ARCHIVIO TEMATICO (in allestimento. Pronto l'indice dei redattori)

mercoledì 29 febbraio 2012

DELOCALIZZAZIONI SELVAGGE: ESISTE UN ANTIDOTO? di Norberto Fragiacomo






DELOCALIZZAZIONI SELVAGGE: ESISTE UN ANTIDOTO?
di
Norberto Fragiacomo





 Sul tema delle delocalizzazioni ci siamo soffermati varie volte in passato, definendole – in un articolo pubblicato online la primavera scorsa – “un’offesa alla dignità umana”.
In effetti, questo… peccato capitale del nostro tempo è, anzitutto, un crimine contro la società e l’economia del territorio, e come tale andrebbe severamente perseguito. Purtroppo, in un mondo oramai globalizzato, trovare degli antidoti al veleno è impresa ardua: l’Organizzazione Mondiale del Commercio vigila sulle politiche nazionali, opponendosi a qualsiasi misura restrittiva, e la stessa Unione monetaria ha elevato la libertà (pressoché assoluta) di circolazione delle imprese ad undicesimo comandamento mosaico [1].
Per quanto concerne il Nordest, un caso emblematico – ma già datato – è quello della De’ Longhi, florido gruppo industriale che, nel 2004, decide la delocalizzazione in Cina, allo scopo dichiarato di “contenere i costi” (cioè di incrementare i margini di profitto). Degli altri costi – quelli sociali – il management si disinteressa totalmente: solo una dura battaglia sindacale, tiepidamente supportata da politici un po’ spaesati, riuscirà in parte a mitigare l’impatto devastante della scelta sulle famiglie dei lavoratori e l’economia locale (specie in realtà medio-piccole, ma non solo, la chiusura di una fabbrica travolge, come un’onda di piena, tutto il tessuto circostante, spazzando via indotto, negozi, attività di ristorazione ecc.). L’affaire De’ Longhi, deflagrato in tempi di vacche relativamente grasse, è già storia: la crisi finanziaria, iniziata tra il 2007 e il 2008, ha moltiplicato il ricorso allo strumento da parte sia di imprese in oggettiva difficoltà – sotto il profilo commerciale e/o creditizio – che di top manager affamati di guadagno facile. A taluni la crisi ha offerto un alibi, ad altri un’entusiasmante opportunità: si pensi ai minacciosi ricatti di Marchionne, finalizzati ad instaurare negli stabilimenti Fiat relazioni di lavoro di tipo cinese. Non fa specie che, al momento opportuno, quasi tutti i commentatori scordino che questo o quell’alfiere del libero mercato sono stati beneficiari, fino all’altroieri, di fondi comunitari, aiuti statali e normative di favore: in un universo senza leggi, la forza si fa diritto e detta regole, comportamenti, sentenze.
A non tener conto della situazione concreta si finisce quindi per smarrirsi nella selva oscura dell’irrealizzabile: di recente, solo la signora Rowling è riuscita, con un colpo di bacchetta magica, a trasformare (a suo vantaggio, però) la carta in oro. Manuali e quotidiani ci dicono oggi, senza neppure volerlo, che il “delocalizzatore” è pienamente tutelato, il dipendente no; dalla cronaca apprendiamo anche, però, che il consenso nei confronti del sistema sta scemando rapidamente. Il camaleonte ha perduto i suoi poteri mimetici, o forse non si cura più di usarli – perché, incurante di chi lo raffigura moribondo, si sente invincibile, e lo proclama pure.
La hybris portò male ai re persiani, e l’eccesso di sicurezza è sovente deleterio, poiché induce ad atti temerari, alla sottovalutazione dell’avversario. Il grande plantigrado è indifferente alla puntura di un singolo insetto, ma uno sciame compatto può volgerlo in fuga, se si accanisce sui punti più sensibili. Per il capitalismo internazionale, la libertà/necessità di superare i confini a piacimento è uno di questi: occorre dunque illustrare i risvolti della questione, stendere proposte, suscitare reazioni e dibattito, sempre tenendo presente che i semi da noi sparsi non germoglieranno in una notte (ma potrebbero dar frutto, un domani, anche nei campi vicini).
Attualmente si discute parecchio della liberalizzazione dei licenziamenti “per ragioni economiche”: visto che la miglior difesa è l’attacco, si potrebbe rilanciare, suggerendo un modo di far risparmiare allo Stato ingenti risorse pubbliche. L’idea è semplice: alla società o all’imprenditore che, senza essere messi con le spalle al muro dalla prospettiva del fallimento, scelgano di delocalizzare in qualsiasi altro Paese (UE o non UE) andrebbe accollato, per legge, il pagamento di due o più annualità aggiuntive di stipendio ai lavoratori espulsi, a titolo di penale. Oltre a ciò, l’impresa sarebbe obbligata a restituire ipotetici contributi ricevuti da Stato ed enti pubblici nel decennio precedente. L’ottica è quella, auspicata da tutti, di distribuire equamente i sacrifici, che gravano oggidì – in via esclusiva – su ex dipendenti ed amministrazione.
Il vantaggio per le casse statali sarebbe notevole, ma – anziché risolto – il problema verrebbe soltanto differito. Nell’eventualità di dismissione di uno stabilimento, lo Stato[2] potrebbe intervenire direttamente, prestando ai lavoratori le somme necessarie per l’acquisto di immobili e macchinari, dopo aver fissato un prezzo equo – nella determinazione del quale sarebbe opportuno considerare alcune variabili, quali la gravità del danno subito dalla comunità, eventuali sovvenzioni ottenute in precedenza dall’impresa, e così via [3]. Per quanto riguarda il rimborso del mutuo, il pagamento della prima rata dovrebbe essere posticipato rispetto alla maturazione degli utili, in modo da consentire alla neonata cooperativa un decollo non particolarmente traumatico.
Ora, in certi casi risarcimento o acquisto coattivo sarebbero di fatto l’unica opzione; in altre eventualità spetterebbe alle maestranze decidere, esprimendosi in favore dell’una o dell’altra alternativa. E il datore di lavoro? Delocalizzando, lui una scelta l’ha già fatta – ed è stata una scelta di troppo.
E’ ragionevole pensare che, malgrado le professioni cartacee di solidarietà, l’Unione non gradirebbe misure siffatte, e che le lobby economico-finanziarie insorgerebbero. Ad accuse mosse in malafede sarebbe agevole ribattere che la “libertà” è responsabilità, non arbitrio o licenza, e che un suo temperamento è sempre legittimo nel superiore interesse dell’utilità sociale; che un disincentivo è cosa ben distinta da un divieto; che, infine, se l’obiettivo è davvero la crescita economica (e non ingrassare i padroni), il “salvataggio” di fabbriche funzionanti e comunità intere dovrebbe essere ben accolto.
Sia come sia, benché le norme comunitarie prevalgano sulla legislazione nazionale, e le sentenze della Corte di Giustizia (?) lascino il segno, tanto le une quanto le altre debbono inchinarsi ai principi fondanti del nostro ordinamento, il primo – e più importante - dei quali recita: l’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro. Non sul profitto, lo sfruttamento e le rapine capziosamente giustificate dai parabolani [4] dell’economia.
In una delle ultime pagine de “Il mio Carso”, Scipio Slataper scrive: “noi vogliamo vivere e lavorare”. Tutto il resto passa in secondo piano.


Trieste, 24 novembre 2012


NOTE

[1] Nella sentenze Viking Line e Laval, entrambe del dicembre 2007, la Corte di Giustizia UE ha difeso il diritto alla libertà di stabilimento per le imprese che vogliono delocalizzare, statuendo che gli articoli 49 (libertà di stabilimento) e 56 (libera prestazione dei servizi) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea sono invocabili in giudizio dai datori di lavoro a fondamento della loro pretesa di liberarsi da eventuali vincoli – anche derivanti da normative statali di protezione dei lavoratori - che possano limitare la loro libertà di muoversi all’interno del mercato comune.

[2] O la Regione.

[3] In pratica, si ipotizza una cessione d’azienda (o di ramo d’azienda) ai lavoratori, di cui la Pubblica Autorità assume per legge la rappresentanza ai fini del perfezionamento dell’acquisizione.

[4] Monaci cristiani particolarmente fanatici (e, all’occorrenza, sanguinari) che, nell’Alessandria del tardo dominato, costituivano la guardia del corpo del patriarca.

lunedì 27 febbraio 2012

Come sopravvivere a Latouche di L. Mortara




Lo scritto di Riccardo Achilli, Decrescita e marxismo, riprende una tematica della quale mi sono occupato pure io, giungendo grosso modo alle sue stesse conclusioni. Il passo che segue è tratto da un mio vecchio lavoro, quasi di apprendistato, intitolato Dove va il popolo di Seattle?, scritto nel 2006, e già segnalato nel mio breve saggio su I Neoborboni. Lo ripropongo perché mi pare possa costituire una giusta integrazione al lavoro del compagno Achilli. Buona lettura!


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Stando al Professor Serge Latouche e al suo interessantissimo libro Come sopravvivere allo sviluppo – Bollati Boringhieri Editore – il tentativo concreto di decrescita dovrebbe partire dal sistema dei neoclan, uniti da progetti locali come banche del tempo e scambi equi e solidali, maturi per non «trincerarsi in un “terzo” settore, ma [per] colonizzare progressivamente gli altri due, cioè il mercato capitalistico e lo Stato». I neoclan fungerebbero da piccole nicchie all’interno dell’economia mondiale di mercato, come oasi nel deserto, con il preciso scopo di non preservarsi semplicemente, ma di «estendere progressivamente “l’organismo” sano per far arretrare il deserto o fecondarlo». Non ho niente contro questo progetto e i suoi possibili tentativi di riuscita. Ma quello che Latouche non si chiede, ed è l’unica pecca del libro, è con quale ritmo debba avanzare l’organismo sano per non essere raggiunto di nuovo dal “morbo sviluppista”. Se mentre si riconquista un centimetro di deserto da una parte, ne avanzano due chilometri dall’altra, lo sforzo diventa inutile come travasare il mare con un cucchiaino. Stando agli attuali ritmi di crescita del mercato Equo & Solidale e delle nicchie dei neoclan, o anche accelerandoli di dieci o cento volte, prima di poter far arretrare davvero lo sviluppo, ovvero la crescita, il capitalismo farà in tempo a distruggere non solo il pianeta Terra, ma anche tutto l’universo. Infatti, per l’Equo & Solidale, crescere di dieci o cento volte, vorrebbe dire passare appena appena dallo 0,01 allo 0,1 o al massimo all’1% del PIL mondiale, e cioè restare sempre fermo a una quota di mercato poco più che irrisoria. Solo crescendo di mille volte e forse neanche l’organismo sano potrebbe cominciare davvero a incidere sullo sviluppo costringendolo ad arretrare. Dico forse, perché il 10% è una cifra significativa ma ancora minoritaria per poter ambire concretamente alla riduzione generale dei consumi. Dunque, a meno di essere Superman o Dio in persona, non c’è nessuna possibilità di vincere la sfida su questo terreno in tempi utili. La decrescita equa e solidale del Fair-Trade o dei neoclan, due facce dello stesso progetto, sarà sempre in clamoroso ritardo rispetto alla crescita. Non è sfiducia nelle possibilità alternative del Fair-Trade, ma realismo. Realismo che trova conferma dentro La crisi di crescita (libro di Lorenzo Guadagnucci e Fabio Gavelli – Feltrinelli Editore): il successo dell’ Equo & Solidale, infatti, va dalla “significativa” conquista del 3% del mercato svizzero ottenuta dal caffè, a quella “miracolosa” del 15% ottenuta dalle banane sempre nello stesso Paese. Successi che potranno anche essere ripetuti e in certi casi migliorati, ma che comunque non potranno mai cancellare l’evidenza che «di fronte a futuri progressi, difficilmente si potranno raggiungere percentuali a due cifre», perché «l’incidenza sui mercati sembra fisiologicamente limitata». Come si vede, il mio ipotetico 10% è ben più ottimista rispetto alla previsione prudente dei diretti sostenitori del Fair-Trade, dalle cui analisi emerge inequivocabilmente come progetti quali la “decrescita”, il mercato Equo & Solidale, le Società dei neoclan o quelle strutturata attorno alla Banche del tempo, saranno sempre fuori dalla Storia. Non avranno un futuro perché non lo si può avere quando il presente non è in grado di inscrivere la sua Storia in un passato memorabile.
Il comunismo avrà fallito, ma non nell’attenzione data al problema. In Riforma sociale o rivoluzione? – più di cento anni fa – Rosa Luxemburg aveva già inchiodato i neoclan e le cooperative sociali di allora alla croce su cui ancora oggi la Storia li condanna: «...nel caso più favorevole le cooperative di produzione sono destinate al piccolo smercio locale ed a pochi prodotti di necessità immediata, preferibilmente generi alimentari. Tutti i rami più importanti della produzione capitalistica: l’industria tessile, carbonifera, metallurgica, petrolifera, come pure la fabbricazione di macchine, locomotive, navi, sono escluse a priori dalla cooperativa di consumo e quindi anche da quella di produzione. A prescindere, dunque, dal loro carattere ibrido, le cooperative di produzione non possono essere considerate come una riforma sociale generale. Per il semplice fatto che la loro attuazione generale presuppone anzitutto la soppressione del mercato mondiale e la dissoluzione dell’economia mondiale in piccoli gruppi locali di produzione e di scambio, quindi essenzialmente un ritorno dall’economia mercantile del capitalismo sviluppato a quella medievale».
Ecco perché decrescita, fair-trade et similia non possono andare più in là, e nelle più rosee previsioni, di una percentuale irrisoria. Non per questioni fisiologiche, ma per un fatto tecnico. I marxisti lo sapevano un secolo fa, i decrescitori non lo sapranno probabilmente nemmeno tra due.
Non è stata l’ideologia comunista a oscurare progressivamente questi tentativi di rimedio come pensa ad esempio Tonino Perna. Sono gli eterni romantici che per andare fino in fondo alla loro illusione devono per forza ignorare le critiche marxiste che li costringerebbero ad aprire gli occhi. In effetti, Tonino Perna, che sostiene una simile tesi in Fair Trade – Bollati Boringhieri – in alcun passo del libro prova discutere queste obiezioni, il che è la rappresentazione scritta della loro conferma.
Così, dopo aver constatato l’inevitabilità dello sviluppo, cosa resta di tutte le possibili critiche al suo modello? Marx e il vecchio marxismo, il quale messo troppo presto alla porta, rientra sempre dalla finestra proprio come lo sviluppo che resiste a tutti gli assalti e i tentativi alternativi per aggirarlo. Solo il marxismo può battere lo sviluppo capitalistico perché ne accetta frontalmente la sfida risolvendone al contempo tutte le contraddizioni. Il marxismo, infatti, a differenza dei teorici del Popolo di Seattle, riconosce che anche il capitalismo è un vettore di cooperazione sociale. A tal proposito, la conclusione del Discorso sul libero scambio di Marx – DeriveApprodi – dice che il «libero scambio promuove la rivoluzione sociale». E, anche qua, Marx ha tutte le ragioni. Dentro questa fondamentale conclusione sta anche un’altra ben più importante considerazione, che un po’ tutti i New-Global tendono ad ignorare perché vedono nella mondializzazione del capitalismo la personificazione del demonio: se il libero scambio promuove la rivoluzione sociale, allora le multinazionali tanto contestate, essendo la punta più avanzata e sviluppata del capitalismo e del libero scambio, sono anche le più grandi incubatrici e promotrici di evoluzione sociale, di un “altro mondo possibile”, molto di più, in potenza, del mercato Equo & Solidale e del movimento di Porto Alegre che sta tristemente avvolgendosi e imprigionandosi nella sua stessa rete. Si tratta non di riportarle indietro, sul suolo “locale”, ma di minarne, via via che si sviluppano, il carattere di classe. Stare alla testa del progresso sociale che man mano questi giganti del mercato sviluppano in maniera contraddittoria.

domenica 26 febbraio 2012

La Montinomics, di Riccardo Achilli



Monti getta la maschera in modo definitivo. Dopo aver farneticato per mesi sulla "fase 2", ovvero sui provvedimenti per rilanciare la crescita, senza la quale - sono parole sue - non vi può essere risanamento strutturale delle finanze pubbliche, rinuncia all'unico strumento che, secondo l'ideologia liberista cui appartiene, va utilizzato per promuovere la crescita, ovvero l'abbattimento delle tasse. In un consiglio dei ministri di ieri sera che le cronache ci dicono essere convulso, e che mostra quindi le prime crepe nella coesione interna fra i “tecnici”, evidentemente indotta dal timore che l'appoggio popolare a questo Governo sia molto minore di quanto i sondaggi ci fanno credere, il premier rinuncia all'idea di creare un fondo, nel quale far confluire le risorse del contrasto all'evasione fiscale, destinato alla riduzione della pressione fiscale.

Come è noto, per i liberisti esiste un equilibrio di piena occupazione strutturale, verso cui il sistema tende spontaneamente a convergere, sia pur con fluttuazioni cicliche di ripresa e recessione, per cui le politiche pubbliche di tipo interventista non fanno altro che ostacolare tale tendenza “naturale” all'equilibrio, distorcendo le aspettative degli operatori (che di per sé si dovrebbero formare con meccanismi di razionalità, ma che possono essere rese “irrazionali” dall'intervento di politica pubblica. Tale assunto potrebbe essere semplicemente smentito guardando all'elevatissima irrazionalità ed emotività con cui si formano le aspettative degli operatori nel mercato più deregolamentato del mondo, ovvero quello finanziario) creando inflazione che si riflette su una errata ed eccessiva domanda di moneta e in tassi di interesse crescenti, ed ostacolando l'allocazione “ottimale” dei fattori produttivi che si realizza nel modello teorico di concorrenza perfetta, in cui, sempre in teoria, porta ad una massimizzazione dell'offerta ed a una minimizzazione del prezzo di mercato dei prodotti.

In questo scenario, per il liberista “doc”, per un seguace fedele di Friedman quale si considera il nostro premier, la politica pubblica deve fare solo tre cose:
1 - liberalizzare completamente i mercati, riducendo al massimo, se non eliminando, ogni forma di regolamentazione degli stessi;
2 - creare le condizioni per aumentare al massimo la concorrenza fra privati sui mercati liberalizzati, smantellando ogni forma di cartello oligopolistico, o gruppo di interessi collettivi sul versante dell'offerta o della domanda (questo significa, peraltro, sul mercato del lavoro, smantellare il ruolo della contrattazione dei sindacati. Le tre aquile a capo degli attuali sindacati confederali che si illudono di “negoziare” con Monti la riforma del mercato del lavoro non si accorgono che si stanno consegnando ad un sistema di contrattazione aziendale e localistico, all'americana, in cui il loro ruolo sarà ridotto pressoché allo zero, o quantomeno dovrà essere conquistato con dure lotte azienda per azienda);
3 - abbassare al massimo la pressione fiscale, soprattutto sui redditi medio-alti e sulla fiscalità dei redditi delle imprese, al fine di stimolare l'iniziativa imprenditoriale privata, e creare convenienze fiscali per gli investimenti, secondo i dettami della cosiddetta curva di Laffer (una teoria, rivelatasi del tutto fallace, secondo cui un incremento delle imposte sui redditi medio-alti e sulle tasse delle imprese, oltre un certo livello critico, producono un abbassamento dell'attività economica, e quindi effetti negativi anche sul bilancio dello Stato). Naturalmente, l'abbassamento della pressione fiscale richiede una parallela riduzione della spesa pubblica, onde evitare effetti di breve periodo esplosivi sul bilancio dello Stato. Meno spesa pubblica significa meno scuole, meno ospedali, meno pensioni, licenziamenti di dipendenti pubblici, meno welfare.
Questa ricetta liberista della crescita, peraltro, non comporta alcun effetto di crescita nel medio periodo, ma solo un effimero, e del tutto momentaneo, stimolo all'economia, che si lascia dietro, dopo la fase di euforia, danni strutturali all'economia, che ne abbassano il tasso di crescita potenziale in modo permanente. L'esempio empirico è fornito da tutti i Paesi che hanno adottato tale ricetta, ad iniziare dagli Usa del periodo della reaganomics degli anni Ottanta. Le politiche di liberalizzazione, privatizzazione, riduzione della spesa pubblica e della pressione fiscale sui redditi medio-alti e sulle imprese condotta da Reagan ha , in effetti, stimolato la crescita del Pil e la riduzione del tasso di disoccupazione (anche se, secondo Krugman, ciò è stato indotto più dalle politiche monetarie accomodanti sui tassi di interesse seguite dalle FED di Volcker in quegli anni). In effetti, il PIL crebbe ad un tasso medio annuo del 3,5%, con una riduzione del tasso di disoccupazione dal 7,1% del 1980 al 5,4% nel 1988, mentre il tasso di inflazione passò dal 10% al 4% nello stesso periodo.

Tuttavia, tale politica generò effetti strutturali dannosissimi, mascherati temporaneamente dal boom produttivo legato allo sforzo bellico degli Usa nella prima guerra del Golfo e sullo scacchiere balcanico, e che si fecero sentire già a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, abbassando notevolmente il potenziale di crescita economica, e rendendo l'economia statunitense più fragile ed esposta a fasi di recessione del ciclo economico generale. Infatti:
a) la reaganomics fece esplodere il debito pubblico federale, passato dal 26,1% del PIL nel 1980 al 41% nel 1988. questo per un ovvio motivo, noto agli studenti del primo anno di economia: l'elasticità delle entrate e delle spese rispetto al saldo di bilancio non è la stessa, ed in particolare le prime sono molto più elastiche delle seconde. Quindi la riduzione della pressione fiscale ha generato effetti negativi sul saldo di bilancio che hanno più che compensato i modesti effetti della riduzione della spesa pubblica, che è caratterizzata da notevole rigidità verso il basso. Di conseguenza, l'enorme debito federale ha reso molto più difficile l'utilizzo della spesa pubblica a fini anticiclici nelle fasi di rallentamento dell'economia, ha provocato una ripresa delle tensioni inflazionistiche, con un'inflazione nuovamente schizzata a più del 5,3% nel 1991, ha contribuito ad indebolire strutturalmente il tasso di cambio del dollaro, compromettendo cioè il ruolo dominante degli Usa nel sistema mondiale dei pagamenti,
b) la reaganomics ha bruciato i risparmi privati, ridottisi molto rapidamente nel corso degli anni Ottanta. Il rapporto fra risparmio e reddito disponibile dei privati, che negli anni pre-Reagan oscillava attorno al 10%, negli anni Ottanta scese fra il 7 e l'8%, per poi attestarsi al di sotto del 5% a fine anni novanta, ed attorno all'1-2% negli anni Duemila. Ciò si è verificato perché la reaganomics ha portato ad una crescita strutturale della propensione marginale al consumo nella fase di euforia, ed a un incremento rapidissimo dell'indebitamento dei privati con le banche, specie per il credito immobiliare, grazie ai bassi tassi di interesse (tenuti bassi per stimolare gli investimenti). Ciò ha gettato le basi strutturali per l'esplosione della grande crisi, che si sarebbe verificata vent'anni dopo, causata proprio dall'espandersi incontrollabile della bolla dei mutui immobiliari ai privati, in una condizione in cui il risparmio privato è molto basso;
c) la reaganomics ha ampliato a dismisura l'area della povertà, perché l'abbassamento del tasso di disoccupazione è stato generato da una crescita degli impieghi dequalificati e sottopagati (i cosiddetti “dog workers”, cioè lavoratori il cui reddito non è sufficiente per uscire dalla povertà). I cittadini americani al di sotto della linea ufficiale di povertà sono cresciuti dell'8% nel corso degli anni Ottanta, arrivando a 31,7 milioni di poveri nel 1988, ovvero circa 32 milioni di americani spinti al di fuori del circuito della domanda e dei consumi, con effetti strutturali di lungo periodo depressivi sui livelli produttivi. Da un mio calcolo sulle propensioni marginali al consumo delle fasce di reddito medio-basse, si può stimare che, per il solo effetto di aumento della povertà, il tasso di crescita potenziale del PIL è diminuito permanentemente di 0,85 punti ogni anno;
d) la reaganomics ha prodotto una gigantesca crescita del disavanzo della bilancia delle partite correnti (cresciuto del 161% rispetto agli otto anni precedenti a Reagan, che pure furono anni di recessione per l'economia Usa). Ciò fu indotto da una notevole perdita di competitività dell'economia a stelle e strisce, non compensata nemmeno dalla svalutazione del dollaro rispetto ad alcune valute fondamentali, come il marco tedesco, lo yen o il franco svizzero verificatasi come effetto della reaganomics. Naturalmente, le liberalizzazioni e deregolamentazioni attuate durante il periodo di Reagan non hanno fatto altro che aumentare gli effetti di un apparato produttivo scarsamente competitivo sulla qualità e l'innovazione, aumentandone l'esposizione alla concorrenza internazionale. E nemmeno la competitività di costo indotta dall'indebolimento del dollaro ha potuto compensare questi effetti,
e) la reaganomics ha fallito nel creare condizioni maggiormente concorrenziali sui mercati liberalizzati. Questo perché la politica è in generale al servizio degli interessi dei grandi poteri economici, per cui non si liberalizza mai nei settori altamente concentrati e trustificati (ad esempio, l'industria automotive degli Usa continua ad avere un livello di concentrazione, misurato con l'indice di Herfindahl, altissimo, pari a 2.505,8, quando il Dipartimento della Giustizia statunitense fissa in 1.800 il livello di soglia oltre il quale un determinato settore è in condizioni di concentrazione oligopolistica) e quando si liberalizza, di fatto si apre la strada per una successiva conquista dei mercati liberalizzati da parte dei concorrenti più grandi e più capitalizzati, cioè si apre la strada per la successiva concentrazione oligopolistica. Di fatto, le 50 più grandi società statunitensi concentrano il 24% del valore aggiunto manifatturiero nel 1997, e tale percentuale è rimasta la stessa anche nel 1992 e perfino nel 1954.
Se questi sono gli effetti nefasti di lungo periodo della politica economica liberista, figuriamoci cosa succederà dal fallimento di tale politica. Perché Monti sta fallendo nell'implementarla. I continui riaggiustamenti parlamentari del decreto sulle liberalizzazioni, che reintroducono forme di protezione per i settori professionali più forti, in termini di rappresentanza parlamentare, stanno creando un sistema a doppio binario, in cui alcune professioni ed alcuni settori, troppo deboli per difendersi, saranno liberalizzati, ed altri no. Con la conseguenza che la liberalizzazione in alcuni settori indurrà la crescita di posizioni oligopolistiche, esattamente come successo con le politiche di Reagan mentre altri settori rimarranno protetti dalla concorrenza, in condizioni di inefficienza economica diversi da quelli tipici del mercato oligopolistico, ma comunque non meno gravi. Di fatto un processo di liberalizzazioni a velocità variabile a seconda del settore crea anche più problemi di un processo di liberalizzazioni completo e globale.
La rinuncia di ieri di utilizzare le risorse recuperate dall'evasione fiscale per abbassare le tasse, giustificata in modo sciocco ma significativo dallo stesso Monti (evitare di creare “tesoretti” dai quali i partiti potrebbero attingere per favorire le loro categorie elettorali di riferimento, evitare di rovinare l'immagine di formichina diligente con i suoi referenti sui mercati finanziari) impedisce di poter utilizzare la leva fiscale per stimolare nel breve periodo l'economia, quindi impedisce di ottenere quanto meno i benefici di brevissimo periodo tipici delle politiche liberiste. In pratica, Monti, abiurando alla sua stessa dottrina di politica economica, dichiara apertamente di non aver alcun interesse a mettere in pratica politiche di crescita. Da un certo punto di vista, è anche meglio per noi, visti i danni strutturali che le politiche liberiste provocano, dopo lo stimolo iniziale, al tasso di crescita potenziale dell'economia. Però perlomeno che Monti la smettesse di prenderci in giro su una “fase 2”che non esiste. Può forse servire per prendere in giro gli italiani (ma non a tempo indefinito, perché prima o poi i nodi verranno al pettine) ma lo espone a brutte figure in ambito politico ed accademico, come successo ieri quando, parlando con il premier irlandese, ha propalato per l'ennesima volta la bufala dell'austerità di bilancio che, da sola, genera crescita nel medio periodo. Il premier irlandese, che forse del tutto fesso non è, gli ha risposto mettendosi a parlare dei campionati europei di calcio, evidentemente pensando che tale livello di argomenti fosse più accessibile per il suo interlocutore.
Se poi Monti spera che a togliergli le castagne della recessione dal fuoco sia l'asse franco-tedesco che governa l'Unione europea, come lascia presagire la lettera che ha firmato con altri undici capi di Stato e di Governo, rivolta proprio a Merkel ad a Sarkozy, per implorare misure di crescita adottate a livello europeo (ovviamente basate sul solito paradigma liberista secondo cui le liberalizzazioni dei mercati e la mobilità dei fattori su base concorrenziale siano il toccasana per ogni male) allora si illude. Quella lettera ha tutto il sapore di una implorazione (abbiamo fatto bene il compitino dell'austerità di bilancio, ora per pietà dateci un po' di crescita) ed è assolutamente improbabile che Sarkozy e la Merkel siano così fessi da aprire i loro mercati interni alla concorrenza europea per far realizzare a Monti qualche decimo di punto di crescita. L'Europa non è il luogo della solidarietà, perché il suo assetto risponde agli interessi del grande capitale, specie di quello finanziario, e non a quello dei popoli. Prima impareremo a fare da soli meglio sarà.

sabato 25 febbraio 2012

Democrito: un libertario non materialista





di Carlo Felici




Spesso accade di leggere nei manuali di filosofia alcune grossolane semplificazioni, come il fatto che Democrito fu un materialista. Non mi pare tuttavia che Democrito possa essere definito tale. E' questo anche un modo per capire come sia destinato al tramonto lo iato tra spiritualismo e materialismo, erroneamente individuato con la nascita delle teorie atomistiche di Democrito, il quale non fece altro che polverizzare lo sfero parmenideo per ottenere lo stesso effetto eterno ed infinito con gli atomi.
Come spiega bene Geymonat: "Democrito non è affatto partito dal sensibile per giungere all'atomo, ma al contrario è partito dall'atomo (ammesso in base ad una postulazione della ragione) per rendere conto del sensibile" e dunque la lettura Aristotelica che accusa l'atomismo di "ridurre tutta la realtà al sensibile" è infondata.
Democrito scrive esplicitamente che noi percepiamo aggregati di atomi non singoli atomi.
Il non essere parmenideo in Democrito semplicemente diventa lo spazio non più interpretato come negazione metafisica di ogni essere, ma come "mancanza di atomi".
Se dunque approfondiamo almeno un pochino, ci rendiamo conto che c'è di più dei cosiddetti "manuali di filosofia"e delle loro definizioni restrittive.
Parmenide e Democrito infatti sono meno agli antipodi di quanto ci abbiano raccontato, l'atomismo infatti può essere considerato proprio come uno dei più efficaci tentativi di risolvere le gravissime difficoltà già mostrate da Anassagora e Zenone nel concetto di infinita divisibilità delle grandezze geometriche.
Per risolvere tali difficoltà Democrito, a torto inserito tra i presocratici nei manuali, mentre, essendo vissuto quasi un secolo, è contemporaneo di Socrate, introduce la distinzione tra il suddividere matematico e il suddividere fisico. Il primo che non trova rispondenza nella realtà, è a suo avviso proseguibile all' infinito e si usa per determinare aree e volumi di figure geometriche, il secondo invece è condizionato dalla natura di quel che si vuol suddividere e non è proseguibile oltre un certo limite.
Così la suddivisione fisica si può fare finché si tratta di dividere corpi composti, non si può fare invece quando si tratta di esseri semplici, a cui si arriva prima con il lògos che con l'esperienza.
Ecco dunque affiorare l'ipotesi che esistano in realtà degli esseri semplici che attuano, ciascuno in se stesso, alcuni caratteri fondamentali dell'essere parmenideo: gli atomi, intrasformabili, indivisibili, impenetrabili. Se dividere un corpo può voler dire separare gli atomi, non possiamo in ogni caso dividere gli atomi.
Sia Parmenide che Democrito procedono quindi con il logos verso il medesimo intento di “semplificazione” anche se gli esiti possono apparire diversi e persino opposti.
Per Democrito l'atomo è indivisibile, non è dunque pensabile che possa essere ulteriormente diviso.
Democrito descrive gli atomi con le stesse caratteristiche dell'essere parmenideo: afferma che essi sono pieni, immutabili, ingenerati ed eterni.
Comunque, a proposito di materialismo e spiritualismo antichi, abbiamo una bella definizione di uno dei massimi studiosi di filosofia antica, purtroppo scomparso ma che resta uno dei migliori che l'Italia e il mondo abbiano mai avuto:
"Tuttavia bisogna fare attenzione quando si adoperano queste categorie. Nel Sofista Platone presenta un grande contrasto tra due visioni del mondo: una è quella materialistica e l'altra è quella che egli attribuisce agli "amici delle idee". Nel descrivere la concezione materialistica Platone dice che essa è propria di uomini che credono solo in quello che toccano, quindi il materialismo è fondato su una conoscenza di tipo sensibile: quello che non si tocca, quello che non si vede, quello che non si odora, non esiste. Ora, se noi dovessimo applicare questo criterio anche a Democrito, ci accorgeremmo che gli atomi di Democrito non si toccano, non si vedono, non si odorano e quindi essi non sono o non dovrebbero essere materiali. Potremmo dire che gli atomi di Democrito non si vedono, non si toccano e non si odorano allo stesso modo che non si vedono, non si toccano e non si odorano le idee di Platone; e come Platone ritiene reali, anzi, veramente reali le idee, ugualmente Democrito ritiene reali, anzi, veramente reali gli atomi. Da questo punto di vista, contrapporre la filosofia di Democrito alla filosofia di Platone come materialismo e idealismo è al di fuori del quadro storico del V e IV secolo a. C.; tanto peggio, poi, se addirittura si sostiene che la filosofia di Democrito è superiore a quella di Platone perché materialista o se si dice che quella di Platone è superiore a quella di Democrito perché è idealista." Gabriele Giannantoni
Siamo troppo legati a vecchie concezioni ed Aristotele, in particolare, ha condizionato enormemente la visuale della filosofia e della fisica ma non sempre in maniera corretta.
Nel Frammento 198 si parla addirittura di idee indivisibili, "forme atomiche"
Plut. Adv.Colot.8p110F -Che cosa sostiene Democrito? Tutto l'universo sono le idee indivisibili "atomous ideas" (le forme) Per Democrito tutte le realtà sono costituite dalle cosiddette "forme atomiche"-
E ancora: -Secondo Democrito l'anima è una mescolanza di idee aventi forma sferica "sphairikàs…echònton tas idéas"-
Per osservare come le tesi di Giannantoni abbiano valore, basta considerare le recenti conferme date dagli studi sulla fisica contemporanea, per la quale i confini tra spirito e materia sono molto sfumati L’ultimo mezzo secolo della fisica ha infatti sconvolto la tradizionale contrapposizione esistente tra il soggetto osservatore e l’oggetto
osservato sfumando i tranquillizzanti e positivistici confini tra lo spirito e la materia, lo spazio e il tempo, la vita e la morte, la causa e l’effetto.
Il fisico quanto più profondamente è penetrato nei regni delle dimensioni subatomiche e supergalattiche, tanto più intensamente è diventato consapevole che la loro struttura è paradossale e sfida il senso comune. Il mondo del fisico, basato sulla teoria della relatività e sulla teoria dei quanti è in effetti un mondo dell’impossibile.
Heisenberg sostiene che gli atomi non sono cose. Quando si scende a livello atomico, il mondo oggettivo non esiste più nel tempo e nello spazio e i simboli matematici della fisica teorica si riferiscono semplicemente a un mondo di possibilità e non di fatti.
Suo è il Principio di Indeter-minazione: se si osserva la velocità dell’elettrone è la sua posizione a diventar confusa e viceversa. Ciò per l’impossibilità di rendere conto contemporaneamente della natura ondulatoria e corpuscolare con cui si evidenziano le particelle subatomiche a seconda del modello descrittivo adottato.
Koestler osserva che la fisica moderna sembra obbedire a una delle leggi che il Signore aveva ordinato a Mosè: "Non vi farete immagini scolpite" né di divinità né di protoni.
"L’assenza nel neutrino di proprietà fisiche grezze , e le sue caratteristiche quasi eteree, incoraggiano le ipotesi sulla possibile esistenza di altre particelle che fornirebbero il legame che ci manca tra la materia e la mente" (Koestler).
E’ di Eddington nel 1928 questa affermazione: "la sostanza del mondo è la sostanza della mente".
A questo proposito l’astronomo Firsotff ipotizza addirittura l’esistenza di particelle elementari della sostanza della mente: i "mentoni".
Tra l'altro, è bene evitare di confondere ambiti molto differenziati come meccanicismo e materialismo, appartenenti ad epoche molto lontane e diverse, il meccanicismo trova una sua prima definizione con La Place nel 1796, il materialismo trova una sua definizione autonoma non tanto con Platone ma con Cartesio, il quale scinde nettamente la res cogitans da quelle extensa.
Il determinismo infine è un concetto indissolubilmente legato al libero arbitrio e quindi, per quanto remota possa essere la sua origine non può arrivare a prima dei pensatori cristiani e arabi e in particolare sul piano filosofico a prima dell'anno mille (Omar Khayyam) Va rimarcato inoltre che il giudizio di Dante su Democrito (che 'l mondo a caso pone) non sembra rispondere alla reale concezione del filosofo di Abdera.
Secondo Democrito, infatti, il movimento degli atomi è vorticoso, ed è unico; si tratterebbe quindi di un unico grande vortice cosmico al centro del quale si sarebbero raccolti gli atomi più grossi e la loro unione avrebbe originato la terra, mentre agli estremi si sarebbero raccolti gli atomi più leggeri, i quali avrebbero formato gli astri, infiammati dal movimento.
Dandosi tale continuità in un unico movimento, non è dunque possibile che qualcosa avvenga per caso, ma solo che noi pensiamo che sia avvenuto per caso, perché ignoriamo la necessità.
Altrimenti, il ragionamento di Democrito risulterebbe contraddittorio. Nella filosofia greca tutti questi concetti che come etichette noi appiccichiamo secondo le nostre tendenze e gusti o preferenze discriminanti ai vari filosofi, risultano vani ed incomprensibili.
Se spostiamo la questione dall'ambito ontologico a quello gnoseologico certo le differenze possono apparire più rilevanti. Però, anche considerando l'aspetto gnoseologico, bisogna pur rilevare che secondo Democrito gli oggetti che noi percepiamo ci appaiono caldi o freddi, amari o dolci, ma queste qualità appartengono alla sfera di quello che la cultura del v secolo a.C. raggruppava sotto la categoria del nòmos, ossia di ciò che è variabile, convenzionale, instabile, contrapposto al piano stabile e immutevole della natura. La vera conoscenza è quella che consente di accedere al piano nascosto che sfugge ai sensi. Qui essa trova i costituenti di tutte le cose: gli atomi (atoma somata) e il vuoto (to kenon).
Inoltre va ricordato anche un altro aspetto, anche ammesso e non concesso che si possa parlare di determinismo fisico in Democrito, esso tuttavia non investe affatto la sfera delle decisioni umane.
Postulando che siamo in grado di scegliere tra il bene ed il male, si riconosce la libertà umana.
Democrito muove tuttavia da una profonda distinzione tra felicità e piacere, e sottolinea che la felicità non consiste nelle ricchezze, e nemmeno nello stesso piacere, ma nella eutymia, ovvero la serenità spirituale.
E questa si perde se si inseguono i piaceri, perché l'eccesso di piaceri provoca turbamenti dell'anima e squilibrii. Sul piano morale egli predica innanzitutto il rispetto di sé stesso. Non si deve agire correttamente solo per evitare di violare le leggi: si deve agire per incrementare correttamente la propria integrità e serenità.
Nel frammento 264 egli afferma: "Non devi aver rispetto per gli altri uomini più che per te stesso, né agir male quando nessuno lo sappia più che quando lo sappiano, ma devi avere per te stesso il massimo rispetto e imporre alla tua anima questa legge: non fare ciò che non si deve fare."Vi è in ciò il riconoscimento di una necessità, quella dell'uguaglianza degli uomini nell'opportunità di essere degni di tale serenità interiore. Democrito fu infatti anche tra i primi a predicare l'uguaglianza tra tutti gli uomini, sostenendo che ogni terra ed ogni città possono essere patria dell'uomo, arrivando ad una visione cosmopolitica. Si schierò per la democrazia contro l'oligarchia, asserendo che "è meglio vivere liberi e poveri in democrazia, che ricchi ma non liberi in una oligarchia."
Prendiamo la concezione dello Stato, non tutti conoscono la posizione in merito di Democrito, nota attraverso un suo frammento tramandatoci da Stobeo. Il frammento è il 252 e vi si legge: «È necessario porre l’interesse dello Stato al di sopra di tutti gli altri, perché lo Stato sia governato bene, e non cercare continui pretesti per andare contro l’equità né permettersi di tentare sopraffazioni contro il bene comune. Perché uno Stato ben governato è la più grande fortuna, e quando vi è questo vi è tutto, e se questo è salvo tutto è salvo e se questo perisce tutto perisce». Da questo testo risalente al V secolo a.C si ricava la lucida consapevolezza che Democrito ha maturato non solo della centralità dello Stato nella vita associata ma anche dell’esigenza che esso sia ben amministrato.
Solo in questo modo potrà rappresentare il bene comune contro i tentativi dei singoli di attentare all’equità per difendere interessi particolari. Tò chrestòn tò toû xunoû, il bene comune, è proprio l’interesse generale, l’utile della comunità, ciò che risponde ai bisogni di tutti i cittadini e non a quelli di una parte di essi.
Spesso è più ciò che unisce di ciò che divide...a ben vedere.
Aggiungiamo a queste brevi note le considerazioni di Severino nel merito specifico: "D'altra parte, l'atomismo tien fermo il principio parmenideo che l'esistenza del molteplice implica l'esistenza del non essere….dal punto di vista della verità, l'essere è quindi estensione piena (ossia l'essere è ciò che rende piena l'estensione), il "non essere" è estensione vuota. Gli aspetti qualitativi sono quindi estensione illusoria, cioè mantengono il carattere che Parmenide aveva assegnato alla totalità dei fenomeni" Severino "Filosofia" pag. 96-97
E quindi ecco una conferma che non vi è divisione netta tra Parmenide e Democrito.
Severino nel suo libro "Filosofia", che alcuni usano anche come manuale, sebbene sia a mio avviso adatto ad un pubblico di lettori già al corrente dei contenuti dei manuali, scrive: "Gli atomi sono l'essere, e quindi ogni atomo possiede le proprietà dell'essere, quali sono state rilevate da Parmenide: è un'unità indivisibile, ingenerabile, incorruttibile, eterna, non percepibile dai sensi ma dalla ragione..." (Filosofia pag. 97)
Bisogna quindi essere, a mio parere, molto prudenti nell'accostare gli antichi filosofi a coloro che li seguirono anche traendone ispirazione per lo sviluppo del loro pensiero, e specialmente con quelli che hanno fatto del materialismo la loro bandiera.
 
Carlo Felici

venerdì 24 febbraio 2012

Decrescita e marxismo, di Riccardo Achilli



La critica marxista alle teorie della decrescita e dello sviluppo sostenibile

E' ampiamente nota la critica marxista alle teorie della decrescita. L'elemento fondamentale di tali critiche è rappresentata dall'assenza di un'analisi di classe dei processi economici, per cui di fatto i “decrescisti” focalizzano l'attenzione sul volume di produzione in sé (sulla crescita economica in sé) piuttosto che sulla destinazione di tale produzione in plusvalore, rendite e salari. Ciò fa sì che o la decrescita possa amplificare le disparità distributive già esistenti (applicandosi cioè soltanto sui capitalismi a minor tasso di sviluppo, cioè sui poveri), oppure che sia semplicemente impossibile, perché i meccanismi di riproduzione allargata, alla base della formazione del profitto, rendono impossibile una decrescita di tipo solidale ed equo all'interno del capitalismo.

Ciò priva di qualsiasi valore rivoluzionario le teorie dello sviluppo sostenibile, riducendone anche la rilevanza pratica, in termini di preservazione dell'ambiente. Sotto questo profilo, infatti, da un lato, le innovazioni tecnologiche ecocompatibili sono, come tutte le innovazioni, soggette al paradosso di Jevons, per cui di fatto l'introduzione dell'innovazione comporta un aumento del consumo della risorsa ambientale, come si può riscontrare, a puro titolo di esempio, con il consumo di terreno agricolo e forestale indotto dallo sviluppo dei sistemi fotovoltaici ed eolici di produzione dell'energia. Similmente, il passaggio all'economia ad idrogeno, preconizzato da un sacerdote ben comodamente seduto sulla poltrona del capitalismo, come Rifkin, comporterà, se si verificheranno le sue previsioni di abbattimento del costo di produzione e distribuzione di una simile risorsa energetica rispetto a quelle fossili (fatto molto discutibile, ma che non abbiamo qui lo spazio per approfondire) un aumento considerevole dell'intensità energetica delle attività economiche ed antropiche (perché il capitalismo tende ad aumentare l'utilizzo delle risorse a basso costo) ed un boom produttivo, facilitato dall'abbassamento del costo unitario dell'energia, che indurrà quindi una crescita della pressione e degli impatti sulle risorse ambientali in generale. D'altro lato, i suggerimenti che provengono dalle teorie dello sviluppo sostenibile circa un riordino dei modi di produzione e degli stili di vita, che consenta di ridurre l'impatto ambientale, si scontrano inevitabilmente con la legge dell'accumulazione capitalistica, che costringe tale sistema a non interrompere mai il processo di accumulazione di capitale, pena la sua stessa estinzione. Come dice Marx, “la concorrenza impone ad ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva”. Pertanto, o uno stile di vita ed un modo di produzione “ecocompatibile” è anche compatibile con l'accumulazione di nuovo capitale, oppure non verrà implementato. Il fallimento sostanziale dei protocolli di Kyoto sul contenimento delle emissioni di CO2 è paradigmatico.

L’impossibilità della decrescita in ambito capitalistico, o della decrescita felice e volontaria

Per essere concreti, l'applicazione di uno schema di decrescita su scala globale, che sia anche equo, ovvero che miri anche a ridurre gli squilibri di sviluppo, e che sia cioè concentrato soltanto sulle nazioni ricche (con l'ipotesi quindi che le nazioni più povere continuino a crescere), comporta, in uno scenario di crescita demografica come quello tratteggiato dall'ONU da qui al 2020, una riduzione del PIL pro capite delle economie avanzate (valutato in parità di potere d'acquisto, per eliminare i differenziali di cambio) pari al 70,5%, portandole cioè ad un livello di tenore di vita pari a quello attuale di Paesi come la Macedonia o il Sud Africa, livelli cioè inferiori a quelli di Paesi come l'Argentina o il Costa Rica, tanto per capirci. Peraltro, in tale scenario, se i Paesi emergenti continuassero a crescere (poiché la decrescita, come premesso, sarebbe, per motivi equitativi, concentrata nei soli Paesi ricchi) non si avrebbe alcun effetto significativo (tale cioè da salvare la specie umana dall'estinzione) sui livelli di CO2, atteso che il 61,2% del CO2 è prodotto dalle economie emergenti (in particolare, i cosiddetti BRIC, ovvero Brasile, Russia, India e Cina, producono da soli il 61% del CO2 mondiale, lo 0,2% è prodotto dai Paesi più poveri, e solo il 38,8% dalle economie più sviluppate, dato Banca Mondiale). Occorrerebbe quindi chiedere a Cina, India e Brasile di interrompere il proprio impetuoso sviluppo, condannandole a rimanere nella povertà dalla quale solo ora stanno faticosamente uscendo, e condannando anche le economie sviluppate ad arretrare in modo sensibile nel loro tenore di vita. Se si rimane in un quadro capitalistico, quale possibilità vi è di generare un blocco di interesse tale da indurre simili dinamiche? Nessuna, perché il capitalismo è legato indissolubilmente alla crescita: tanto per togliere illusioni ai “decrescisti”, che sostengono che già oggi, a causa della crisi, siamo di fatto in decrescita, è utile dire che nel periodo della crisi, cioè fra 2008 e 2011, il PIL mondiale è cresciuto dell'11,2% in termini reali, e dovrebbe crescere di un ulteriore 4% nel corrente anno. In termini globali, quindi, il capitalismo è cresciuto, perché non può essere altrimenti. Se il processo di accumulazione si ferma per un periodo sufficientemente lungo, il capitalismo crolla, perché non si genera più capitale aggiuntivo da anticipare nei nuovi cicli produttivi, nella misura in cui, non essendovi più plusvalore, non vi è più motivo per anticipare nuovo capitale indispensabile per riavviare un nuovo ciclo di produzione.

Infatti, utilizzando la notazione di Bucharin, il plusvalore s può essere considerato la somma fra accumulazione di nuovo capitale costante (ac), accumulazione di capitale variabile (as) per la successiva fase produttiva e spesa personale del capitalista (b), ovvero s = ac + as +b. Se non vi è accumulazione, s = b, e nella fase successiva si verifica un processo produttivo con un capitale costante c logorato dall'uso produttivo fatto nella fase precedente (cioè ammortizzato in parte) che non può essere sostituito. La perdita di valore del capitale costante per ammortamento e mancata sostituzione comporta un calo del valore della produzione, poiché la produzione P è pari a p = c + v + b (poiché non essendovi accumulazione s = b), dove c è il capitale costante e v quello variabile. Inoltre, la riduzione del plusvalore alle sole spese personali del capitalista provoca una contrazione del saggio del plusvalore e del saggio di profitto, che impedisce di far ripartire, in una fase successiva, il ciclo di accumulazione. Infine, la svalorizzazione del capitale costante riduce la produttività del lavoro, quindi riduce l'estrazione di plusvalore relativo, riducendo quindi, nelle fasi successive, anche il valore di b, che tenderà verso lo zero, comportando l'ulteriore riduzione del valore della produzione, il che non farà altro che provocare disoccupazione, intaccando quindi anche il valore di v, in una spirale che porta il sistema ad autodistruggersi per inedia produttiva.

Ciò spiega perché le grandi crisi economiche non sono crisi di decrescita: la fase recessiva, a livello globale, è solo temporanea, e più che compensata da una successiva crescita, altrimenti il capitalismo stesso sprofonderebbe nel nulla. Gli effetti strutturali che generano non intaccano quindi il livello assoluto della ricchezza creata, ma solo la sua distribuzione, sia fra classi sociali che fra nazioni capitalistiche. Così, la grande depressione degli anni Trenta comportò una redistribuzione della ricchezza parzialmente a favore di alcuni strati del proletariato e della piccola borghesia, tramite le politiche keynesiane, ed una redistribuzione della ricchezza di tipo geografico, a favore degli Usa ed a danno dell'Europa. La crisi attuale sta determinando una redistribuzione della ricchezza a favore del grande capitale finanziario e della grande borghesia all'interno dei Paesi capitalisti avanzati, ed a favore delle economie emergenti dei Paesi BRIC, ed a sfavore di Usa ed Europa, su base geografica. Tale redistribuzione della ricchezza, fra classi ed aree geografiche, è necessaria al capitalismo per ripristinare le condizioni normali di ripresa del saggio di profitto, rideterminando le condizioni per tornare ad avere, da un lato, una domanda solvibile sufficiente a valorizzare il capitale, dopo la fase di eccesso di offerta generatasi nel momento più acuto della crisi economica, e per restituire condizioni di redditività normale a tale capitale, abbassando i costi di produzione.

La gravità della situazione ecologica globale

Quindi non ci può essere decrescita in un contesto capitalistico, ma solo la prosecuzione di una fase di crescita a livello globale, compatibile con alcune aree specifiche di decrescita su scala locale. E tuttavia il tema che pone Serge Latouche, ed in genere l'ambientalismo più radicale, è un tema reale, assolutamente ineludibile. Per usare un lavoro fatto dai borghesi, ovvero il rapporto sui limiti della crescita elaborato dal club di Roma, nel suo aggiornamento del 2004, si scopre che l'impronta ecologica ha superato per più del 20% la capacità di carico massima del pianeta. Sulla base degli scenari previsionali simulati tramite il modello World 3, si scopre in questo modo che nemmeno la decrescita potrebbe evitare una crisi ecologica globale con effetti distruttivi. Infatti, anche in una ipotesi in cui vi sia una stringente programmazione familiare (assumendo che tutte le coppie del mondo decidano di non avere più di due figli, ovvero il minimo indispensabile per riprodurre il livello attuale di popolazione mondiale, senza accrescerla) e si introduca una decrescita perequativa, tale per cui tutti gli individui del mondo si attestino sul livello medio di consumi del 2000, vi sarà un collasso ecologico ed un arresto traumatico della crescita economica entro il 2040. e ciò in ragione del già avvenuto superamento dell'impronta ecologica massima sopportabile. Tale crisi può essere evitata, perlomeno per tutto il XXI secolo, soltanto se a tali condizioni se ne aggiungano altre, ovvero:

a) l'introduzione di tecnologie atte ad economizzare l'uso delle risorse naturali non rinnovabili;

b) l'introduzione di tecnologie atte a sostenere la fertilità delle terre agricole;

c) l'introduzione di tecnologie per ridurre l'inquinamento.

Ciò che si evince chiaramente dal rapporto del club di Roma è quindi che la decrescita, da sola, non può evitare la catastrofe ecologica ed economica prossima ventura, nemmeno se accompagnata da rigide politiche di programmazione familiare. Occorre anche che si introducano innovazioni tecnologiche che, come sappiamo da Schumpeter in poi, vengono introdotte, in ambito capitalistico, soltanto a condizioni che provochino quell'ondata di “distruzione creatrice” in grado di riportare verso l'alto il saggio di profitto degli innovatori, grazie alla rendita monopolistica da innovazione di cui temporaneamente possono godere. E' però molto difficile che alcune delle innovazioni tecnologiche sopra tratteggiate possano essere effettivamente introdotte, per il semplice motivo che non hanno mercato. A chi vendere, ad esempio, tecnologie mirate a risparmiare le risorse naturali non rinnovabili, quando invece il capitalismo allarga l'area dei suoi profitti proprio facendo esattamente l'inverso, cioè aumentando lo sfruttamento delle risorse naturali? E' chiaro quindi che il capitalismo non ha gli incentivi economici interni per evitare il collasso ecologico imminente, non bastando perciò le teorie ecologiste che muovono all'interno del capitalismo stesso, come lo sviluppo sostenibile.

Quindi soltanto una uscita dal capitalismo può salvarci. Su questa affermazione Latouche sarebbe perfettamente d'accordo con me, tanto che lui parla di de-mercificazione dei prodotti (ovvero di sottrazione degli stessi dal ciclo di valorizzazione del mercato) per tornare alla misurazione per valori d'uso, individuali e sociali, cancellando quindi di fatto il connotato di merce dello stesso denaro, che tornerebbe alla sola funzione di intermediario degli scambi, senza valore intrinseco (senza cioè essere una riserva di valore) e ritorno alla produzione su piccola scala, su livello locale, su basi di auto-sussistenza solidale con le altre comunità, anche utilizzando misure di economia autarchica, con l'ovvia conseguenza di spostare la sovranità politica sul livello della comunità locale con forme di democrazia diretta e dal basso, di abolire il plusvalore, perché i beni sarebbero scambiati al loro valore d'uso, individualmente e socialmente determinato, la proprietà privata sarebbe inesistente, o limitata ai soli attrezzi di produzione. Ad occhio e croce, la società descritta da Latouche è qualcosa che sta fra la futura società comunista, in cui a ciascuno viene dato in base alle sue esigenze, e la società libertaria preconizzata da Proudhon.

Che fare? I suggerimenti dell’ecomarxismo

Il problema vero insorge sul come arrivare a tale assetto sociale. Secondo Latouche, per giungervi sarebbe sufficiente l'accettazione volontaria, e “felice”, di modelli di consumo più sobri, di un sostanzioso rallentamento della crescita del volume produttivo, mediante il riuso e la manutenzione, piuttosto che la sostituzione, dei prodotti, l'introduzione di parametri di sostenibilità ambientale e di utilizzo di energie rinnovabili nei cicli produttivi, la destrutturazione del neoliberismo globale mediante forme controllate e solidali di autarchia economica. A prescindere dal fatto che, secondo le elaborazioni del club di Roma, come si è visto, già oggi la decrescita non è sufficiente a salvarci dal collasso ecologico, il problema a mio avviso più grave della visione di Latouche è che tradisce una ingenua fiducia nell'umanità, o una forma di elitarismo intellettuale, il che è lo stesso, perché parte dal presupposto che l'intera umanità coincida culturalmente con la visione illuminata di una piccolissima quota di studiosi, attenti alle conseguenze catastrofiche, per la nostra stessa sopravvivenza, di un capitalismo, il cui principio di crescita continua è incompatibile con la finitezza delle risorse ambientali. Latouche ignora, o vuole ignorare, che l'uomo moderno medio coincide esattamente con la definizione datane da Herbert Marcuse, ovvero quella di “uomo ad una sola dimensione”, educato e istruito, sia dal sistema educativo e formativo che da quello dei media, a schiacciare l'intera sua esistenza sulla retta che va dalla produzione al consumo, limitando la sua prospettiva alla frontiera che va dal suo ruolo di lavoratore a quello di consumatore. Per mettergli in pace l'anima, qualora inizi a chiedersi, angosciosamente, se tale limitatezza di prospettiva non generi danni irreversibili al suo stesso futuro, ed a quello dei suoi figli, intervengono, con funzione consolatrice, le dottrine dello sviluppo compatibile, dell'eco-business e dell'ambientalismo borghese, che sono infatti perfettamente funzionali al capitalismo stesso. Tali teorie gli forniscono infatti l'illusione che, comprando un pacchetto di caffè ad un negozio di commercio equo e solidale, stando attento a separare bene la plastica dall'umido nel suo sistema di raccolta differenziata dei rifiuti, mandando qualche euro alle organizzazioni di volontariato per salvare la selva amazzonica (che nonostante tutte le Ong del mondo, il Governo progressista di Lula e dei suoi epigoni successivi ha massacrato e massacra a ritmi impensabili ai tempi del regime di Soldati) e comprandosi la macchina “Euro 4” sta salvando il mondo. Ci vuole ben altro per salvare il mondo, con l'effetto-serra che ha già indotto cambiamenti climatici irreversibili, modificando salinità e direzione della corrente nord atlantica, e cancellando progressivamente terre emerse superficiali, con una sovrappopolazione che nei prossimi 20 e 30 anni renderà l'acqua potabile cara come il petrolio, con la desertificazione che ha cancellato enormi zone agricole, e che sta procedendo anche nelle aree temperate dalle quali dipende il 60% della produzione agricola mondiale. Ci vuol ben altro, ma l'uomo moderno non lo sa, inserito com'è all'interno di un sistema di ottundimento culturale, funzionale al capitalismo, che il buon Latouche, nonostante le sue doti di comunicatore, non è certo in grado di modificare da solo. E quand'anche una larga maggioranza della popolazione mondiale divenisse consapevole del problema, sarebbe disposta a pagare il prezzo che la decrescita impone, ovvero minor disponibilità di beni di consumo, rinuncia alla droga del consumismo e del carrierismo, che al giorno d'oggi serve per riempire la vita, altrimenti vuota, di milioni di persone? Accetterebbe il consumatore italiano, o tedesco, un tenore di vita analogo a quello di un sudafricano? Conoscendo l'animo umano, mi permetto di essere molto pessimista al riguardo.

Ma il punto fondamentale è che, quand'anche si verificasse questo cambiamento culturale, e quindi emergesse di fatto un nuovo umanesimo globale (perché la decrescita richiede proprio questo, un nuovo umanesimo capace di sottrarre l'uomo moderno alla sua unidimensionalità marcusiana) occorrerebbe una rivoluzione, violenta e sanguinosa, per abbattere il sistema di interessi capitalistico che è ovviamente radicalmente contrario al concetto di decrescita. Quindi la chiave per evitare il disastro non è una decrescita volontaristica. La chiave è la rivoluzione, cioè la lotta di classe. E una rivoluzione non può essere interclassista, come ingenuamente credono Badiale e Bontempelli, in un loro saggio in cui cercano maldestramente di far finta di coniugare Marx con Latouche, per poi smentire l'assunto di fondo del marxismo, ovvero che la rivoluzione la fa il proletariato (“Marx e la decrescita. Per un buo uso del pensiero di Marx”). In realtà l'interclassismo non fa le rivoluzioni. Nessuna rivoluzione mai ha vinto su scala interclassista, per un motivo ovvio: c'è sempre almeno una classe sociale, ovvero quella dominante, che non ha alcun interesse a che la rivoluzione si faccia. A Badiale e Bontempelli vorrei ricordare che gli imprenditori italiani hanno boicottato la conferenza di Kyoto, perché non è nel loro interesse che si abbattano rapidamente le emissioni di CO2. Che il modello di trasporto di merci del nostro Paese, basato sul trasporto su gomma, è stato scelto, nonostante il suo elevato impatto ambientale e sociale e la sua minore efficienza trasportitstica, per favorire gli interessi della più grande azienda automobilistica del Paese, e di alcune lobby (come gli autotrasportatori, così come anche la lobby dell'industria delle costruzioni, che sulla realizzazione e l'ampliamento della rete stradale italiana ha fatto lucrosi affari) e che tale blocco di interessi continua ancora oggi ad ostacolare modalità di trasporto meno inquinanti, come le autostrade del mare. Oppure che l'export dei pesticidi ad uso agricolo, nel mondo, è cresciuto del 92% fra 1999 e 2009, evidentemente sulla spinta di lobbies nell'industria chimica e nel settore agroindustriale, ma anche con il supporto dei contadini, che poi sono quelli che usano materialmente i pesticidi. Evidentemente, non tutte le classi sociali possono condurre una lotta anticapitalista ed ecologista. Fra l'altro, vorrei anche rispondere a Badiale e Bontempelli, che nel loro impeto interclassista chiedono ai marxisti di dimostrare la natura rivoluzionaria del proletariato. Questa natura, cari Badiale e Bontempelli, è dimostrata nelle rivoluzioni socialiste, prima di tutte quella russa, che fu una rivoluzione degli operai e dei contadini. Se poi ebbe una degenerazione, per cause non interamente interne alla stessa Russia, è un'altra questione. Se i nostri due decrescisti nutrono dubbi sulla natura rivoluzionaria del proletariato, suggerisco loro di farsi un giro in Grecia, in questi giorni, oppure di andare a vedere quale fu la base sociale che portò Chávez al potere.

Certo, il proletariato deve assumere una maggiore coscienza della rilevanza fondamentale del problema ecologico, e comprendere che la lotta anticapitalista non può non essere anche, e forse soprattutto, una lotta per la difesa dell'ambiente da una minaccia che, per la prima volta nella storia del genere umano, mette in discussione la nostra stessa esistenza come specie. Però ancora una volta la risposta sul come condurre la lotta andrebbe ricercata in quanto scrisse Marx, avendo l'umiltà di ripiegarsi sui suoi insegnamenti, anziché cercare di liberarsene, per auto nominarsi profeti di nuovi, quanto improbabili, sistemi teorici. Merito di un importante ecomarxista come O'Connor è stato quello di estrarre dagli scritti marxisti la posizione di Marx sulle questioni ecologiche. La chiave di volta ruota attorno a quella che O'Connor definisce come la seconda contraddizione del capitalismo. La prima, quella più nota, è la contraddizione che sorge all'interno dei rapporti sociali di produzione. La seconda è quella che verte sulle “condizioni di produzione”, ovvero quelle che Marx definisce come il lavoratore e i suoi mezzi di lavoro, e inoltre tutti quegli elementi senza i quali il processo di produzione non potrebbe aver luogo, in particolare:

1. le “condizioni personali”, cioè la forza lavoro umana;

2. le “condizioni esterne”, cioè la natura, l'ambiente;

3. le “condizioni generali, comunitarie”, cioè lo spazio urbano, le comunicazioni, le infrastrutture di trasporto, ecc.

In questo senso, secondo O'Connor, le condizioni di produzione vengono “valorizzate” all'interno del processo di accumulazione capitalistica, tramite l'intervento normativo e politico dello Stato, che ne determina i vincoli e le forme di utilizzo capitalistico. Ovviamente, la direzione e l'orientamento della politica dello Stato è il frutto della lotta di classe, cari i miei ambientalisti interclassisti, quindi la difesa dell'ambiente, così come anche di condizioni socialmente progressive nel settore dell'istruzione, delle infrastrutture sociali, della vivibilità urbana, ecc. sono questioni influenzate dalla lotta di classe. E' il proletariato ad avere un interesse concreto a che l'ambiente non venga valorizzato all'interno delle logiche di accumulazione capitalistiche, perché, se è vero che il conseguente degrado ambientale è un problema dell'intero corpo sociale, è anche vero che i proletari sono i primi a soffrirne, mentre le classi dominanti possono, in un primo momento, trovare forme di protezione da tali danni. Un ambiente urbano insalubre riguarda prima di tutto i quartieri popolari, e solo in un secondo momento, se il degrado persiste, anche le zone residenziali borghesi. Sono gli operai i primi ad avvelenarsi per i fumi tossici della loro fabbrica, prima che questi impestino anche l'aria respirata dal borghese. Sono i poveri del mondo quelli che soffrono per primi della carenza di acqua potabile, perché il borghese ha i soldi per comprarsela, e li avrà anche quando l'acqua costerà come il petrolio, mentre loro dovranno morire di sete. Saranno i poveri i primi a soffrire delle conseguenze della crisi alimentare globale da sovrappopolazione e da desertificazione ed impoverimento dei terreni agricoli. I borghesi i soldi per comprare il loro chilo di pomodori ce li avranno comunque, anche quando i pomodori costeranno come tartufi bianchi.

La lotta ambientale è quindi lotta di classe, ed è strettamente connessa con la lotta politica, economica e sindacale contro il capitalismo, perché il capitalismo non consentirà alcuna decrescita morbida, dolce o felice. Il proletariato se ne dovrà far carico, trovando le giuste connessioni fra la difesa dell'ambiente e la più generale opposizione alle forme di produzione capitalistiche, di cui le condizioni di produzione rappresentano una contraddizione strettamente interrelata. In questo sforzo il proletariato dovrà trovare anche alleanze con i nuovi movimenti ambientali, purché questi siano animati da reale spirito anticapitalistico, e non siano solo la foglia di fico moralistica dietro la quale il capitalismo cela la realtà del crescente dissesto del nostro mondo. Quindi il proletariato dovrà marciare con i nuovi movimenti ambientalisti, che nascono nella galassia dell'anticapitalismo, nel mondo dell'anarchia come in quello dei movimenti civili spontanei. E gli intellettuali come Latouche dovranno elaborare gli strumenti concettuali e pratici in grado di favorire questa connessione rosso/verde, e le parole d'ordine giuste per animare una lotta di classe ed anticapitalistica che sia anche e soprattutto a difesa dell'ambiente, abbandonando utopie moralizzatrici come i richiami vaghi al consumo sobrio, alla solidarietà, alla produzione responsabile, all'economia etica e compatibile, alla decrescita felice, perché non è con queste utopie che si difende l'ambiente, che si trova la via d'uscita da un sistema incapace di non divorare le risorse naturali, ma è con la lotta, che non può che essere lotta sociale, che si ottengono i risultati.

mercoledì 22 febbraio 2012

LA SOLIDARIETÀ È RIVOLUZIONARIA

                                                               
                                                di Norberto Fragiacomo

Nel solo 2011, in Grecia, si sono svolti otto scioperi generali (oltre a quelli aziendali e di categoria, spesso “selvaggi”, che non si contano), alcuni dei quali della durata di 48 ore. Sono scese in piazza centinaia di migliaia – se non milioni - di persone, la perdita di ore lavorate è incalcolabile, le cronache registrano occupazioni prolungate di edifici governativi, scontri e “battaglie campali” nelle principali città, con azioni di guerriglia, lanci di bombe molotov e dure risposte poliziesche. Il 2012 è iniziato alla stessa maniera, con manifestazioni imponenti ad Atene e negli altri centri del Paese (Salonicco, Volos ecc.).
Il risultato? Zero assoluto.
La volontà popolare, espressa in modo inequivocabile, non ha minimamente influenzato le decisioni prese dal governo ellenico sotto dettatura della troika FMI-BCE-UE; l’unico sussulto “democratico” – la proposta di referendum lanciata, in autunno, dall’allora premier Papandreou – ha provocato una fulminea censura internazionale, e l’esautoramento, nel giro di poche ore, di primo ministro, esecutivo e maggioranza parlamentare.
La protesta (tendenzialmente) pacifica, dunque, non è servita a niente, e la democrazia – già morta da un pezzo – è stata austeramente sepolta. A governare, oggi, sono i mercanti (banche d’affari, multinazionali, fondi di investimento), attraverso istituzioni infestate da loro fiduciari oppure direttamente, in prima persona, a colpi di… decreti  [1].
Ovunque, in Europa, le regole del gioco politico sono state clamorosamente sovvertite (rectius: l’imbroglio, che in precedenza veniva tacitamente consentito, è assurto a regola indiscussa), e chi fa mostra di non accorgersene è uno sciocco o un venduto.
Non sono certo nuove elezioni il toccasana, come qualcuno, in Grecia e in Italia, dice di ritenere (ingenuamente o strumentalmente? Nel caso di specie, in dubio contra reum): se, per assurdo, il KKE stalinista trionfasse alle consultazioni di primavera, l’esito verrebbe prontamente invalidato con qualche pietosa scusa, ed anche un successo della “sinistra” nostrana, nel 2013, potrebbe venir consentito solo a condizioni “veltroniane”. Gli interrogativi, peraltro, non si incentrano tanto sul fondatore del PD – un liberale filoamericano, cioè di destra – quanto su personaggi come Di Pietro e Vendola che, pur rilasciando, a giorni alterni, vaghe dichiarazioni antisistema, nutrono evidenti ambizioni governiste, concretizzabili, rebus sic stantibus, solo nell’ambito di una coalizione “moderata” (vale a dire lettianamente prona ai diktat della finanza internazionale).
A differenza che in Grecia (colà i tecnocrati sono già all’opera per sterilizzarne gli effetti), da noi le elezioni politiche si terranno tuttavia in un lontano futuro; molto più prossima è la conclusione dell’offensiva – avviata dal Governo Monti-Napolitano per conto terzi – contro le tutele previste dal nostro ordinamento a favore dei prestatori di lavoro.
Al pari di dieci anni orsono, l’obiettivo dichiarato è quello di cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori – ma le circostanze sono diverse, ed oggi assai più penalizzanti per la classe lavoratrice. Come si può leggere su Wikipedia, “Il 23 marzo del 2002, nella più grande manifestazione di massa della storia del nostro Paese, tre milioni di persone – tutto il popolo della CGIL – erano a Roma per difendere un diritto fondamentale”. Guidate dal carismatico Sergio Cofferati (ora all’opposizione nel PD), riuscirono nel loro intento: il Governo Berlusconi fu costretto ad una stizzosa marcia indietro, e la norma non fu toccata.
La storia non si ripeterà: neppure una dimostrazione oceanica potrebbe far cambiare idea a Mario Monti – per il semplice fatto che, di questi tempi, le “riforme” (tutte peggiorative, sia chiaro) non sono affidate alla buona volontà dei governi, ma vengono pianificate e imposte dall’alto. Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare: l’articolo 18 – più per il suo significato simbolico che per la reale efficacia – sarà oggetto di esproprio, costi quel che costi. All’alba del secolo, il Capitale perseguiva i suoi obiettivi diligentemente, ma senza forzature: la lenta, poco percettibile erosione di tutele e stato sociale, attuata da maggioranze di destra e di “sinistra liberale”, era preferita a colpi di mano (o di testa) che avrebbero potuto innescare pericolose reazioni in società mansuefatte ma non controllabili al 100%. All’indomani della vittoria elettorale (2001), Berlusconi provò a mettere sindacati e lavoratori di fronte al fatto compiuto, ma la risposta fu superiore alle attese, e si stabilì pertanto di non insistere. Va tenuto conto anche di altri fattori: in primis, il fondamentale disinteresse – da parte del leader di Forza Italia – per tutto quanto non lo riguardi personalmente (il cavaliere disprezza i poveracci, ma delle esigenze dei suoi “colleghi” milionari se ne sbatte); in secondo luogo, il timore che un prolungato braccio di ferro rovinasse la luna di miele tra il neonato esecutivo e il Paese. Per ragioni solo parzialmente sovrapponibili, dunque, potentati globali e destra italiana si defilarono, abbandonando il campo: il piagnucolio degli ultras alla Brunetta echeggiò per un attimo nei corridoi del palazzo, indi si spense.
Ad appena due lustri di distanza, il quadro appare drasticamente modificato. Dopo un probabile sconcerto iniziale (2007-2008), i finanzieri si sono riparati dalla crisi, che essi stessi avevano causato, sotto l’ombrello di istituzioni statali totalmente asservite e – una volta ripreso a dettare legge – hanno mutato il rischio in straordinaria opportunità. Lo stato di emergenza “giustifica” trasformazioni senza precedenti, e soprattutto permette - a chi dispone di adeguati strumenti di pressione ed è in grado di plasmare il presente – di accelerare quasi senza limiti i processi in atto. L’identificazione, anche terminologica, tra la crisi economico-finanziaria e uno tsunami(senza sottilizzare sul fatto che il secondo è un fenomeno naturale, mentre la prima è stata innescata dall’uomo e, più precisamente, da una determinata categoria di esseri umani) costituisce la premessa di un lavaggio del cervello quotidiano ed efficacissimo, che indica al teleutente il perfetto capro espiatorio – lo statale greco, il lavoratore “anziano” e “garantito” – ed un’unica via d’uscita fatta di “sacrifici inevitabili”. Il pubblico interiorizza la colpevolezza di un intero Popolo – quello greco, per adesso – e plaude, o quanto meno assiste impassibile, all’inflizione della pena, senza neppure domandarsi se la sanzione (la condanna a morte) sia proporzionata al “delitto” (l’ipotizzato furto di un pollo). Peggio ancora: si accetta, come cosa buona e giusta, che una comunità venga decimata, o soppressa, per responsabilità addebitabili ad alcuni suoi membri, e che i concorrenti esterni nel reato (Goldman Sachs e aa.) siedano comodamente al tavolo dei giurati.
Per la verità, il marchio d’infamia non è una (poco invidiabile) esclusiva greca: un po’ tutti, in Europa, avremmo scialato, andando in pensione troppo presto e con assegni troppo alti, omettendo di morire di stenti durante i periodi di disoccupazione, facendoci curare gratis o quasi. In sintesi, come ci viene ripetuto giorno e notte, “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” – che dovevano essere alquanto misere, se sono state le pensioni baby (mica la speculazione internazionale!) a mandare in malora le finanze di una potenza economica come l’Italia.
Sia come sia, la gente, spaventata da questo sinistro, incessante tambureggiare, finisce per sentirsi in colpa, e per reputare giustificata la pena che le comminano – specialmente se a pronunciare il verdetto non sono biechi affaristi o istituzioni lontane anni luce, ma una persona perbene, che va a messa la domenica e “ci fa fare bella figura all’estero”. Mario Monti ha rappresentato l’uovo di Colombo, la soluzione ideale al problema Italia. Sindrome di Stoccolma? Della Gerusalemme celeste, piuttosto: non solo gli imputati si sono innamorati del loro inquisitore (sulla cui “terzietà” è lecito coltivare dubbi), ma gli hanno addirittura affidato ogni speranza di salvezza. Il vero amore non ha bisogno di prove: finora Monti ha sproloquiato di equità (che non si è nemmeno intravista), tartassato la maggioranza degli italiani, risparmiato i ricchi e le banche – ma la sua popolarità non sembra in calo. Dipenderà da sondaggi telecomandati? In parte sì, crediamo; fatto sta che l’opposizione sociale al governo finto-tecnico stenta a coagularsi, anche perché i media “di sinistra” – quelli che, a ragione, scrivevano peste e corna di Berlusconi sette giorni a settimana – sostengono la creatura di Napolitano, o al massimo si limitano a velate critiche.
Sull’articolo 18, Monti ha voluto saggiare le difese dell’avversario (CGIL, Fiom ecc.), anziché partire a testa bassa. Prima la litania sulla noia del posto fisso, con il premier che dà il la all’orchestrina; quindi l’assicurazione, rinnovata ad ogni piè sospinto, che “sulla riforma (strategica) del mercato del lavoro il governo andrà avanti anche senza l’accordo delle parti sociali”. Insomma, la trattativa è una finzione, il copione bell’e scritto. Stavolta, nessuna ipotesi di ritirata – anche perché il primo ministro “tecnico” non risponde ad un elettorato, ma solo al Presidente della Repubblica e ai mercati. Lui può permettersi di scontentare tutti (quelli che non contano), ed affermare, con viso imperturbabile, che sta salvando l’Italia. Amen.
La strada per gli oppositori è tutta in salita. Dopo qualche rinvio di troppo, il sindacato dei metalmeccanici Fiom ha dichiarato lo sciopero generale per il nove di marzo, con manifestazione principale a Roma. Come si comporterà la CGIL ? Accodarsi – cioè rendere lo sciopero davvero generale – significherebbe rompere con gli altri sindacati (collaborazionisti), e far saltare il tavolo con il governo… un tavolo vuoto, peraltro, come si è detto! Questa scelta, per noi comunque inevitabile e doverosa, esporrebbe la più grande organizzazione sindacale italiana al violento biasimo della stampa montian-progressista (che dieci anni fa stava dalla parte di Cofferati), dei vertici istituzionali e di mezzo centrosinistra [2].
E’ possibile portare tre -o due- milioni di persone in piazza in queste condizioni, e soprattutto contro un esecutivo vezzeggiato dalla stampa di mezzo mondo?
Difficile fare previsioni: di sicuro, anche di fronte a quattro milioni di persone in marcia, il Governo Monti non batterebbe ciglio, e proseguirebbe il cammino intrapreso. Le ragioni le abbiamo indicate prima, e una mano potrebbe venire dall’esterno, magari sotto forma di un’impennata dello spread, di un’ammonizione europea o di un invito alla “ragionevolezza” fatto da Napolitano.
Verrebbe meno una quota di consenso? Immaginiamo di sì; ma, come dimostra l’esperienza greca, nell’era della democrazia sospesa il consenso è un’optional, cui si può tranquillamente rinunciare.
In ogni modo, la dimostrazione s’ha da fare, e tocca impegnarsi tutti perché abbia pieno successo – pensando però già al domani.
Quale sarebbe una risposta appropriata alla cancellazione/svuotamento dell’articolo 18? Se il PD fosse una forza di sinistra (periodo ipotetico dell’irrealtà), dovrebbe votare contro il provvedimento governativo e poi, in caso di approvazione, abbandonare il Parlamento e costituire, insieme agli altri movimenti di opposizione, un governo ombra capace, su ogni questione, di elaborare soluzioni alternative a quelle dettate da FMI e BCE. Fantascienza, ovviamente – neppure l’IDV del tribuno Di Pietro arriverebbe mai a tanto. Meglio il cerchiobottismo e le panatiche: primum vivere.
Spetta dunque al sindacato, ai piccoli partiti della sinistra, ad associazioni e cittadini consapevoli tessere una rete di protezione, che salvi un Paese e un continente in precario equilibrio su un filo scivoloso. Urgono progetti, ricette per il lungo termine e – nell’immediato – iniziative di lotta, su scala anche locale: l’occupante va snervato con la tattica del mordi e fuggi, fatta di piccoli sabotaggi (anche ideologici, come il corteo dei clown inscenato dagli studenti triestini in occasione della parata del 4 novembre), contestazioni mirate, contropropaganda capillare. Importante è recuperare/conquistare una dimensione europea, vale a dire la consapevolezza che da questa crisi si esce tutti insieme (greci compresi), o non si esce affatto.
Inoltre, anche gli incendi più vasti e spettacolari hanno bisogno, per scoppiare, di una minuscola scintilla: a mito fondativo della Nuova Europa potrebbero assurgere (3) la riappropriazione, da parte del Popolo Greco, del luogo della Democrazia per antonomasia, il Parlamento, e la contemporanea cacciata dal Paese-tempio dei mercanti della troika.
I Greci sono prostrati, avviliti, alla fame; ma – come i lavoratori russi nel ’17 – non si sono ancora arresi. Dobbiamo aiutarli materialmente - fornendo loro, nei limiti del possibile, generi di prima necessità e supporto – ma anche e soprattutto moralmente, prendendo le loro parti contro gli aguzzini, sventolando i vessilli bianchi e azzurri, gridando la nostra rabbia per una persecuzione ed una repressione spietate… inchiodando i propagandisti di regime al legno marcio delle loro menzogne.
La solidarietà non è solo un dovere morale: è un’arma rivoluzionaria.
Con l’Europa dei lavoratori al fianco, i fratelli greci possono ancora resistere e vincere – e noi assieme a loro. Se invece resteremo indifferenti, il costo della nostra ignavia sarà una servitù senza scampo.
Odio gli indifferenti”, scriveva Gramsci cent’anni fa. Chi si occupa solamente del suo giardino, lo vedrà presto sfiorire, perché non basta un muricciolo a fermare la grandine, o sciami di locuste affamate - ma le energie e le intelligenze unite talvolta possono.

NOTE

(1) Intervistata dal bravo D. Mastrogiacomo di Repubblica, l’ex ministro del Lavoro greco Louka Katseli – espulsa dal Pasok per essersi ricordata, al momento del voto in Parlamento, che Socialismo e tradimento non sono sinonimi – analizza lucidamente la situazione: “La Grecia è stata usata come cavallo di Troia di un nuovo corso che coinvolgerà tutti i Paesi europei. Soprattutto quelli che si trovano in difficoltà. Le conseguenze delle misure adottate nei nostri confronti finiranno per ripercuotersi anche in Italia, in Spagna, in Portogallo, in Irlanda. E’ un serio pericolo, di cui la gente non coglie la dimensione e la portata. Le misure arriveranno poco alla volta e solo alla fine la popolazione se ne accorgerà.” A proposito di espulsione, a quando quella dell’indegno Pasok dall’Internazionale Socialista e dal PSE? Visto che nessuno, a livello europeo, pone la questione, sarà compito della Sinistra Socialista farlo.

(2) Naturalmente anche di Confindustria, la cui presidente, prima di accusare i sindacati di difendere i lavoratori “ladri”, avrebbe fatto meglio a guardare in casa propria.

(3) E sarebbe una sorta di ritorno a casa, visto che quella di Europa (rapita dal toro Zeus in Asia Minore) è un’antica leggenda greca!