello economico del neoliberismo basato esclusivamente sull’accumulazione di profitto

Allais Maurice ne “La crise mondiale aujourd’hui” Paris 1991 scrive: “La banca crea ex nihilo..Essenzialmente, l’attuale creazione di denaro operata dal sistema bancario è identica alla creazione di moneta da parte dei falsari. In concreto, i risultati sono gli stessi. La sola differenza è che sono diversi coloro che ne traggono profitto”

Gli unici presidenti americani che provarono a cambiare le cose furono assassinati. Lincoln che aveva creato le green backs e cioè le banconote prive di interessi bancari e Kennedy che approvò nel 1963 un ordine esecutivo che consentiva al Paese di stampare banconote, sottraendo potere alla FED...solo 5 mesi prima di morire.

Oggi le guerre, dopo quella del Vietnam, in cui la presenza dei media fece la differenza e costrinse l’establishment a fare marcia indietro su pressione dell’opinione pubblica, vengono condotte, recingendo prima le aree destinate al conflitto con un cordone impenetrabile ai media, e quando qualche giornalista coraggioso e quasi sempre free lance riesce a penetrare, egli viene spietatamente ucciso, persino le organizzazioni umanitarie sono nel mirino. Lo abbiamo visto con estrema evidenza nei conflitti dal Kosovo all’Irak all’Afghanistan.

Il totalitarismo dell’attuale blocco economico-finanziario si attua mediante la proprietà delle banche e degli istituti finanziari, delle Corporation e dei media e mediante essi, dei politici. Essi, sempre più spesso, sono o grandi managers oppure ex dirigenti di importanti banche o multinazionali che passano spregiudicatamente alla politica essendo ritenuti gli unici garanti della tenuta del sistema. E cioè del “pollaio”. Sono gli stessi loro “datori di lavoro”, a livello globale, a spostarli da un incarico all’altro e questo naturalmente rende i governi organi a diretto servizio del capitale, di quel gruppo ristretto che cioè possiede la maggior parte della ricchezza del mondo.

Di fronte a tutto ciò, parlare di leghe, di network, di PSI, di SEL, di PD, di “socialisti di destra, sinistra, pseudodemocratici o pseudorivoluzionari” rischia davvero di apparire alquanto ridicolo, più o meno come lo starnazzare delle oche oppure come l’azzuffarsi di polli in batteria, o come l’agitarsi del cappone prima di essere destinato allo spiedo.

Noi dobbiamo capire che oggi tale configurazione globale si combatte solamente inserendosi validamente in un quadro globale di iniziative politiche e di lotte che tenda a concertare, coordinare e rafforzare gli sforzi in tutti i continenti.

Dal Sudamerica all’Europa questo sforzo che anima i popoli verso la loro liberazione si chiama Socialismo ed in particolare dovrebbe essere orientato da una V Internazionale. Non si può minimamente pensare oggi, per qualsiasi forza politica che voglia agire validamente contro tale politica totalitaria, di estraniarsi da tale contesto. Quegli pseudo partiti o quei leader demagogici che vorrebbero piuttosto che il contesto internazionale prendesse direzioni diverse e magari atto di situazioni diverse nel nostro Paese, che esitano ad aderire a tale lotta internazionalista e socialista, sono piuttosto mascheratamente al servizio del capitale internazionale. Sono i “vassalli” obbedienti che progettano l’opera dei pollificatori.

Noi dobbiamo invece, 90 anni dopo quella rovinosa spaccatura che aprì alle forze della reazione e del capitale manganellatore le porte dell’Italia, essere consapevoli di dover costruire una grande forza politica inserita pienamente nell’Internazionale Socialista e che lotta concertando le proprie iniziative, progettandole e mettendole in atto, contemporaneamente ad altri popoli del mondo. Insieme a quei sindacati che non fanno collateralismo, che non hanno il colore giallo della acquiescente e servile sudditanza alla politica padronale, che non cercano di “pollificare” i lavoratori ricattandoli a suon di delocalizzazioni, configurando la crisi internazionale come ineluttabile fenomeno atmosferico, contro il quale nulla è possibile se non l’attesa che passi, magari prendendosi nel frattempo una bella polmonite, o ritrovandosi senza più scuole, ospedali e lavoro.

Turati in quella occasione disse queste meravigliose parole: “Il nucleo solito quindi che rimane di tutte queste lotte, che sono sempre le stesse nelle diverse forme transitorie e caduche, il nucleo solido è nell’azione. Nell’azione che non è l’illusione, che non è il miracolo, la rivoluzione in un giorno o in un anno, ma è la abilitazione progressiva, faticosa, misera, per successive graduali conquiste, obiettive e soggettive, nelle cose e nelle teste, della maturità proletaria a subentrare nella gestione sociale: sindacati, cooperative, potere comunale, parlamentare, cultura, tutta la gamma, questo è il socialismo che diviene! E non diviene per altre vie: ogni scorciatoia non fa che allungare la strada; la via lunga è la sola breve.

E l’azione è la grande pacificatrice, è la grande unificatrice; essa creerà l’unità di fatto, che noi non troviamo nelle formule, che non troveremo mai nelle parole né negli ordini del giorno, per quanto abilmente ponzati con dosature farmaceutiche di fraterno opportunismo. Azione perenne, azione fatale, prima e dopo quella tale rivoluzione che si avvera sempre, nella quale siamo dentro, perché essa stessa, questa azione è la rivoluzione.”

Oggi dunque, cari compagni, non possono esistere socialisti che non siano consacrati dall’azione rivoluzionaria, nelle fabbriche, nelle scuole, nelle piazze, nei luoghi ove maggiormente la sofferenza e l’emarginazione lasciano profonde piaghe nel tessuto sociale odierno, dove le guerre fanno ancora stragi di vite civili innocenti, dove la speculazione finanziaria produce ancora schiavitù, costringe i popoli a restare senza medicine a buttare nelle discariche i prodotti agricoli che non reggono la concorrenza.

Ed è azione unitaria, graduale, decisa, implacabile, costante, coraggiosa, coerente!

Non saranno dunque i gruppuscoli sparsi ed eterogenei nell'universo molecolare della sinistra che ci restituiranno quella dignità e quel valore che ci compete, ma solo la nostra azione, solo il valore di agire con le masse dei lavoratori, e degli emarginati e disoccupati di tutto il mondo, in nome del Socialismo, qui e ovunque esso sia sinonimo di integrità umana, morale, politica e civile.

C.F.

venerdì 23 settembre 2011

UN LAMENTO PER IL MEZZOGIORNO, di Riccardo Achilli


Introduzione


Fra una settimana esatta, la Svimez (Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno, ente pubblico orbitante attorno alla Presidenza del Consiglio, che da sempre svolge il ruolo di osservatorio dell'economia meridionale) celebrerà il suo ennesimo rituale annuale, di presentazione del suo rapporto sull'economia del Mezzogiorno. E come tutti gli anni, pianti ed alti lai si leveranno per lo storico tradimento della promessa di sviluppo del nostro Sud, e per l'inefficacia delle ennesime sperimentazioni di politica di sviluppo (in verità, le lamentazioni sono rese ancora più stridule dal sostanziale smantellamento dell'apparato nazionale delle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno, operato dal centro-destra alle prese con i problemi di bilancio e con i guaiti leghisti). La realtà è molto semplice, per chi vuole guardare al nostro Mezzogiorno non con le lenti della lotta di potere da pollaio che caratterizza la democrazia borghese italiana, ma con quelle della realtà storica: questo articolo mira a spiegare perché politiche di sviluppo mirate a far maturare condizioni di capitalismo nel Mezzogiorno siano inevitabilmente destinate a fallire, e come invece solo una rottura rivoluzionaria del paradigma capitalistico di sviluppo possa consentire al Mezzogiorno di recuperare un percorso autonomo in grado di raggiungere obiettivi di sviluppo egualitario ed a ritrovare la dignità che storicamente gli compete, e che storicamente lo Stato italiano unitario gli ha negato, ripagando questo furto con logiche compensatorie inefficaci e perdenti.


Il fallimento del paradigma capitalistico dello sviluppo del Sud

Prima di parlare di rottura in senso socialista del paradigma dello sviluppo capitalistico del Mezzogiorno sin qui seguito dalle politiche intraprese dallo Stato borghese italiano, iniziamo a descrivere il fallimento di detto paradigma. Che sia fallito ci sono pochi dubbi. Infatti, nonostante il gigantesco flusso di risorse pubbliche che, dall'avvio dell'intervento straordinario, nel 1950 ad oggi, si è riversato sul Mezzogiorno (secondo la Svimez, per infrastrutture ed aiuti alle imprese, dal 1951 ad oggi, la spesa pubblica destinata al Mezzogiorno è stata pari ad una quota del PIL nazionale che oscilla, di anno in anno, fra lo 0,5% e l’1%) i divari di sviluppo fra Mezzogiorno e Centro Nord si sono notevolmente ampliati, anziché ridursi. Certo, in valore assoluto il tenore di vita delle popolazioni meridionali è cresciuto, rispetto alle spaventose condizioni di miseria che caratterizzavano il Meridione sessant'anni fa. Valutato a prezzi 1911, e quindi considerato in termini reali, senza l'influenza dei prezzi, il Pil pro capite meridionale è cresciuto di circa 7,5 volte fra 1861 e 2007; tuttavia, mentre nel 1861 il differenziale con il Centro Nord era pressoché nullo, nel 2007 il Pil pro capite meridionale è pari ad appena il 59% di quello centro-settentrionale (Daniele-Malanima, 2007).
La lezione fondamentale di tutto ciò è chiara: il Mezzogiorno, nonostante il gigantesco sforzo finanziario pubblico, non ha intrapreso alcun processo di sviluppo, perché non è riuscito a tenere il passo con il resto del Paese, accentuando i divari di sviluppo sociale ed economico, e quindi collocandosi sempre più ai margini dei processi di evoluzione del capitalismo globale. Se il tenore di vita ed alcuni elementi di sviluppo si sono realizzati nel frattempo, ma solo in termini assoluti e non relativi, ciò si deve esclusivamente al trascinamento indotto dallo sviluppo del resto del Paese, trascinamento innescato dagli effetti redistributivi, privi di connotati strutturali di lungo periodo, dei grandi flussi di spesa pubblica destinati al Sud, ma non si è mai radicato in modo stabile alcun processo di sviluppo endogeno ed autosostenuto.
E non è che si possa attribuire questo dato di fatto esclusivamente ad errori, omissioni, corruzioni o sprechi nelle politiche di sviluppo messe in campo in questi ultimi 60 anni. Tutto ciò si è verificato, però il punto fondamentale è che dal dopoguerra ad oggi si è tentato di mettere in campo l'intera gamma possibile degli attrezzi teorici che l'economia dello sviluppo di origine borghese e capitalista suggeriva: dagli approcci “top-down” mirati a creare l'infrastrutturazione produttiva e logistica di base ed a polarizzare lo sviluppo a partire da aree forti specificamente attrezzate per accogliere grandi investimenti industriali (come suggerisce la scuola di Perroux e Hirshmann, e come effettuato nella fase “eroica” della prima gestione della Cassa per il Mezzogiorno), alle politiche mirate a diffondere lo sviluppo dai “poli di crescita” alle aree periferiche mediante l'attivazione di circuiti keynesiani di reddito, consumo ed investimento in sede locale (secondo i meccanismi della “causazione circolare cumulativa” ipotizzati da Myrdal), al tentativo di creare filiere mediante investimenti focalizzati su specifici settori ad elevata potenzialità di creazione di un indotto (secondo i modelli dell'industria motrice), dall'incentivazione a pioggia alle imprese, nella speranza di allargare la base produttiva ed occupazionale, come realizzato con il modello della legge 488/92 e della fase delle politiche industriali fatte a colpi di incentivi diretti, allo sviluppo “bottom up” teorizzato dalla scuola dello sviluppo locale, fatto di sostegni alla creazione di distretti industriali o turistici, e di strumenti a supporto di progetti di sviluppo ideati e gestiti in sede locale (la stagione della programmazione negoziata, dai patti territoriali ai contratti d'area, passando per i contratti di programma), fase culminata con la variante più evoluta dello “sviluppo locale integrato” estrinsecatasi nei Pit (programmi integrati territoriali) della passata fase di programmazione dei fondi strutturali, chiusasi senza creare alcuna integrazione fra i territori del Sud. Senza dimenticare i tentativi fallimentari di coinvolgere il capitale privato in progetti di pubblico interesse, o altre diavolerie ridicole, come i progetti di marketing territoriale per l’attrazione di investimenti esterni in un’area assolutamente priva di fattori di localizzazione attraenti per le multinazionali.
Qualsiasi tentativo fatto, qualsiasi approccio sperimentato nella logica delle politiche di sviluppo di tipo capitalista, ha condotto inevitabilmente all'impossibilità di indurre il mitico “breakthrough” strutturale nei fattori del ritardo di sviluppo del Mezzogiorno, avviando percorsi autonomi e sostenuti di crescita produttiva e di sviluppo sociale. La ragione fondamentale è, per noi marxisti, molto chiara. Quello che è mancato è uno sviluppo pienamente capitalistico delle forze produttive e dei rapporti sociali di produzione. Sembra una tautologia o una ovvietà, ma se le condizioni capitalistiche di un territorio non si sviluppano, le politiche di sviluppo orientate ad una logica capitalistica non producono alcun risultato.


Le questioni strutturali e di classe dello sviluppo del Sud


Da questo punto di vista, dalla spedizione dei Mille ad oggi, il Mezzogiorno ha avuto uno sviluppo di tipo capitalistico molto incompleto e parziale. Il Mezzogiorno di prima dell'avvio dell'intervento straordinario era un'area connotata da una certa omogeneità negli assetti sociali di produzione. Nelle aree rurali, vigeva un sistema semi-feudale, nel quale una enorme massa di braccianti, mezzadri e piccoli contadini viveva all'ombra di un latifondo a modesta produttività, in mano ai resti della nobiltà borbonica. In quelle urbane, una piccola borghesia ruotava, in modo semi-parassitario, attorno al mondo della politica e della pubblica amministrazione, mentre il suo segmento produttivo, composto essenzialmente da commercianti, artigiani e titolari di piccole attività nel settore dei servizi alla persona, vivacchiava a stento, insieme ad un proletariato industriale che il sottosviluppo dell'economia meridionale rendeva quantitativamente modesto, e concentrato perlopiù nelle pochissime aree dove, soprattutto per esigenze militari, il fascismo aveva dislocato stabilimenti industriali di proprietà pubblica.
Per dirla con Gramsci (“La Questione Meridionale”) la società meridionale precedente l’avvio delle politiche di sivluppo del dopoguerra, è costituita da tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente inconsapevoli (privi cioè di coscienza di classe); piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in città, spesso come impiegati statali. Costoro disprezzano e temono il lavoratore della terra, e fanno da intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe, costituita dai grandi proprietari terrieri, che fornisce anche gli intellettuali, come Croce o Fortunato, favorevoli al mantenimento del blocco agrario. Di fatto, quindi, secondo Gramsci, la piccola borghesia urbana del Mezzogiorno è stata creata in modo artificiale, tramite l’espansione dell’occupazione nella pubblica amministrazione, e non tramite meccanismi di sviluppo capitalistico, che non si sono realizzati, mentre il ceto intellettuale e politico del Sud è interamente devoto alla causa della difesa degli interessi del latifondo e della manomorta.
E qual è lo stato dei rapporti di classe nel Mezzogiorno di oggi, a più di 84 anni di distanza rispetto a quando scriveva Gramsci, e dopo più di 60 anni di politiche di sviluppo del Mezzogiorno? Abbiamo, in primo luogo, l'unico effetto strutturale generato da 60 anni di politiche di sviluppo, ovvero una “leopardizzazione” del Mezzogiorno che, da area relativamente omogenea quanto a livello di sviluppo, è oggi caratterizzato da una complessa ed articolata geografica di poli a sviluppo differenziato. Vediamo in sintesi i diversi assetti produttivi e sociali creati da tale leopardizzazione.
Laddove le politiche dei “poli di crescita” degli anni '60-primi anni '90 hanno incentivato la creazione di grandi stabilimenti industriali, come a Taranto (e fino al 1989 a Bagnoli, nella siderurgia), o a Gela, Siracusa, Porto Torres, Cagliari (nella petrolchimica) oppure a Melfi, Pomigliano o Termini Imerese, o ancora a Castellammare di Stabia (nell'industria automobilistica o in quella cantieristica, in omaggio ai principi del modello dell'industria motrice) si è formato un proletariato industriale moderno, relativamente ben organizzato e combattivo, cresciuto grazie agli spazi di attività sindacale concessi dall'industria pubblica o semi pubblica. Ma in tali aree non si è formata alcuna borghesia moderna, perché la grande industria, sia a proprietà pubblica che privata, era costituita esclusivamente da stabilimenti di produzione, mentre i centri direzionali erano localizzati nel Centro Nord del Paese, e perché questa non ha generato alcun significativo indotto imprenditoriale locale. Quindi abbiamo un proletariato relativamente moderno ed autonomo, che però non ha un avversario di classe con cui confrontarsi direttamente, non essendovi in loco una vera e propria borghesia. Una situazione per certi versi simile a quella del proletariato di un Paese colonizzato, ma per altri versi anche peggiore, perché perlomeno nel Paese colonizzato vi è una borghesia compradora contro cui confrontarsi, mentre l'operaio siderurgico tarantino si deve confrontare con una proprietà della sua azienda ubicata a Genova, rappresentata in loco soltanto da un mero direttore di stabilimento e dai politici al soldo degli interessi dell'impresa, e niente più. Lo stesso modello si sta imponendo nelle aree turistiche, dove generalmente il mercato viene monopolizzato da pochi grandi investimenti di catene alberghiere o ricettive non meridionali.
Nelle aree a sviluppo “dal basso” e distrettuale (ovvero nelle poche che ancora sopravvivono, dopo la desertificazione industriale degli ultimi dieci-quindici anni), aree che perlopiù sono costituite da raggruppamenti di piccole e piccolissime imprese che operano in regime di subfornitura specializzata/contoterzismo per conto di imprese del Nord e generalmente in monocommittenza (si pensi all'ex distretto del TAC salentino, o a quello che era il distretto della corsetteria di Lavello, o ancora al polo conciario di Solofra) si è sviluppata una borghesia produttiva, ma per così dire il suo sviluppo è soltanto superficiale, poiché tale borghesia, a capo di sistemi produttivi confinati nei circuiti della sub fornitura e del contoterzismo a favore della media e grande industria del Nord, è “eterodiretta” e priva di quella capacità autonoma di generare localmente forme di accumulazione primitiva di capitale e quindi promuovere lo sviluppo del capitalismo, che è il tratto tipico delle borghesie emergenti che hanno fatto le rivoluzioni industriali e generato lo sviluppo delle forze produttive nei loro Paesi. Accanto a tale borghesia “rachitica” fondamentalmente compradora, in tali aree non si è sviluppato un proletariato dotato di quelle caratteristiche di organizzazione, capacità di mobilitazione ed autonomia, tipico delle aree connotate dalla presenza della grande industria, poc'anzi descritte (e che si estrinseca nelle capacità di lotta dimostrate, per esempio, nella vicenda Fincantieri a Castellammare, o nella tenacia dimostrata, nella lotta, degli operai Fiat di Termini Imerese). Infatti, i meccanismi padronali, familistici e paternalisti con i quali le piccole e micro imprese di tali “distretti di sub fornitura” sono governate tendono a disinnescare la lotta di classe, annacquandola nella demagogia dell'impresa come famiglia allargata, nella quale il padrone ed il lavoratore stanno sulla stessa barca (l'ideologia della piccola impresa). Quindi, in tali aree vi è una borghesia rachitica ed un proletariato privo di fondamentali elementi di capacità organizzativa ed autonomia. Lo stesso vale per quei pochissimi distretti “autonomi” (nei quali cioè si crea il prodotto finito, non operando quindi in regime di sub fornitura per committenti non meridionali; un esempio in tal senso è il moribondo distretto murgiano-materano del mobile imbottito) dove, certo, la borghesia è appena più sviluppata rispetto a quella delle aree connotate da “distretti di subfornitura”, ma conserva ancora tratti culturali e comportamentali più vicini a quelli dell'artigiano pre-capitalista che a quelli dell'imprenditore pienamente capitalista (ad esempio, la riluttanza verso l'accumulazione di capitale, preferendo dirottare verso la famiglia il plusvalore, piuttosto che reinvestirlo in azienda).
Nelle aree rurali (ad esempio la Basilicata o la Sicilia interna, le aree aspromontine e silane della Calabria, le are interne, fra Cilento, Sannio ed Irpinia, della Campania), dopo la fine del latifondo, permane una agricoltura a modesta produttività, ed in molti casi ancora di sussistenza (si pensi che l'azienda agricola meridionale “tipica”, secondo l'ultimo censimento Istat, ha una superficie agraria utilizzata di appena 5,9 ettari, contro gli 11,6 ettari dell'impresa agricola media del Nord; l'azienda agricola-tipo del Mezzogiorno è, nel 95% dei casi, a conduzione diretta del proprietario e senza salariati, utilizzando al massimo manodopera stagionale prevalentemente extracomunitaria; il valore aggiunto per addetto dell’agricoltura meridionale è così pari ad appena l’82% del dato nazionale). Gli antichi latifondisti, spesso, sono entrati in politica, perpetuando, tramite la diffusa pratica del voto di scambio e del consociativismo, forme di controllo neo-feudale del territorio, oliando il consenso elettorale con l'assistenzialismo diffuso, assurgendo al ruolo di “signorotti” locali. Oppure hanno investito i proventi della liquidazione del latifondo in altri campi, soprattutto nell'edilizia, che ruotano comunque attorno ai meccanismi consociativi e neo-feudali della politica. Le mezze classi, ieri come oggi, ruotano quindi sempre attorno a meccanismi di controllo neo-feudali gestiti dalla politica e dalla pubblica amministrazione, ridotta a suo braccio operativo (e non di rado cogestiti dalle 'ndrine e dalle cosche, che, creando legami di alleanza con la politica locale, gestiscono parti rilevanti dell'economia e della società). I braccianti ed i mezzadri dei tempi del latifondo, che dipendevano dal latifondista, sono oggi i piccoli contadini, o i membri della piccola borghesia urbana, che dipendono dal cacicco politico locale, con meccanismi di dipendenza non dissimili, nella sostanza, da quelli del passato. Gli intellettuali indipendenti sono quasi inesistenti. Le università sono esamifici privi di una autorevolezza scientifica propria.
In estrema sintesi, potremmo dire che il Mezzogiorno è un esempio paradigmatico di applicazione della legge dello sviluppo diseguale e combinato di Trotzky. E' un'area socio economica nella quale convivono elementi di arretratezza semi-feudali o precapitalistici, assieme a elementi di sviluppo sociale tipicamente capitalisti, ma il cui grado di sviluppo è in generale superficiale, o monco. Alla radice di tale condizione vi sono ovviamente elementi economici. L'assenza di una vera e propria rivoluzione agricola è forse la ragione principale, legata com'è ad una riforma agraria tardiva, pasticciata e parziale, avviatasi soltanto nel 1950 (il fascismo aveva infatti rinunciato alla riforma agraria, per non spezzare i suoi vincoli di alleanza con i ceti latifondisti del Sud, limitandosi ad una mera politica di infrastrutturazione rurale – opere di bonifica, acquedotti, ecc.), su aree specifiche e non su tutto il territorio meridionale, ed oltretutto, in alcune aree, senza provvedere alla necessaria infrastrutturazione, risolvendosi in un fallimento, ed ingessando le prospettive di autonomia cooperativa degli agricoltori all’interno della rigidità accentratrice assunta dagli enti di riforma. Come ci insegna la storia, generalmente la rivoluzione agricola precede le rivoluzioni industriali, poiché l'accresciuta produttività dell'agricoltura libera manodopera utilizzabile nella nascente manifattura, e genera forme di accumulazione primaria di capitale. L'assenza di un sistema creditizio e finanziario autoctono in grado di generare forme di accumulazione originaria di capitale monetario è un'altra ragione: dall'unificazione nazionale in poi, il polmone finanziario del Sud, sia quello pubblico che quello privato, ha sempre risieduto nel Centro Nord, nello Stato o nelle banche settentrionali. La lontananza (o meglio il vero e proprio isolamento) dagli snodi più rilevanti degli scambi commerciali mondiali e dai mercati più ricchi dell’Europa centro settentrionale è un ulteriore fattore che ha impedito quella fase mercantile iniziale attraverso la quale il capitalismo si è sviluppato, in altri contesti.
Ma vi sono anche elementi, per così dire, sovrastrutturali, nello spiegare il fallimento di un paradigma dello sviluppo orientato a integrare maggiormente il Mezzogiorno nelle logiche della competizione capitalista. Fondamentalmente, la ragione sovrastrutturale è che non si può costringere ad essere capitalista chi non lo vuole essere, perché non ha un substrato culturale adatto a recepire lo sviluppo capitalistico. Qualsiasi politica di sviluppo incastonata all’interno del paradigma dello sviluppo capitalistico, quand'anche generosa nelle risorse finanziarie erogate e fantasiosa e diversificata nelle filosofie dello sviluppo adottate, non può ottenere alcun successo, se non vi è una società in cui lo spirito di iniziativa imprenditoriale è diffuso e dove è diffusa la propensione al rischio ed all'autonomia individuale. Se è vero che il protestantesimo non ha fatto il capitalismo nell'Europa settentrionale, è però anche vero che ha fornito importanti stimoli culturali alle nascenti borghesie, incentivandola ad approfondire il lavoro di costruzione del capitalismo. Lo stesso dicasi della cultura dell'autonomia comunale che ha disseminato i primi elementi di capitalismo nell'Italia centro settentrionale dei Comuni e delle signorie rinascimentali.
Nel Mezzogiorno, invece, mancano gli elementi culturali utili per fornire stimoli in direzione della formazione di una borghesia matura e di un capitalismo evoluto. La cultura meridionale odierna oscilla fra elementi di pauperismo cattolico, intrisi di assistenzialismo (che con la dottrina sociale cattolica si sposa benissimo) che, come si è visto, è il meccanismo fondamentale attraverso il quale le classi dirigenti meridionali hanno mantenuto, anche dopo la riforma agraria e l’avvio dell’intervento straordinario, forme di controllo semi-feudale sulla società, e un crescente rivendicazionismo autonomistico, spesso condito da nostalgie neo-borboniche o da miti brigantistici che, seppur giustificabile storicamente, in realtà non conduce a niente, perché mira, o anche solamente vagheggia, al ripristino di assetti sociali fortemente reazionari ed arcaici. E’ invece necessario spingere in avanti lo sviluppo delle forze produttive, in modo da creare condizioni per una rottura in senso socialista degli equilibri di sottosviluppo nei quali il Mezzogiorno versa ancora oggi.



Un paradigma di sivluppo socialista


E allora occorre guardare in avanti, e non volgere lo sguardo all’indietro, verso un mondo pre-capitalistico che non esiste più (e che peraltro è tutt’altro che desiderabile, come dimostrano gli aspetti fortemente reazionari che il regime borbonico proponeva, dietro alcune presunte, o superficiali, aperture riformistiche, come dimostra bene la farsa del riformismo di Ferdinando II, risoltasi in poco più che una “ammuina” ed in una feroce repressione dei moti liberali). Occorre abbandonare l’illusione che le politiche di sviluppo rientranti all’interno del paradigma competitivo possano portare a risultati positivi per il Meridione. L’esperienza empirica è lì a dimostrarlo, come ho cercato di illustrare nel presente articolo: immani flussi di risorse finanziarie, la sperimentazione dell’intera gamma delle possibili filosofie di sviluppo rientranti nel “mainstream” dell’economia borghese non hanno portato a niente. Occorre anche comprendere che il rivendicazionismo autonomistico porta ad una ulteriore frammentazione, e quindi isolamento, del proletariato meridionale, già segmentato e spezzettato al suo interno dalla stessa azione delle politiche di sviluppo che, come abbiamo visto in precedenza, ha “leopardizzato” gli assetti sociali e produttivi del Meridione, diluendone l’originaria omogeneità.
Occorre fondamentalmente tornare alla lezione di Gramsci, ovviamente attualizzandola alle condizioni di classe di oggi. La lezione di Gramsci era fondamentalmente quella di mantenere l’unità di azione fra gli oppressi. Egli vedeva la soluzione della questione meridionale in un’alleanza fra proletariato urbano e rurale, sia all’interno del Mezzogiorno (superando l’artificiosa segmentazione operata nel cuore stesso del proletariato meridionale già dalle politiche fasciste, ed accentuatasi, come si è visto nel presente articolo, con l’azione delle politiche di sviluppo del dopoguerra) che fra Mezzogiorno e resto del Paese. Ed in questa direzione occorre continuare ad andare. Il proletariato relativamente organizzato ed autonomo delle aree meridionali dove si è insediato il modello della grande industria deve fare fronte comune con il proletariato sottoposto a vincoli paternalistici che opera nel pulviscolo delle piccole e medie imprese, a fare fronte comune con il proletariato terziarizzato delle aree urbane, connotato da una estrema alienazione del suo lavoro intellettuale e da una crescente precarizzazione occupazionale ed esistenziale. Il proletariato non ha bandiera, ed al suo interno non ha interessi diversificati. Non è vero che, come sostiene la Lega, l’operaio del Nord ha da temere dal suo collega meridionale. Non è vero, come sostiene Sacconi e il sindacato corporativo, che l’interesse dell’operaio a tempo pieno ed indeterminato diverge da quello del giovane precario della pubblica amministrazione o dei servizi. La segmentazione interna del mercato del lavoro è in realtà il modo migliore con il quale il capitalismo sta procedendo ad una nuova fase di spoliazione dei diritti di tutti, sia del precario che dell’operaio con contratto a tempo indeterminato. Sono convinto che una lezione di unità e di antagonismo possa venire dal Mezzogiorno. Sono convinto che da questo Sud martoriato ed umiliato possa venire il segnale della riscossa. E lo sono non per idealismo o speranza, ma perché conosco profondamente il Sud.


Livorno, 20.09.2011

giovedì 22 settembre 2011

Rivoluzioni nel Nord Africa? Sì, ma ''rivoluzioni'' manageriali, di Stefano Zecchinelli


"Potete uccidere dieci miei uomini per ognuno dei vostri che io uccido. Ma anche così, voi perderete e io vincerò'' Ho Chi Minh


''La pubblicità è il rumore di un bastone in un secchio di rifiuti'' George Orwell


''Non basta sottomettere più o meno pacificamente le masse al nostro regime, inducendole ad assumere una posizione di neutralità nei confronti del regime. Vogliamo operare affinché dipendano da noi come da una droga'' Joseph Goebbels

Il dibattito riguardante la situazione Nord Africana ha posto tutta una serie di problemi (dal concetto di nazionalità, alla tattica che i comunisti devono seguire contro l'imperialismo) che, una volta per tutte, voglio prendere di petto, chiarendo la mia posizione definitiva. Quindi inizierò con il parlare, seppur in estrema sintesi, dei movimenti anticoloniali (di cui ho una opinione molto positiva), e poi, affronterò la questione riguardante il gioco dell'imperialismo in Nord Africa. Per rendere più agevole la lettura ho diviso, come di solito faccio, questo articolo-saggio in piccoli paragrafi.

1. Nel lontano 1924, un giovane dirigente comunista vietnamita, Ho Chi Minh, poteva scrivere, riferendosi a Lenin:

'' Essi hanno anche imparato che questo grande dirigente, dopo aver liberato il suo popolo, voleva liberare anche gli altri popoli. Egli ha invitato i popoli bianchi ad aiutare i popoli gialli e neri a liberarsi dal giogo dell’aggressore straniero, da ogni aggressore straniero, governatori regionali residenti, ecc. E per ottenere questo obiettivo, egli ha pianificato un programma definito.
Per prima cosa essi non pensavano che sulla terra potessero esistere un uomo e un programma tali. Ma successivamente hanno sentito, anche se vagamente, dei Partiti Comunisti, dell’organizzazione chiamata Internazionale Comunista che sta combattendo per i popoli sfruttati, per tutti i popoli sfruttati inclusi loro stessi. E sono venuti a sapere che Lenin era il dirigente di questa organizzazione'' (Ho Chi Minh ''Lenin e i popoli coloniali'', pubblicato sulla Pravda del 27 gennaio 1924).

Leggendo queste poche righe di Ho Chi Minh, allora giovane dirigente comunista, notiamo come il concetto di popolo va a sovrapporsi al concetto classe. Questa è una caratteristica interessante del marxismo nella forma che ha preso nei Paesi Coloniali, al di là dei movimenti che poi nei sono usciti fuori: movimenti anticoloniali o movimenti socialisti (come ad esempio quello guevarista). Il motivo per cui avviene questa sovrapposizione (bollata in modo frettoloso da molti teorici della Sinistra Comunista) a mio avviso si riscontra in ciò: nei Paesi Coloniali l'imperialismo delega il potere politico (e quindi le funzioni amministrative) alle vecchie aristocrazie, permettendogli di mantenere i suoi privilegi (magari ricorrendo ad ideologie tradizionalistiche), mentre risorse naturali ed umane - ciò che realmente interessa all'imperialismo - vengono letteralmente privatizzate. Allora per i marxisti la guerra di classe diventò, imprescindibilmente, guerra di popolo. Faccio un ulteriore esempio: Mao Zedong scriverà sulle ''contraddizioni in seno al popolo'' alludendo ad una borghesia progressista - di solito, è la piccola borghesia radicale - che avrebbe accettato il socialismo. Mao non spiega come questo sarebbe dovuto avvenire, ma è facilmente intuibile che secondo il dirigente cinese la difesa dalle ''contraddizioni esterne'' avrebbe posto, in modo ''naturale'', i presupposti per eliminare il conflitto di classe interno. Previsione discutibile, ma il lascito teorico di chi è stato a capo di grandi movimenti anticoloniali, marxisti o meno, per me deve essere preso in considerazione e discusso.


Il problema della rivoluzione nei Paesi arretrati ha tirato fuori marxisti di prima grandezza da Mariategui a Guevara da Connolly a Thomas Sankara. Mariategui, il fondatore del Partito comunista peruviano, parlò di ''socialismo con caratteristiche latino-americane'' (Guevara riabilitò addirittura Simon Bolivar a dispetto delle critiche di Marx), accusando di ''eurocentrismo'' l'Internazionale di Lenin. Gramscianamente parlando per me questi sono ''processi reali'' di lotta da sostenere in modo incondizionato.
Ecco chiarito il primo punto.

2. Adesso introdurrò il discorso sulla situazione Nord Africana dando alcuni elementi di riflessione storica sul Partito Ba'th che, in effetti, sta alla radice del panarabismo laico (compreso il gheddaffismo).
Il Partito Ba'th viene fondato da Michel Aflaq nel 1940, anche se i membri che parteciperanno al Congresso del 1947 sono soltanto una decina. Nel 1952 arrivò alla rispettabile cifrà di 4.500 membri, e si unì al Partito Socialista Arabo di Akram el-Hurānī, un socialista siriano.
I principi di questo Partito, alla testa del movimento anticoloniale nel Nord Africa, sono unità fra i paesi arabi, socialismo, e libertà. L'ideologia del Partito presenta molte ambiguità, tanto è verò che Aflaq parlò di ''marxismo spirituale''; le Costituzioni panarabiste si fondavano, infatti, sulla shari'a, e la proprietà privata veniva ugualmente difesa.
La stessa formazione culturale di Aflaq, avvenuta a Parigi negli anni '30, presenta dei punti oscuri; il nostro non studiò solo gli scritti di Marx e Lenin, ma fu profondamente influenzato anche da pensatori pre-fascisti come Nietzsche e Mazzini.
Nonostante ciò Aflaq mantenne un certo distacco dai Partiti che presero il potere in Irak e in Siria, criticando il Centralismo Burocratico da cui erano caratterizzati quei regimi.
Insomma, seppur lontano dai Partiti marxisti, ha intravisto quegli elementi che hanno impedito al Ba'th di rappresentare, in Nord Africa, una vera alternativa sociale, debolezze di fondo che verranno sfruttate al momento ''giusto'' dall'imperialismo. Chiudo il paragrafo e vado alla mia posizione teorica sulla situazione attuale.

3. Come ho più volte detto bisogna ripartire da Trotsky e dall'intervista a Matteo Fossa. Riporto, ancora una volta, le parole del meraviglioso costruttore dell'Armata Rossa:

''Il Brasile regna oggi un regime semifascista che qualunque rivoluzionario può solo odiare. Supponiamo, però che domani l’Inghilterra entri in conflitto militare con il Brasile. Da che parte si schiererà la classe operaia in questo conflitto? In tal caso, io personalmente, starei con il Brasile “fascista” contro la “democratica” Gran Bretagna. Perché? Perché non si tratterebbe di un conflitto tra democrazia e fascismo. Se l’Inghilterra vincesse si installerebbe un altro fascista a Rio de Janeiro che incatenerebbe doppiamente il Brasile. Se al contrario trionfasse il Brasile, la coscienza nazionale e democratica di questo paese e condurre al rovesciamento della dittatura di Vargas. Allo stesso tempo, la sconfitta dell’Inghilterra assesterebbe un colpo all’imperialismo britannico e darebbe impulso al movimento rivoluzionario del proletariato inglese. Bisogna proprio aver la testa vuota per ridurre gli antagonismi e i conflitti militari mondiali alla lotta tra fascismo e democrazia. Bisogna imparare a saper distinguere sotto tutte le loro maschere gli sfruttatori, gli schiavisti e i ladroni!''.

Faccio presente (con riferimento a certi sciagurati ''sinistri'') che l'equazione Gheddafi e Assad uguale fascisti, è errata. Il fascismo è una reazione capitalistica al movimento operaio, che, per dirla con Trotsky, ''bandisce la socialdemocrazia'', mentre il Partito Ba'th (con tutte le ambiguità su dette) si inserisce, a pieno titolo, nelle rivoluzioni anticoloniali che coinvolsero il Nord Africa dai primi anni '50 (Nasser, Ben Bella, Assad, Gheddafi). Il fascismo è tremendamente regressivo, mentre il Ba'th ha avuto un ruolo importante nell'evitare, per un discreto periodo, la ''balcanizzazione degli Stati arabi'' (parole di ''Il programma comunista'' n. 6 del 1958, giusto? Ho molti critici della Sinistra Comunista ma la materia un po' la conosco).
Ancora due parole (ma proprio due), su Libia e Siria, prima di commentare il testo di Trotsky.
Se uno Stato non è socialista (quindi è uno Stato borghese, o un regime a Centralismo Burocratico) non significa che non abbia una base sociale (''valutare i regimi partendo dalle loro basi sociali'', parole di Trotsky a riguardo della monarchia etiope). Su Libia e Siria ci sono questi appunti da fare: 1) dai dati che emergono (e li mostrerò in fondo) i regimi panarabisti mantengono un Stato sociale effettivo (mi dispiace ma è così); 2) Libia e Siria sono gli unici due Stati laici nel mondo arabo.
Per ciò che riguarda la Libia farò una dovuta precisazione in rapporto al primo punto. Nel 1997 Gheddafi segue la così detta svolta panafricana, aprendo le frontiere ad una immensa immigrazione dal centro Africa, cosa che destabilizzerà il mercato interno, e la redistribuzione delle rendite petrolifere. La popolazione libica ha circa 6,5 milioni di abitanti, di cui, circa 1,5 milione sono lavoratori provenienti da Paesi come il Mali, il Niger, la Nigeria, il Sudan, l'Etiopia, e la Somalia, che offrono manodopera a basso costo. E' interessante notare come la Libia, in effetti, non abbia un proletariato autoctono e i libici coprano funzioni impiegatizie di gestione del capitale nazionale ed internazionale. Tutte cose che negli ultimi anni hanno provocato squilibri sociali, cavalcati, ora, dai luridi mercenari di Bengasi.
Il secondo punto, invece, non è da poco, e meriterebbe un testo a parte. Osservando le dinamiche di queste ''rivolte'' è emerso un unico comune denominatore: il fondamentalismo islamico, rappresentato dalla Fratellanza Musulmana. Cari militanti della Sinistra Comunista (miei feroci critici) ecco che tiro fuori il vostro incubo peggiore: Antonio Gramsci. A.G. nelle ''Note sul Machiavelli'' (tanto disprezzate da Quinterna e consorti...) contrappone al ''Programma di transizione'' di Trotsky, quella che lui chiama ''guerra di posizione''. In un paese come l'Egitto (solo per fare un esempio) abbiamo assistito ad una progressiva islamizzazione del proletariato e del sottoproletariato, cosa che con il nasserismo (a dispetto di quello che ha scritto di recente Samir Amin) si è rivelata impossibile. La Fratellanza Musulmana, a mio avviso, ha condotto una progressiva ''guerra di posizione'' andando ad egemonizzare grandi fette della società civile. Il grande sardo contrapporrà l' ''egemonia civile'' alla ''rivoluzione permanente''; ecco perchè critico anche molti compagni trotskisti che studiano il marxismo a colpi di forbice. Insomma, spero, anche qui, di essere stato chiaro.
E finalmente rivado, come atto conclusivo, all'intervista a Matteo Fossa, su citata. La mia posizione è questa: bisogna dare il pieno appoggio, alla resistenza popolare libica (quindi ai lealisti contro i mercenari di Bengasi), irakena, palestinese (cito esempi Nord Africani, ma potrei continuare), perchè questo è un passo in avanti verso il crollo degli imperialismi Usa-UE (nemico principale da colpire). I marxisti hanno sempre individuato il baricentro dell'imperialismo unitario; Marx lo individua nell'Impero zarista, Zinovev, al Congresso di Baku, nell'imperialismo inglese, e Bordiga, nella lettera a Damen del luglio 1951, nell'imperialismo americano. Ecco il motivo principale perchè ritengo necessario un ''Fronte unico militare'' (da non confondere con il Fronte unico politico) con ciò che resta del panarabismo laico (e resta veramente poco).
In conclusione vorrei che si facesse un po' più di attenzione alle menzogne mediatiche (dalla falsa presa di Tripoli ad altre cose non vere, non posso fare un elenco in questa sede del letame che fanno passare per informazione) che puntualmente vengono diffuse 1. Dove sta il punto forte di un materialista storico, che dovrebbe, ben sapere, come i mass-media siano in mano alla classe dominante, e seguono gli interessi dell'imperialismo? Bordiga nell'articolo ''Schifo e menzogna del mondo libero'', su ciò, è stato molto chiaro.


4. Bene, questo è tutto. Vorrei avvisare molti militanti che la logica errata del ''nè, nè'' in questa fase non fa altro che portali, dritti dritti, fra le braccia di Obama, Soros, o, stando bassi, Vespa e Travaglio, ma ho paura di non essere ascoltato.
Va bene così, io il mio dovere l'ho fatto, vi chiederei di riflettere ma scatterà qualche accusa epocale (fascismo, stalinismo, rosso-brunismo, e altre stupidaggini a cui non do attenzione), o al massimo la risposta verrà delegata a vuoti slogan che non fanno paura nemmeno all'imperialismo più ascaro e straccione, come quello italiota. Non so, vedete voi.

P.S. Sulla Libia di Gheddafi ricevo e pubblico, giusto per dare una idea di cosa, con tutte le contraddizioni possibili e immaginabili, sta venendo meno:

- Indennità di disoccupazione: 730$ mensili (in Libia la vita costa 1/3 rispetto a qui)
- Pil pro-capite: 14.192$ – DEBITO/PIL: 33% (secondo il sito della CIA al 2010 è il paese meno indebitato al mondo) https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/rankorder/2186ran
- Ogni membro di una famiglia riceve dallo Stato 1000$ annuali
- Per ogni nuovo nato lo Stato dona alla famiglia 7000$
- Gli sposi ricevono 64.000$ per l’acquisto di una casa
- Istruzione ed università all’estero a carico dello Stato
- Prezzi simbolici dei prodotti alimentari base per le famiglie numerose
- Erogazione gratuita di prodotti medicinali e farmaceutici
- 1 litro di benzina costa 0,14$ dunque è più economica dell’acqua
- Energia elettrica gratuita
- All’apertura di un’attività personale si riceve un finanziamento statale di 20.000$
- Per l’acquisto di una vettura il 50% è versato dallo Stato
- Prestiti per l’acquisto di un auto o di una casa senza alcun interesse
- Imposte e tasse extra PROBITE
http://tipggita32.wordpress.com/2011/04/22/eloquent-facts-of-the-socialist-li…

Allora il confronto verte con l'Irak dopo lo shock economy imposto dagli yankee, e non la Spagna di Nin e Durruti. I trotskisti se non vogliono ricevere la nomina a trotsko-imperialisti tengano a mente ciò.

Note:

1) I satelliti russi confermano che l'esercito lealista controlla il 75% della Libia, altro che caduta di Gheddafi.

Stefano Zecchinelli

mercoledì 21 settembre 2011

LA LOTTA DI CLASSE NEGLI STATI UNITI DAL CROLLO DEL 2008 di L. Goldner


di Loren Goldner

dal sito PonSinMor

Lo sfondo

Per comprendere la lotta di classe negli Stati Uniti dall’implosione finanziaria del 2007-2008, dobbiamo considerare brevemente la storia dei quattro decenni precedenti, a partire dalla conclusione dell’insorgenza negli scioperi a gatto selvaggio della fine degli anni ‘60/inizi anni ‘70. La storia della classe operaia americana da circa il 1973 (come è ben noto), è stata un’ondata quasi ininterrotta di sconfitte e arretramenti. Ciò è stato descritto come «una guerra di classe in cui soltanto un lato era in lotta». I salari reali erano caduti in quei decenni di una stima tradizionale del 15% e, a partire dal 1960, la famiglia monoreddito del colletto blu cominciò a sparire. Oggi, in una famiglia tipica della classe operaia, sono necessari due-tre salari ed almeno uno è richiesto per coprire da solo i costi della casa (in genere il 50% del reddito familiare). La settimana lavorativa media è aumentata almeno del 10% per quei lavori che impegnano a tempo pieno; in realtà, la forza lavoro assomiglia sempre più alla «società della clessidra» con gli «strati professionali» che lavorano 70 ore a settimana e una maggioranza della popolazione precarizzata nel lavoro irregolare part-time. Il 10% in cima alla popolazione ha denunciato approssimativamente il 70% di tutti gli aumenti nel reddito durante lo stesso periodo. Gran parte del vecchio nord-est industriale (anche questo è ben noto) si è trasformata nel «contenitore della ruggine», con bassi salari, in disfacimento e con lavori «di servizio» (esempio la Wal-mart) al posto dei lavori del vecchio colletto blu abbastanza pagati e relativamente sicuri. Gli Stati Uniti competono col Sud Corea nell’avere i posti di lavoro più pericolosi nel mondo capitalista «avanzato», con 14 operai al giorno uccisi sul lavoro. Il 2% della popolazione (sette milioni di persone)(1), in gran parte neri e latini, è in attesa di processo, in prigione o in libertà vigilata, in gran parte come esito della «lotta alla droga». Con le centinaia di migliaia di persone che perdono le case e gli appartamenti in conseguenza della perdita del loro lavoro, i senza tetto sono aumentati vertiginosamente, intensificando la «guerra ai poveri» nella persecuzione della polizia, che ammassa come bestie la gente in rifugi fetidi che sono poco più che prigioni, e con la criminalizzazione delle persone per strada.
Questa è, dunque, una fotografia istantanea della realtà sociale nel «paese più ricco nel mondo».

Declino dell’attività di sciopero

Di fronte a questa offensiva capitalista dagli anni ‘70, lo sciopero classico, per non parlare dello sciopero a sorpresa, è tramontato fin quasi a sparire. Negli anni ‘70, il 20% degli operai americani era stato interessato ogni anno negli scioperi o nei blocchi e soltanto lo 0.05% nel 2009. I vecchi sindacati industriali si sono indeboliti seriamente a causa della de-industrializzazione; oggi sono caduti dal 35% della forza lavoro nel 1955 all’attuale 12% e la maggior parte di quelli rimanenti è nei sindacati del settore pubblico.(2) (Per non essere frainteso: la maggior parte dei sindacati principali, fino al 1973, combatteva l'insurrezione selvaggia della truppa, non i capitalisti. Tuttavia, la loro perdita di iscritti riflette in parte la loro incapacità persino di continuare il «sindacalismo degli affari» in voga negli anni ‘70.) Quegli operai che mantengono il posto normale con stipendi decenti e indennità, quando scioperano, sono rimasti quasi senza eccezione nell’ambito della legalità e strettamente definiti «unità di contrattazione» che assicura la sconfitta prima che la lotta cominci.

Innalzamento piramidale del debito del consumatore

La classe operaia americana e la «classe media» (un termine sovraccarico di ideologia, legato al «sogno americano» quasi estinto di un lavoro fisso, di una proprietà domestica e di una pensione rispettabile) hanno parzialmente compensato i salari effettivi in diminuzione dopo gli anni ‘70 con il debito crescente del consumatore. A cominciare dagli anni ‘90, questo è stato completato dalla bolla immobiliare, propagata dal mito mediatico che «i prezzi degli alloggi non scendono mai» ed alimentato dalla bolla dei «sub-prime» degli anni 2000, quando virtualmente chiunque avrebbe potuto ottenere un mutuo ipotecario e comprare una casa, o ottenere un secondo mutuo ipotecario ed usare questi «beni» immaginari come base per ulteriore credito. Una gran parte del «recupero» dal crollo del 2000-2003 della bolla del dot.com era collegata con la costruzione di alloggi e con le industrie che vi erano incluse, come gli elettrodomestici e l’arredamento. Questo ammucchiarsi del debito per il consumo da parte dei lavoratori, sia dei colletti blu che dei colletti bianchi, marciava in parallelo all'aumento senza precedenti del debito dello Stato (federale, statale e comunale) e al debito estero degli Stati Uniti (in dollari netti totali tenuti all'estero, meno i beni degli Stati Uniti all'estero) di almeno 10 trilioni di $.
Così l'eruzione effettiva della crisi con la rottura della bolla immobiliare del 2007, seguita dagli spasmi indotti nel 2008 nel settore bancario, era soltanto il culmine di un lungo processo di tempo di acquisto con innalzamento piramidale del debito fin dagli anni ‘70, riflesso di una crisi di fondo del profitto (e in definitiva del valore nel senso di Marx) nell'economia «reale». Ma questa, per lo scopo di questo articolo, è un'altra storia.

La dinamica politica

Nel clima sociale generale non va trascurato il peso dell'elezione del novembre 2008 di Barack Obama (scelto con tutta probabilità dallo scoppio della crisi a ottobre, nelle settimane precedenti). Come nel 1929-1934, la grande maggioranza della popolazione degli Stati Uniti reagì all’inizio del crollo con stupito silenzio. Obama, denunciato dalla «destra» (il Partito Repubblicano e, nei due anni precedenti, la fazione di destra radicale del partito Thea Party (3) dei Repubblicani) come «socialista» (per non accennare all’accusa di essere un «musulmano» e perfino un «marxista»), di fatto ha effettuato le politiche per la destra del suo predecessore George W. Bush in quasi ogni zona. Ma la risposta a tali politiche è stata smorzata perché la sua base liberal (nel senso americano del termine) ha determinato al suo governo ogni beneficio del dubbio. Obama ha intensificato la «guerra contro il terrorismo», che sempre più è un’estensione all'opposizione domestica;(4) ha intensificato il coinvolgimento degli Stati Uniti nelle sue guerre in perdita in Medio Oriente (Irak, Afghanistan) e nei bombardamenti coi droni in Pakistan. Il suo «team economico» include ben noti killers professionisti quali Lawrence Summers (il quale, in qualità di sottosegretario del Ministero del Tesoro, aveva supervisionato la repressione del Sud Corea nella crisi asiatica del 1997-98), Paul Volcker (il quale, come capo della Federal Reserve Bank, aveva gestito la profonda recessione del 1979-1982) e Tim Geithner (ex capo della Federal Reserve Bank di New York). Questa squadra ha architettato enormi salvataggi di banche collassate e di istituti immobiliari, garantendo trilioni di dollari a prestiti difettosi al 100%, ma facendo poco o niente per i colletti blu e bianchi, per non dire della sempre crescente popolazione marginale e senza casa. La «riforma» sanitaria orwelliana di Obama (denunciata persino come «socialista») è stata virtualmente scritta dalle grandi aziende di assicurazione sanitaria private, che dominano il retrogrado sistema sanitario degli Stati Uniti.(5) Nel dicembre 2010, Obama ha esteso le indennità di disoccupazione in un «accordo» con il Congresso che, in più, ha esteso le riduzioni di imposta di Bush per i ricchi, che erano costate al governo federale 200 miliardi di $ all’anno in reddito perso ogni anno dal 2001, mentre le guerre nell’Iraq e nell’Afghanistan sono costate 1.5 trilioni di $, se non più. La sua amministrazione ha sovrainteso a più respingimenti di immigranti illegali che durante tutti gli anni di Bush, che sono a carico più pesantemente sulla popolazione marginale latinoame-ricana entrata nel Paese durante il boom immobiliare pre-2007 per lavorare nell’edilizia e che hanno perso quei lavori quando il boom è crollato. Nella farsa di Washington del Giugno-Luglio sul deficit federale degli Stati Uniti, la minoranza di destra radicale (Thea Party), con enorme influenza sulla Camera bassa del Congresso, ha fornito a Obama la copertura per spostarsi persino più a destra, preparandosi per i grandi tagli nelle «concessioni» - un altro termine sovraccarico ideologicamente che si riferisce all’assistenza medica per i poveri e gli anziani e al sistema di sicurezza sociale per i pensionati. Tutti questi sviluppi illustrano il ruolo storico delpartito Democratico, cioè quello di mettere in atto politiche che susciterebbero seria opposizione se effettuate dai Repubblicani.
Il sistema politico americano è stato descritto come consistente in un partito della destra e in un partito lontano della destra; almeno dagli anni 1880, i due partiti dominanti sono stati impegnati in una prassi «buon poliziotto/cattivo poliziotto». Il 50% più povero della popolazione non vota e la politica ufficiale si è abbassata in un gioco d’ombra che alimenta una passività e un cinismo generali. Questo è uno dei contesti che spiegano i fenomeni strani come l’attuale Thea Party; quando le persone si mobilitano, i populismi di destra e (oggi meno in evidenza) di sinistra (la rivolta della «piccola gente») sono le prime valvole di sicurezza del sistema.
Nel novembre 2010, la collera populista
(6) della destra contro le misure «socialiste» di Obama (il salvataggio delle banche, la «riforma» dell’assistenza sanitaria, gli annacquati e principalmente simbolici tentativi di regolamentazione del governo delle finanze) ha portato massicci avanzamenti repubblicani in entrambe le camere del Congresso degli Stati Uniti, eliminando una maggioranza Democratica nella Camera (bassa) dei rappresentanti e quasi occupando il Senato. Molta della base di Obama del 2008, delusa (o disgustata) con la sua regola praticamente aperta negli interessi del grande capitale, non si mosse semplicemente di casa. (né si dovrebbe trascurare la collera populista della destra, raramente espressa in modo aperto, verso la pelle nera di Obama)

La «recessione» e la tenue resistenza

Dalla caduta del 2008, il tasso di disoccupazione ufficiale negli Stati Uniti ha raggiunto il 9.1% ma con ogni probabilità è più vicino a 15%, con cifre continuamente «rivedute», che includono chiunque lavori un’ora in un mese come «impiegato» ed escludono milioni di persone che hanno smesso completamente di cercare lavoro. Centinaia di migliaia di persone hanno perso le case dopo la perdita del lavoro, particolarmente nelle zone precedenti del «boom» come Central Valley della California, Las Vegas, o Florida; altri milioni sono sottoposti a ipoteche cosiddette «sott’acqua» (superiori al valore reale delle loro case). Qui sono anni che le case vuote sono sbarrate e i prezzi degli immobili continuano a cadere. (Al momento in cui scrivo queste cose – primi di agosto 2011 – i mercati azionari mondiali sono in caduta libera, il che può invecchiare queste cifre di giorno in giorno).
Un fenomeno impressionante, collegato al crollo degli alloggi, è la quasi assenza di resistenza collettiva ai sequestri ipotecari
(7) e agli sfratti (8). Questo è un contrasto importante all’inizio degli anni ‘30, quando a New York City (per esempio) migliaia di persone si radunarono per proteggere i vicini minacciati di sfratto (9), o nelle zone rurali dove i coltivatori (spesso armati) hanno tentato di proteggere la terra dell'azienda agricola dal sequestro da parte delle banche. Un compagno in una delle città economicamente più devastate (Baltimora, Maryland), che ha rivaleggiato con Detroit nel declino dagli anni ‘70, riferisce che la grande maggioranza delle persone oggetto di sequestro ipotecario o sfrattate laggiù semplicemente «si vergogna» della propria situazione, la tiene nascosta ai vicini e se la squaglia tranquillamente nella notte.

Attacchi all’assistenza sanitaria e alle pensioni

Dal 2007-2008, la lotta di classe aperta si è spostata in misura rilevante dal posto di lavoro allo scontro con lo Stato in bancarotta, ad ogni livello (federale, statale e comunale). Ma questo spostamento è stato preparato dalla sconfitta ancora precedente degli operai praticamente in ogni settore industriale dei colletti blu, con in testa gli operai dell’auto. Gli operai del settore pubblico e dei servizi annessi, dopo decenni di propaganda sulla superiorità della privatizzazione, potrebbero essere demonizzati come privilegiati, parassiti super pagati perché erano gli ultimi operai che traggono ancora vantaggio da lavori e privilegi relativamente sicuri.
Una dimensione quasi onnipresente di questo scontro è sui costi della sanità, dato il retrogrado «sistema» privato americano di assistenza sanitaria. Anche prima dell’esplosione generale della crisi, molti degli scioperi che si determinavano erano incentrati sulla sanità
(10) (Per molte persone, specie quelle con famiglia, il programma sanitario privato collegato all’occupazione è altrettanto importante, a volte più importante, che lo stipendio in se). Man mano che la crisi erodeva notevolmente le imposte sul reddito, degli Stati e delle città, sempre più questi non potevano pagare la sanità e le pensioni per gli impiegati pubblici. Ad ogni livello, politici, demagoghi e think tanks lamentano che «i costi dell’assistenza sanitaria salgono vertiginosamente», ma non dicono una sola parola seria sulle sue cause vere, che risiedono nel controllo dell’assistenza sanitaria da parte delle compagnie di assicurazioni private e nei prezzi gonfiati fatti pagare dalle grandi aziende farmaceutiche. (Alcuni mesi fa, un uomo della Florida ha tentato una rapina in banca, per farsi arrestare, così da potere infine ricevere l’assistenza sanitaria in prigione). La tendenza a lungo termine, ancora una volta promossa da quasi tutti i politici ufficiali, verso l’abbassamento delle tasse ad un tetto massimo del 10% o sull’1% della popolazione, ha inoltre mandato in bancarotta molti Stati e città.
La crisi della sanità procede insieme con la crisi delle pensioni, sia nel settore privato che pubblico. A partire dagli anni ‘90, i datori di lavoro si sono spostati sempre più dal pagamento integrale delle pensioni di «indennità definita» al pagamento nell’ambito del «K 40l» dove il datore di lavoro e il lavoratore pagano entrambi in un fondo che viene poi collocato … nel mercato azionario, naturalmente con tariffe per la mediazione dei titoli. Gli studi hanno dimostrato che i pensionati congedati col K 40l sono pagati solo col 10-33% di quello che era pagato con le precedenti pensioni dell’indennità definita (che ha riguardato soltanto un terzo della forza lavoro al suo picco). Questa tendenza, unita agli attacchi congressuali che si aggiungono all’assistenza sanitaria statale ed alla previdenza sociale, indica il rapido impoverimento degli anziani. La crisi intacca i bilanci dello Stato e degli enti locali, lasciandoli incapaci di pagare le pensioni degli impiegati pubblici che vanno in quiescenza. (Nel novembre 2009, per esempio, gli operai del transito a Philadelphia scioperarono per sei giorni per ottenere l’aumento dell’indennità pensionabile).

L'ultima «fortezza operaia» industriale: il crollo della United Auto Workers

Una vittoria chiave nel lungo attacco decennale alla classe operaia degli Stati Uniti – in un certo senso la conclusione di un’epoca – fu l’accettazione nel 2007 di un contratto di secondo livello dei «Big Three» costruttori di auto (GM, Ford, Chrysler) da parte della United Auto Workers (UAW), un contratto affrettato mediante approvazione, nonostante la vasta opposizione da parte degli operai della base. Da allora in poi, le nuove assunzioni dei Big Three partirono a 14 $ l’ora, rispetto a 27 $ l’ora per gli operai più anziani. Il contratto della UAW dalla seconda guerra mondiale era stato un accordo «pilota» per molti altri settori industriali e durante i tre anni successivi il numero dei contratti sindacali di secondo livello negli Stati Uniti è aumentato da 2% al 12%.
Nel 2009, nel bel mezzo del collasso finanziario, sia GM che Chrysler dichiararono il fallimento e furono prese sotto tutela dal governo degli Stati Uniti. Il fallimento era soltanto una strategia per ristrutturare i loro impegni debitori, in primo luogo di tutti gli operai dell’auto pensionati. Quando nelle settimane seguenti le due aziende emersero dal fallimento, il UAW diventava un azionista principale in entrambi i gruppi. Con le procedure di fallimento, le aziende si erano liberate di 50 miliardi di $ dovuti al fondo di sanità per gli operai pensionati. Un nuovo fondo, denominato VEBA (Associazione Volontaria dei Dipendenti Beneficiari), sarà amministrato dal UAW e sarà basato esclusivamente sul valore di mercato dei titoli della Chrysler e della GM. Un crollo dei titoli, o un altro fallimento dell’una o dell’altra azienda, lascerà due milioni di pensionati del UAW ed i loro dipendenti senza assistenza sanitaria e le loro pensioni sarebbero tagliate o assunte dal governo degli Stati Uniti ad un certo sconto.

Attacchi agli impiegati pubblici: Wisconsin

Dopo aver battuto il sindacato che era stato il modello per gli accordi salariali nell’industria degli Stati Uniti per sessanta anni (l’occupazione complessiva negli impianti statunitensi delle «Big Three» stava diminuendo da decenni anche se le ditte straniere di automobili avevano investito molto in impianti non sindacali nel Sud), il capitale ha intensificato la sua offensiva nel 2011 attaccando gli impiegati pubblici e i servizi pubblici, fatto che è meglio illustrato nello Stato del Wisconsin ma con analoghi sviluppi in Ohio, Indiana, Illinois, California, Connecticut, New Jersey, New York (Stato) e New York City. Nel Wisconsin, un governatore repubblicano neo-eletto, Scott Walker, ha tentato di abolire la contrattazione collettiva, in testa alla, fino ad ora, più grande (e più sostenuta) mobilitazione della classe operaia post-2008.
Nelle elezioni del novembre 2010, Scott Walker e il Partito Repubblicano hanno assunto la direzione del governo statale del Wisconsin nella frana generale dei Repubblicani. (Successivamente è emerso che Walker aveva avuto stretti legami coi fratelli del miliardario di estrema destra Koch, che vedevano chiaramente il Wisconsin come un esperimento per una strategia e tattiche da usare altrove). Una volta al potere, hanno attuato importanti riduzioni di imposte ai ricchi ed alle società, e così hanno annunciato un deficit del bilancio pubblico, fatto molto peggio rispetto a quelle riduzioni. Walker ha proposto una legislazione per massicci tagli nei Servizi Sociali, permettendo al governo statale di privatizzare a capriccio, ed abolendo i diritti di contrattazione collettiva per gli impiegati pubblici.
(11) La risposta immediata fu una serie di scioperi selvaggi dalle scuole intorno allo Stato e un «sick-in » da parte degli insegnanti che equivalse a uno sciopero a sorpresa. Il palazzo del Campidoglio dello Stato a Madison fu occupato per settimane da migliaia di persone e manifestazioni di massa furono messe in atto ogni fine settimana fino al 12 marzo, quando 125.000 operai si ammassarono per un raduno. (Cartelli e slogan del movimento evocavano esplicitamente l’occupazione di piazza Tahrir al Cairo, ma diversamente dall’Egitto, il movimento nel Wisconsin non riuscì a rovesciare Walker). Il problema fondamentale emerso nel movimento del Wisconsin è stata la capacità del partito democratico e dei sindacati di controllarlo e di disinnescare un certo sentimento reale per uno sciopero generale in tutto lo Stato. Questo modello è stato ripetuto diverse volte in altri Stati, anche se da nessuna parte la resistenza contrapposta a simili tagli raggiunge la profondità di quanto è accaduto nel Wisconsin. I Democratici e i sindacati si sono collegati molto strettamente perché questi ultimi sono i principali sottoscrittori ai fondi della campagna del partito, i quali provengono dai fondi dei membri del sindacato. Così in California, nello Stato di New York, nel Minnesota e nel Connecticut, i governatori democratici, eletti con il forte contributo finanziario del sindacato, hanno spinto per tagli agli impiegati pubblici simili a quelli di Walker, ma hanno conservato le apparenze della contrattazione collettiva. In altri Stati controllati dai Repubblicani, i risultati sono stati misti e i governi in alcuni casi hanno fatto marcia indietro rispetto allo scontro aperto sotto l’effetto dello scontro del Wisconsin.
Nel Wisconsin in se, dopo che la mobilitazione di massa ha raggiunto il massimo nella manifestazione, i Democratici e i sindacati hanno spinto il movimento nei canali elettorali, tentando di destituire i vari politici repubblicani e di eleggere i Democratici, oscurando interamente il fatto che i Democratici, che avevano perso il potere nel novembre 2010, avevano già imposto una severa austerità e stavano pianificandone di più.
(12)
In breve, il controllo sociale sulla resistenza a questi attacchi, i Democratici e i sindacati, hanno fatto bene il loro lavoro in tutto il paese.(13)

Lotte minori e sconfitte

Anche le lotte minori negli Stati Uniti si sono concluse nella sconfitta parziale o totale. Nel novembre 2008, gli operai alla fabbrica Republic Doors and Windows a Chicago cominciarono a notare che il macchinario spariva dalla fabbrica durante la notte, segno evidente di una chiusura imminente. Il 2 dicembre 2008, l’amministrazione dell’azienda annunciò che l’impianto sarebbe stato chiuso entro tre giorni. Il giorno di chiusura previsto, il 5 dicembre, i 240 operai, prevalentemente neri e latini, [membri dei Sindacati Operai Elettrici (UE) dalla reputazione un po’ più militante della maggior parte dei sindacati] occuparono la fabbrica, esigendo l’indennità di licenziamento e di assistenza malattie, e il 10 dicembre gli operai accettarono un pacchetto di dismissione che raggiungeva in media 7000 $ per operaio e due mesi di assistenza sanitaria. L’amministrazione incolpò la Banca d’America di taglio del credito, nonostante di recente avesse comprato una fabbrica non sindacale di finestre nel vicino Stato dello Iowa. Gli operai picchettarono la banca, e operai provenienti da altre fabbriche portarono cibo, coperte e sacchi a pelo durante l’occupazione.
Nonostante gli operai della Repubblica avessero di fatto vinto qualcosa, essi hanno perso i loro lavori, un piccolo fatto passato inosservato nel gran baccano degli ambienti di lavoro «progressisti» e di sinistra riguardo alla lotta.
Un’altra lotta, con un risultato ancora peggiore per gli operai, fu lo sciopero al biscottificio Stella d’Oro a New York City. Il 13 agosto 2008, 135 operai del Sindacato dei Panettieri marciavano per le trattative contrattuali. In origine un affare di famiglia, con molti operai che avevano decenni di anzianità di lavoro, la Stella d’Oro fu rilevata da un fondo a gestione alternativa (hedge fund)
che stava richiedendo un taglio del salario del 28%, un tetto al pagamento delle ore straordinarie per i sabati e un contributo dei dipendenti del 20% al programma di assistenza sanitaria. Il sindacato insistette su una strategia legalitaria, senza far niente per impedire ai crumiri di entrare in fabbrica, ai camionisti di scaricare la farina, o per allargare lo sciopero alle altre panetterie. Nel maggio 2009, gli operai ricevettero l’offerta di rientrare al lavoro senza un contratto e furono costretti a piegarsi. Il sindacato inoltre convinse gli operai a contare su una decisione favorevole da parte del National Labor Relations Board (NLRB) (Ufficio Nazionale per le Relazioni Industriali), l’organo governativo di «mediazione» degli Stati Uniti. Lo sciopero continuò fino alla fine di giugno del 2009, quando l'Ufficio Nazionale per le Relazioni Industriali del governo (NLRB) decretò che il fondo a gestione alternativa era impegnato in «pratiche di lavori ingiusti» rifiutando di negoziare col sindacato. Ai primi di luglio, il giorno in cui gli operai della Stella d’Oro tornarono al lavoro, l’amministrazione annunciò che stava chiudendo la fabbrica, e continuò ad agire in tal senso.
A Boron, California, a fine gennaio 2010, 500 minatori che lavoravano per Rio Tinto (la terza tra le più grandi aziende di estrazione mineraria nel mondo) furono bloccati fuori dopo il rifiuto di un contratto che avrebbe eliminato le pensioni, ridotto i salari e introdotto la «flessibilità» del lavoro – giustificati con la «competizione globale».
A metà maggio, il Local 30 dell’ILWU (International Longshore Workers Union, il Sindacato Internazionale dei Lavoratori di Longshore) accettò un nuovo contratto, approvato dagli operai con una maggioranza di 3 a 1. Il nuovo contratto comportava un aumento di salario del 2.5% annuo; per i nuovi assunti, le pensioni pagate dall’azienda (come discusso sopra) saranno sostituite con progetti 401(k) finanziati per i dipendenti con un 4% di contributo dell’azienda. I giorni di malattia pagati sono stati ridotti da 14 a 10 all’anno.
L’ILWU, ancora una volta, aveva diretto lo sciopero su una base completamente localista e legalitaria. I crumiri e i dirigenti, protetti da un impiego di polizia su vasta scala, hanno lavorato durante lo sciopero malgrado gli sforzi dagli operai di Boron per bloccarli. Non è mai stato organizzato un sostegno diffuso nella zona e nella vicina Los Angeles. Il sindacato ha invece fatto appelli impotenti alle assemblee degli azionisti della Rio Tinto e tenuto riunioni patriottiche americane al consolato britannico.
Come nel caso della Repubblica, il sindacato e l’ambiente della sinistra «progressista» hanno cantato vittoria.
(Al momento in cui scrivo queste cose, 45.000 operai del telefono nel nordest degli Stati Uniti sono appena scesi in sciopero contro Verizon, organizzati nel CWA (Communication Workers of America, Operai della Comunicazione d'America) e nell’IBEW (International Brotherhood of Electrical Workers, Fratellanza Internazionale degli Operai Elettrici). Verizon vuole «adeguare» il contratto al taglio delle pensioni, al cambio delle regole di lavoro e spinge i dipendenti a pagare di più l’assistenza sanitaria, citando il declino costante nel servizio della linea terrestre e lo spostamento verso i telefoni cellulari e Internet).

Attacchi all’istruzione pubblica e mobilitazione degli studenti

L’istruzione è un’altra dimensione della riproduzione sociale in cui l’austerità dello Stato ha portato alla mobilitazione di massa. Possiamo mettere da parte per un momento la natura dell’istruzione ad ogni livello come una grande macchina fabbricatrice di attestati destinata a mantenere le distinzioni di classe e la gerarchia e a preparare le persone ad accettare il posto di lavoro e la disciplina sociale nei dieci milioni di lavori esistenti (come il settore FIRE - Finanze, Assicurazioni, Immobiliare) soltanto perché la società è capitalista. Una società comunista rivoluzionerà l’istruzione, e il «lavoro», in modo irriconoscibile. Sia come sia, al di sotto delle scuole d’élite (in prevalenza private) (a cui oggi si è ammessi al costo tipico di 40.000 $ l’anno), i «cinder block» statali e gli istituti superiori, nel periodo immediatamente successivo alla de-industrializzazione, rimangono per la gioventù della classe operaia il percorso principale per lavori sopra il livello dei Mc Donalds.
Nella California, dove l’istruzione pubblica, come alla fine degli anni ‘70, era quasi libera, l’insegnamento scolastico ad ogni livello (università, istituto universitario statale, istituto superiore) è aumentato di migliaia di dollari l’anno e la maggior parte degli studenti deve lavorare almeno a tempo parziale per rimanere a scuola, così come devono accumulare debiti per prestiti studenteschi che possono ammontare a 100.000 $ alla laurea. A causa dei tagli nelle scuole elementari e superiori, conseguenti in parte della «rivolta fiscale» populista della destra del 1978 e da allora, la qualità delle scuole pubbliche della California (elementari e superiori) è calata nel corso di parecchi decenni dal primo posto nel paese fin quasi all’ultimo, allo stesso livello del Mississippi e della Louisiana. Le scuole hanno a che fare con una dimensione sempre crescente delle lezioni, con materiali inadeguati (manuali, ecc.), con gli attacchi ai sindacati degli insegnanti e col finanziamento più basso per allievo negli Stati Uniti. Aggiunti ai tassi di incarcerazione in vertiginosa ascesa (fra i più alti negli Stati Uniti) è diventato famigerato negli anni ‘90 che lo Stato della California aveva più uomini di colore in prigione che in college. Sia l’amministrazione di Obama che di Bush hanno tentato di occuparsi di questa crisi a lungo termine imponendo un sempre crescente inquadramento del curriculum di studi, riducendo gli insegnanti addetti alla preparazione degli studenti ad ogni livello mediante prove di obbiettivi standardizzati. (Gli studenti americani si collocano notoriamente al fondo nelle prove comparative internazionali degli studenti di scuola superiore).
Così nell’autunno del 2009, gli studenti delle città universitarie di Berkeley e di Los Angeles dell’Università di California (UC) si mobilitarono contro ulteriori rincari dell’insegnamento e a Berkeley in migliaia si sono scontrati con la polizia. Fu un preludio ad una mobilitazione nazionale il 4 marzo 2010, in cui la California era ancora sul filo di lama. Questa volta il movimento si estese ben oltre il sistema, relativamente d’élite, dell’Università di California fino agli istituti universitari di Stato e alle scuole superiori, dove insegnanti e allievi sono usciti fuori. A Oakland, California, centinaia di studenti bloccarono un’importante superstrada per parecchie ore.
Le azioni della California furono le più grandi tra le mobilitazioni analoghe in più di 20 Stati il 4 marzo, nessuna delle quali riuscì a invertire i tagli.

Sciopero della fame nelle carceri della California

Tutte le tendenze della riproduzione sociale contratta: dalla disoccupazione di massa, ai sindacati pubblici di polizia, alle guardie carcerarie,(14) all’immagazzinamento della gioventù latina e nera nel sistema carcerario, sono giunti a un culmine con una rivolta in un importante carcere nella California nel luglio di quest’anno.(15)
Per anni, la California è stata all’«avanguardia» negli Stati Uniti nella costruzione del carcere «supermax» di massima sicurezza. Una delle più rinomate fra queste installazioni è nella Baia del Pellicano. Per le prime tre settimane di luglio, i detenuti isolati nelle celle di isolamento di calcestruzzo dell’«Unità Abitativa di Sicurezza» (SHU) alla Baia del Pellicano sono scesi in sciopero della fame, reclamando una fine del gruppo di punizione, dello «spionaggio»(16) imposto dalle autorità della prigione, programmi educativi, rapporto umano, chiamate a telefono settimanali, accesso alla luce solare e migliore alimentazione. Lo sciopero si è esteso a tredici carceri che in definitiva coinvolgevano 6.600 carcerati. I carcerati del SHU sono bloccati in celle senza finestre per 22 ore e ½ al giorno sotto luci fluorescenti permanenti.
Lo sciopero si concluse il 21 luglio quando le autorità del carcere acconsentirono di permettere agli internati del SHU di avere calendari murali, berretti di lana per il periodo invernale (le celle non sono riscaldate) e «riesaminare» l’imposizione dello spionaggio.
Le condizioni nelle carceri della California (con un sovraffollamento del 200% rispetto alla loro capienza) sono così scandalose che la reazionaria Corte Suprema degli Stati Uniti le ha giudicate come in violazione dell’emendamento costituzionale degli Stati Uniti contro la «punizione crudele e insolita».

Conclusione

Al momento in cui scrivo questa cose, i media ufficiali stanno sempre più parlando di una «recessione» a «doppio tuffo» negli Stati Uniti. Sulla base dell’analisi precedente, possiamo concludere con certezza che per la maggior parte dei lavoratori, la «recessione» non si è mai conclusa e sta in definitiva peggiorando. La risposta ufficiale post-2007/2008 alla crisi non è stata altro che un tentativo di ristabilire lo status quo ante per il capitale, correndo in salvataggio dei trilioni del debito immobiliare e bancario. Le aziende degli Stati Uniti hanno accumulato trilioni in più ma non li investono; allo stesso tempo, hanno lanciato un attacco generale al salario totale, in termini di paga, assistenza sanitaria, pensioni, espropri abitativi e istruzione.
L’infrastruttura degli Stati Uniti, che sta andando a pezzi, è valutata aver bisogno di 2.3 trilioni di $ di riparazioni e costi di sostituzione. Gli «indicatori sociali»
(17) del «Paese più ricco nel mondo» evidenziano che è una società più polarizzata di quanto lo fosse prima della depressione mondiale degli anni ‘30. Dall’ondata di scioperi della classe operaia degli anni 1966-1973, gli operai americani hanno subito i decenni del riflusso, perdendo una battaglia difensiva dopo l’altra. In questo «atterraggio morbido», e particolarmente dal collasso del 2007-2008, l’intera struttura della società americana post-1945 ha cominciato a dissolversi. Come e quando questo processo sarà invertito rimane una questione completamente aperta.

tradotto a cura di PonSinMor

1. L'aumento nella popolazione carceraria dal 1970 descrive quasi esattamente il numero dei lavori industriali persi nello stesso periodo. Gli Stati Uniti hanno il 25% della popolazione carceraria del mondo.

2. Una percentuale significativa dell’insieme dei membri pubblici del sindacato inoltre è costituita di polizia anti-classe operaia e di guardie carcerarie.

3. Il Thea Party è emerso come una forza alla destra del Partito Repubblicano, a partire dal 2009, esprimendo, meglio di altri raggruppamenti politici organizzati, la collera populista della destra che è stata parte del paesaggio politico americano, di tanto in tanto, dalla fine degli anni ‘70. In Europa, per quanto io ne sappia, non ci sono controparti significative all'ideologia del Thea Party. Esso rappresenta un «declino demografico» dell’anziano, del bianco, della popolazione della classe «media» e «medio alta» che immagina che i problemi dell’America possano essere risolti da un rigoroso equilibrio del bilancio ad ogni livello del governo e quindi di uno «statalismo minimale» che gestisca un «libero mercato» senza restrizioni. Una tale economia non è mai esistita, anche nell'era pre-1914, quando lo Stato costituiva una parte molto più piccola del «P.I.L.», ma ha giocato ancora un ruolo centrale nella politica tariffaria, la rimozione degli indiani per l'espansione dell’economia schiavista del sud e gli espropri della terra per le ferrovie ed i canali. Il contenuto reale di questo miraggio del Thea Party naturalmente sarebbe un grande rafforzamento della repressione di Stato e il mantenimento militare del (declinante) impero degli Stati Uniti, mentre va smantellando tutte le restanti dimensioni «sociali» dello Stato che la destra radicale degli Stati Uniti associa con il New Deal «socialista» degli anni ‘30 e della «Great Society» di Lyndon Johnson degli anni ‘60. La sua base sociale, in modo preponderante bianca, punta ad un (largamente) inconfessato ma molto reale ordine del giorno razziale delle persone spaventate dalle tendenze demografiche che indicano una minoranza bianca nella popolazione entro il 2050, e da un presidente nero. La funzione reale del Thea Party nella politica degli Stati Uniti è di permettere che il «centro» (Obama ed altri) si muova oltre la destra, consentendo al «centro» di apparire come alternativa razionale e sensata ai «fondamentalisti del mercato».

4. Nel settembre 2010, membri dell'Organizzazione (marxista-leninista) della Freedom Road, che era stata attiva nel movimento americano contro la guerra, sono stati attaccati dal FBI in parecchie città e molta della loro apparecchiatura elettronica è stata sequestrata. Sono stati accusati di contatti con gruppi «terroristi» quali il FARC (Colombia), il FPLP (Palestina) e Hezbollah (Libano). Sta rientrando nel regno delle possibilità il fatto che scrivere un articolo favorevole su una di queste «organizzazioni terroriste straniere» (FTO) possa costituire «appoggio al terrorismo», secondo la Legge di Sicurezza della Patria degli Stati Uniti.

5. A partire dal 2014, chiunque dei 50 milioni di persone attualmente senza assicurazione contro le malattie sarà responsabile di una considerevole indennità, se non si iscrive ad un’assicurazione sanitaria privata; le tariffe attuali per un individuo sono sull’ordine di 500 $ al mese; per una famiglia più di 1000 $ al mese.

6. Una spiegazione completa del ruolo del «populismo», sia di destra che di sinistra, nella politica degli Stati Uniti va molto al di là della portata di questo articolo. È importante notare, tuttavia, che una credenza quasi-universale secondo cui la crisi sarebbe stata «causata» da una certa élite, vuoi di banchieri o di amministratori del governo, offusca ogni seria analisi della fondamentale «crisi del valore», di cui banche, credito al consumo, bolle immobiliari o amministrazione del governo sono puri epifenomeni.

7. L’azione di una banca o di un istituto di credito, quando un proprietario di abitazione è inadempiente sui pagamenti ipotecari.

8. Uno sfratto è quando un proprietario di abitazione inadempiente o un affittuario che non paga più l'affitto è rimosso dalla polizia.

9. Sull’inizio degli anni ‘30, vedi questo articolo molto interessante:
http://www.economicpopulist.org/content/unemployed-councils-eviction-riots-and-new-deal. Per un resoconto di questa resistenza che si è manifestata dal 2007, vedi l’articolo di HENRI SIMON in
Insurgent Notes, n. 1 (http://insurgentnotes.com)

10. Una spiegazione del disfunzionale sistema sanitario americano richiederebbe un articolo a parte. Gli Stati Uniti sono l’unico paese capitalista «avanzato» che non ha un’assistenza sanitaria per tutti. Nel 2009, 50 milioni di persone non avevano assicurazione contro le malattie. L’ assistenza sanitaria ammonta ad un costo del 15% del «P.I.L.» e si avvia a crescere al 20% entro il 2020. Il Canada, con un sistema sanitario generalizzato, spende il 10%. Si stima che l'eliminazione degli istituti assicurativi sanitari privati (HMO, o Organizzazioni dell’Amministrazione Sanitaria) e dei loro costi «amministrativi» abbatterebbe il 20-30% dei costi dell’assistenza sanitaria. Ulteriori costi si aggiungono a causa dello stretto rapporto fra le imprese farmaceutiche principali («Big Pharma») e la classe politica. (La legge federale, per esempio, vieta agli Stati di comprare i farmaci generici più economici dal Canada.) La maggioranza degli Americani preferisce un sistema sanitario da «singolo pagatore» (generalizzato), ma i partiti politici ufficiali e i media hanno imposto un blackout virtuale alla discussione su questa alternativa. DAVID HIMMELSTEIN ed altri, in Salassare il paziente. Le conseguenze della sanità corporativa, offrono una buona descrizione della situazione a partire dal 2000; la situazione è solo peggiorata nel decennio passato.

11. Per i particolari sulla lotta, nel febbraio-marzo di quest’anno, vedi i miei due articoli su Madison sul sito Web Break Their Haughty Power, (http://home.earthlink.net/~lrgoldner) e la lettera «Ancora su Madison» in Insurgent Notes(http://insurgentnotes.com) no. 4 (l'agosto 2011).

12. Ai primi di agosto, queste campagne di richiamo hanno fallito lo scopo di por fine alla maggioranza repubblicana nella Camera alta del Wisconsin, nonostante le spese enormi e la massiccia mobilizzazione.

13. I sindacati americani contribuirono con 450 milioni di $ alla campagna di Obama del 2008. Una delle grandi sovvenzioni per questo appoggio fu supposta nella Legge di Scelta Libera dei Dipendenti (Employee Free Choice Act) che rimuoveva alcuni dei tanti ostacoli all’organizzazione sindacale legiferati dagli anni ‘70. Benché Obama si fosse dichiarato a favore della legge, se ne dimenticò nel corso dei mesi della sua elezione.

14. Sul rapporto fra formazione, guardie carcerarie e sindacati degli impiegati pubblici, cfr. JOHN GARVEY, «Dalle miniere di ferro alle sbarre di ferro», Insurgent Notes, N. 1 (http://insurgentnotes.com). Nella prigione statale Corcoran della California, le guardie organizzavano lotte di gladiatori fra i detenuti. Quando ciò apparve su videotape, il movimento sindacale della California mise fine all’indagine perché le guardie erano membri dell’AFSCME (American Federal, State, County and Municipal Employees). [organizzazione sindacale americana dei dipendenti federali, statali, di contea e comunali].

15. Le informazioni a seguire sullo sciopero della fame e sulle condizioni nel carcere della California provengono dal giornale trotskista Workers Vanguard (5 agosto 2011). Per una descrizione generale delle prigioni e delle disposizioni di legge negli Stati Uniti dagli anni ‘70, vedi il libro di CHRISTIAN PARENTI, Lockdown America (1999).

16. Fare la spia significa fornire informazioni su altri prigionieri ai guardiani e ai funzionari della prigione.

17. Gli Stati Uniti, per esempio, sono quarantaduesimi nel mondo nella speranza di vita, dietro un certo numero di Paesi in via di sviluppo ed hanno il più alto tasso di mortalità infantile di tutti i Paesi «capitalisti avanzati».


www.ponsinmor.info