ARCHIVIO TEMATICO (in allestimento. Pronto l'indice dei redattori)

venerdì 31 agosto 2012

Un anarchico dalla parte del torto: stiamoci anche noi



di Massimo Zucchetti

tratto dal Manifesto


Bisognerà proprio che anche questa volta ci sediamo dalla parte del torto, dato che tutti gli altri posti sono come al solito occupati. Massimo Passamani, 40 anni, una figura importante fra gli anarchici di Rovereto, è stato arrestato la notte del 27 agosto dalla Digos di Trento, insieme a un’altra militante del movimento anarchico, Daniela Battisti, alla quale però sono stati concessi dal gip gli arresti domiciliari. Passamani invece è in carcere, ancora una volta simbolo di una operazione che pare sia stata molto vasta, con perquisizioni in due centri anarchici a Trento e Rovereto, e in molte abitazioni di militanti del Movimento.

A prima vista, Massimo e Daniela devono rispondere di capi d’accusa molto pesanti: addirittura 29, fra cui danneggiamenti, incendi, manifestazioni violente, nonché l’occupazione dell’ex asilo di via Manzoni a Trento (fatto risalente al 2009).
Sarebbe quindi buon dovere di ogni intellettuale “rispettabile” sedersi dalla parte della ragione, “prendendo le distanze” dai “violenti anarcoinsurrezionalisti”. C’è però un problema: molti di noi sono dotati di una certa memoria e notano certe coincidenze.
Massimo Passamani ha subito negli ultimi vent’anni molte “attenzioni” da parte dello Stato: nel 1996 è dovuto persino riparare in Francia per sfuggire a un mandato di cattura in seguito a un’indagine dei Ros. Arrestato e detenuto alla Santè di Parigi, venne poi rilasciato nel 1998, dato che le accuse si rivelarono del tutto infondate. Altro arresto nel 2004 per aver partecipato a scontri con estremisti di destra fuori dall'Università di Trento: puntuale, dopo una settimana, la scarcerazione. Nel 2006 il peccato più grave ed altro arresto: violenza privata e resistenza a pubblico ufficiale. Passamani aveva addirittura osato togliere di mano la Torcia delle Olimpiadi invernali Torino 2006 a una nota atleta tedofora che stava portando la sacra fiamma in piazza Duomo, a Trento, per l'accensione dell’olimpico tripode. Anche qui, Massimo venne assolto dalle accuse.
Se la memoria non ci inganna, quindi, pare ci sia una lunga storia di arresti e detenzioni, seguite sempre però da scarcerazioni e assoluzioni. Oltre ad avere memoria, siamo anche in grado di notare la coincidenza temporale con il fatto che, fra pochi giorni, è previsto il campeggio NOTAV a Rovereto, proprio la Rovereto dove milita Massimo, proprio il movimento NOTAV al quale Massimo ha partecipato attivamente in questi ultimi anni. Certamente, è del tutto casuale che – con questa operazione – si ponga ancora una volta sotto una luce di pericolosità e violenza il movimento NOTAV. Certamente, è’ del tutto casuale che gli arresti - disposti quasi un mese fa - siano stati eseguiti a ridosso dell’inizio del campeggio.
Oltre a scrivere straordinari articoli sulle riviste anarchiche internazionali che denotano una cultura e una preparazione profonde, Massimo Passamani è infine specializzato nel sedersi dalla parte del torto: poco più che ventenne, prese posizione a favore di un gruppo di anarchici arrestati sul Garda, poi dichiarò apertamente la sua contrarietà alla leva militare, che allora (che tempi!) era addirittura obbligatoria. Mettiamoci dalla parte del torto anche noi, allora: stiamo con Massimo, e chiediamo che esca dal carcere al più presto.

giovedì 30 agosto 2012

PROVIAMO AD ABBOZZARE UN PROGRAMMA (DI SINISTRA)?




di Norberto Fragiacomo

Di questi tempi si discute più volentieri di futilità (un esempio: le primarie alle cime di rapa) che di questioni serie: sarà per colpa dell’aria vacanziera portata da Caligola & co., dell’eccitazione diffusa dai cinque cerchi o del montismo spread, ma la cosa non ci piace granché. Soprattutto quest’atteggiamento svagato nuoce a coloro che, avendo il vento contro, non possono spacciare per idee gli sloganrilanciati da stampa e tivù e, ambendo a cambiare la situazione, non hanno modo di trovare comodo rifugio nella sua pretesa ineluttabilità.
Se la Sinistra - perché a loro ci riferiamo, cioè a noi - afferma: “there is an alternative (TIAN)”, ha poi l’onere di spiegare, ai potenziali sostenitori, in cosa essa consista. Scrivere un programma è complicato, lo so bene: richiede competenze, immaginazione, senso della misura e un pizzico di coraggioso utopismo.
Un “programma” non è un saggio, perché deve confrontarsi con la realtà quotidiana; ma non è manco una lista della spesa, in primis perché chi lo redige non può contare su risorse certe, in secondo luogo perché dai suoi estensori si pretende una coerenza di fondo, una visione a lungo raggio… e tanta, tantissima pazienza.
Pazienza? Sì: noi social-comunisti, per quanto vaste siano le nostre lacune, tendiamo a pensare “in grande”, a ricercare un personalissimo rimedio alle ingiustizie del mondo – e, di conseguenza, il confronto con l’altro ci infastidisce, lo consideriamo una perdita di tempo, se non peggio; ci rattrista specialmente l’idea che qualcuno possa mettere le mani sul nostro “prodotto intellettuale”, modificandolo, riplasmandolo, deturpandolo (?). Serve imporsi umiltà, dunque: soltanto attraverso la mediazione, e grazie al contributo di molti, è possibile forgiare una proposta che vada bene per una società umana, non solo per egolandia.
Diamo allora avvio a questo brainstorming, a questa “tempesta di cervelli” che forse potrà produrre una pioggerella feconda, anziché estemporanee bombe d’acqua.
Da persona di modesta cultura giuridica, depositaria di basilari nozioni di economia politica, mi limiterò ad offrire alcuni spunti, al solo scopo di dare il la al dibattito.
Da dove partire?
Evidentemente da quello che, alle scuole elementari, definivamo “problema”, cioè dall’esposizione dei dati che introduce il quesito.
La crisi, causata dalla finanza creativa anglosassone, sta mandando in malora l’Europa: il cavallo di troia è il debito pubblico, cresciuto quasi ovunque a causa dell’esigenza, imposta dalle “circostanze”, di salvare gli istituti bancari dal fallimento.
Come direbbe un bravo studente bocconiano, si implementano (dall’inglese to implement=attuare) nuove politiche, che mirano:
1)  a concentrare la ricchezza rimanente, ridistribuendola a favore dell’elite;
2) conseguentemente, a moltiplicare le occasioni di guadagno per (cert)i privati, erodendo o piuttosto azzerando la spesa sociale (ospedali, scuole, servizi pubblici locali ecc.);
3) ad instaurare uno stato di emergenza permanente, in grado di giustificare la revoca dei diritti sociali e democratici.
Un golpe “morbido” - ma non troppo, e non dappertutto -, organizzato dalle tecnocrazie finanziarie con l’ausilio dei politici di destra e dei sedicenti “riformisti” (in Italia il PD, e i quattro gatti nenciniani).
La strada è ormai segnata, e tanto le guide dichiaratamente conservatrici quanto quelle del fantomatico “centrosinistra” sanno il percorso a memoria: spetta a noi, antagonisti del sistema capitalista, rendere la via impraticabile, e condurre i pellegrini (lavoratori, pensionati, studenti, cittadini comuni, negozianti e piccoli imprenditori che, pur credendosi aquile, sono polli da spennare anche loro) all’agognato rifugio.
La ricchezza, dicevamo, si va polarizzando – e il processo non è iniziato nel 2008, ma almeno vent’anni prima.
Prendiamo l’IRPEF, l’imposta regina dell’ordinamento tributario italiano. Istituita nel 1973, a seguito di un riordino dell’imposizione fiscale, l’imposta sui redditi delle persone fisiche prevedeva, all’inizio, la bellezza di 32 (!) aliquote, che andavano dal 10 al 72%. Insomma, i poveri pagavano poco, le persone agiate - evasione a parte – parecchio. Oggi, quarant’anni dopo, di aliquote ne sono rimaste 5: la più bassa è pari al 23%, la più elevata al 43. Un parziale correttivo alla… progressiva omogeneizzazione del trattamento tra benestanti ed indigenti è rappresentato dalle deduzioni (sulla base lorda imponibile) e dalle detrazioni (sull’imposta da pagare) riconosciute a chi versa in situazioni particolari; presto, tuttavia, al presente toccherà sostituire l’imperfetto, visto che deduzioni e detrazioni sono nel mirino del Governo Monti, che accampa la solita scusa: fare cassa. Nel frattempo, non risulta sia stata accantonata l’idea di ridurre ulteriormente le aliquote, portandole a tre: al momento non ci sono i soldi per farlo, ma prima o dopo, confidiamo, le risorse si troveranno – per favorire i ricchi, questo ed altro.
Ora, si dà il caso che tutte queste semplificazioni puzzino di incostituzionalità – o siano perlomeno contrarie allo spirito della Carta fondamentale. L’IRPEF è, nei fatti, l’unica imposta progressiva [1] del nostro ordinamento fiscale: gli altri tributi hanno carattere proporzionale. Chiariamo il concetto: il banchiere ed il disoccupato che acquistano un paio di scarpe o un giocattolo in Italia pagano sempre il 21% di IVA sul prodotto, anche se il primo è milionario e il secondo, prima di mettere piede in negozio, ha dovuto impegnare l’orologio del nonno.
In pratica, è la progressività dell’imposta che assicura all’erario il maggior gettito - quella sui redditi delle persone fisiche - a garantire il (formale) rispetto dell’articolo 53 della nostra Costituzione, ai sensi del quale “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e, di conseguenza, “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. La perdita di aliquote va, quindi, nella direzione opposta a quella tracciata dai costituenti: un esecutivo di sinistra dovrebbe fare dietrofront, aumentando l’imposizione fiscale sui percettori di redditi elevati ed abbassandola drasticamente per i più poveri. E’ inconcepibile che chi guadagna più di 250 mila euro l’anno versi, sull’eccedenza, il 70 o il 75% al fisco, cioè alla collettività? Direi che, al contrario, sarebbe espressione di quel dovere inderogabile di solidarietà economico-sociale sancito dall’articolo 2 della Costituzione repubblicana, e riecheggiato dall’articolo 53. Una scelta politica siffatta consentirebbe di ridurre il divario tra le classi sociali, con benefici effetti sulla domanda aggregata.
Bisognerebbe poi reintrodurre l’imposta sulle successioni, anch’essa a carattere progressivo, furbescamente abolita da un precedente Governo Berlusconi. Stiamo parlando, in fondo, del tributo meno odioso ed ingiustificato, perché colpisce una manifestazione di capacità contributiva che non deriva dall’attività lavorativa svolta dal contribuente, bensì da quanto accumulato dalle generazioni passate. Per non penalizzare chi ha già poco, basterebbe fissare un imponibile minimo abbastanza alto (un milione di euro, ad esempio), e prevedere aliquote “importanti” per i patrimoni cospicui: in fondo, anche economisti non tacciabili di socialismo, come Amartya Sen, ritengono opportuna una sostanziale uguaglianza delle condizioni di partenza, che viene resa impossibile dalla presenza di ingiustificati accumuli di ricchezza.
Contrariamente a quanto asserito da Berlusconi (che ha dato voce alle convinzioni di milioni di professionisti, manager e imprenditori), è fondamentale per il benessere del corpo sociale che il figliolo dell’operaio abbia chance paragonabili a quelle del figlio del commercialista, per il semplice motivo che, come insegnano Confucio e Platone, non sempre le qualità morali ed intellettuali si trasmettono di generazione in generazione, e talvolta il figlio del contadino è più dotato del rampollo principesco.
Evitando il rischio di doppie imposizioni, sarebbe poi il caso di introdurre una patrimoniale stabile, anch’essa improntata a progressività; contemporaneamente – sempre in un’ottica di equità e di rilancio dell’economia – si dovrebbero abbassare le imposte indirette sui beni di largo consumo (IVA, accise sui carburanti ecc.).
Attuando intelligentemente misure come quelle descritte i redditi inizierebbero a riequilibrarsi, ferma restando la necessità di imporre dei tetti per mettere un freno a quelle che persino chi è incapace di invidia definirebbe “ingiustizie manifeste”[2] (peraltro caratteristiche ineliminabili del sistema capitalista, che monetizza l’essere umano).
Altro tema cruciale è quello del diritto al lavoro, consacrato dall’articolo 4 della Costituzione. I giuristi ammoniscono che, più che di un diritto soggettivo, siamo in presenza di un compito che la Carta assegna ai governi, quello di favorire la piena occupazione. Una legge che consenta, a determinate condizioni, il licenziamento non è dunque incostituzionale, ma lo è – senza forse – una normativa che istituzionalizzi il precariato (da estirpare alla radice); inoltre, se si vuol rispettare la Costituzione (si consideri anche il precetto dell’articolo 41, amente del quale “l’iniziativa privata (…) non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale), non è lecito tollerare il triste fenomeno delle delocalizzazioni. Per disincentivare queste ultime va studiato un sistema di sanzioni dissuasive, che vadano dall’obbligo – per l’imprenditore – di restituire, con interessi maggiorati (a ristoro del danno sociale), eventuali sovvenzioni ed incentivi ricevuti alla nazionalizzazione/socializzazione degli stabilimenti. Una stretta sulle delocalizzazioni comporterebbe uno scontro con la UE e la sua Corte di (presunta) Giustizia, cani da guardia delle lobby: giuridicamente, il problema non si porrebbe neppure, dal momento che – per quanto prevalenti sulla legislazione ordinaria degli Stati – regolamenti e direttive europee non possono derogare ai principi cardine del nostro ordinamento, puntualmente individuati dalla Carta fondamentale.
beni comuni siano res extra commercium: sanità, istruzione, acqua pubblica ecc. vengano sottratti alle ingerenze del privato che, perseguendo un fine egoistico, deve necessariamente cedere il passo a chi incarna le istanze collettive.
Anche le aziende strategiche devono rimanere in mano pubblica. La svendita dell’industria di Stato, attuata in fretta e furia vent’anni fa, ha portato a situazioni deplorevoli e, in qualche caso, drammatiche – come dimostra la vicenda dell’Ilva di Taranto, replicata in tono minore a Trieste (Ferriera ex Italsider).
Come altri, più competenti di me, hanno già scritto l’alternativa per i lavoratori non può essere tra ammalarsi e crepare di fame: ove siano disponibili tecnologie atte a minimizzare l’inquinamento, queste vanno adottate, indipendentemente dai costi. Se il privato nicchia, tocca allo Stato intervenire, riappropriandosi di ciò che, in ultima istanza, è patrimonio comune.
Come si vede, i temi sono infiniti, e potremmo proseguire, ma temendo di tediare il lettore – e desiderando rispettare la promessa d’esordio di fornire solamente qualche spunto – chiudiamo qui la nostra esposizione, invitando compagni e cittadini a riflettere sulle questioni poste e ad avanzare suggerimenti.
Alla Sinistra serve un programma; ai suoi attivisti l’ispirazione, la fiducia ed il massimo supporto possibile da parte dei concittadini italiani ed europei.


[1] Per progressività si intende il fatto che, al crescere del reddito, l’imposta aumenta in termini percentuali.

[2] E che dire del divieto, vigente per i dipendenti pubblici di basso rango, di esercitare una seconda attività lavorativa nel tempo libero (c.d. incompatibilità nel pubblico impiego, di cui all’art. 53 del D. Lgs. 165/2001)? Come mai il legislatore si preoccupa che nemmeno un briciolo delle “energie lavorative” dei travet sia sottratto alla P.A., mentre permette a medici e professori universitari (e, mutatis mutandis, ai magistrati) di esercitare le rispettive, lucrose professioni in privato? Forse, chissà, l’apposizione di un timbro richiede più “energia” di quella necessaria ad eseguire un’operazione in un ospedale pubblico… oppure, più probabilmente (ed assai italicamente), quod licet Iovi non licet bovi.

  

 

martedì 28 agosto 2012

In memoria di Dom Mintoff




di Riccardo Achilli


Si è spento il 20 agosto, a 96 anni, Dominku Mintoff, meglio conosciuto come Dom, oppure come “il-perit” (l'architetto) o “tal-pipa” (fumatore di pipa) dai maltesi. Personaggio assolutamente centrale della storia di Malta, ma più in generale dell'intera regione mediterranea centrale, e riverito come padre della Patria dai suoi concittadini, è stato un politico ambizioso, autoritario, paternalista, astuto ed abilissimo negoziatore, estremamente scaltro nell'inserirsi fra le maglie dei conflitti latenti in un'area strategica fondamentale come il Mediterraneo centrale, tanto da ritagliare per il suo minuscolo e povero Paese un ruolo politico immensamente superiore alle sue risorse, che intersecò anche la storia italiana dei primi anni ottanta. Spregiudicato e geloso del suo potere e del suo bacino elettorale, tanto da anteporlo anche agli interessi del suo partito (il partito laburista di Malta) ma anche statista che ebbe veramente a cuore il suo Paese e che costruì le condizioni del suo sviluppo economico e sociale, Mintoff fu una singolare ed interessantissima figura di politico socialdemocratico.
Nasce nel 1916 a Bormla (Cospicua in italiano) fondamentale base navale della Marina britannica, e sede di un importante cantiere navale, anche se poco più che un villaggio. Figlio di un lavoratore civile della Marina britannica, impregnato della cultura cattolica dominante in tutta Malta, ma particolarmente presente a Cospicua (il fratello è prete), inizialmente frequenta un seminario con l'idea di farsi egli stesso prete, ma poi abbandona tutto per laurearsi, nel 1937, in ingegneria civile ed architettura, vincendo una borsa di studio per un master presso la Oxford University in scienza ed ingegneria, conseguito nel 1941. In Inghilterra, conoscerà la sua futura moglie, Moira de Vere Bentink, di origini nobiliari, dalla quale avrà due figlie. Nel frattempo, dal 1935 è funzionario del partito laburista di Bormla, scalando rapidamente la gerarchia fino ad essere nominato segretario generale, ruolo che occuperà fino al 1945, mentre si occupa della sua carriera di architetto e lavora anche come giornalista, trasferitosi stabilmente a La Valletta.
Con la fine della guerra, e l'esigenza della ricostruzione di un Paese completamente distrutto dai bombardamenti italiani e tedeschi, l'architetto Mintoff, ben relazionato con i suoi colleghi britannici, divenne una figura centrale. Nel 1947 occupa il suo primo incarico istituzionale, come componente del Consiglio di Governo, ma la sua posizione di potere cresce anche dentro il partito, tanto da farne un potenziale sostituto del leader, Paul Boffa. Con la storica vittoria elettorale del laburismo alle elezioni del 1947 (vittoria garantita, secondo molti osservatori, dall'estensione del voto, per la prima volta nella storia del Paese, alle donne, che fu un cavallo di battaglia proprio del partito laburista di Boffa), Mintoff viene nominato vice primo ministro, proprio sotto Boffa, nonché Ministro dei Lavori Pubblici. In tale veste, dirigerà la ricostruzione delle città maltesi, acquisendo notevole potere e prestigio fra i lavoratori dell'edilizia e le imprese, grazie all'enorme budget che gestisce, peraltro inducendo una cementificazione di Malta che sarà successivamente molto criticata.
Lo scontro con Boffa per la conquista del partito è inevitabile, ed avviene sulla spinosa questione dei rapporti con la Gran Bretagna, che è ancora la potenza coloniale che controlla il Paese. Boffa, infatti, propugna una linea morbida rispetto agli aiuti alla ricostruzione che i britannici si sono impegnati a versare, contraria alla posizione più intransigente di Mintoff, che provoca numerose crisi di Governo, fino al culmine nel 1949 quando, sotto l'influenza di Mintoff, il partito laburista lancia un ultimatum alla Gran Bretagna riguardo alle tranche promesse e non ancora erogate di aiuti finanziari per la ricostruzione (o la Gran Bretagna versa immediatamente le quote di aiuti, o la base navale sarà girata agli Stati Uniti). Al culmine della crisi politica, Boffa esce dal partito laburista, e fonda il partito dei lavoratori maltesi, mentre Mintoff diviene segretario del partito laburista. Tale crisi si traduce in un indebolimento di entrambi i partiti, che terrà i laburisti, e Mintoff, lontani dal potere fino alla riconquista alle elezioni del 1955.
Con la vittoria del 1955, Mintoff diventa primo ministro, e si occupa sin da subito del dossier relativo ai rapporti con la potenza coloniale. La posta in gioco è quella di scegliere fra politiche di integrazione, che rendano Malta un protettorato della Gran Bretagna, fortemente integrato con la metropoli, seppur dotato di ampie autonomie amministrative, e politiche di indipendenza vere e proprie. Da questo punto di vista, si consuma una spaccatura dentro l'élite maltese. La sua componente più legata al business ed agli affari con i britannici spinge per la semplice integrazione, ed è la posizione dello stesso Mintoff che, nonostante sia il leader della sinistra, è pur sempre un rappresentante di quella componente affaristica della borghesia che ha bisogno di mantenere un rapporto con la Gran Bretagna (egli stesso, come architetto, guadagnò molto negli anni post bellici dai programmi britannici di ricostruzione del Paese). L'integrazione è vista, anche dalla sinistra, come un modo per modernizzare il Paese, seppur in chiave capitalistica, sottraendolo allo storico dominio della Chiesa e dell'élite terriera.
La Chiesa, invece, cui è legata l'aristocrazia terriera e nobiliare che discende direttamente dall'epoca dei Cavalieri di Malta, e la destra politica del partit nazzjonalista, propugna l'indipendenza: l'integrazione con la Gran Bretagna, infatti, minaccia la tenuta del cattolicesimo, per possibili, e sempre temute dalle gerarchie ecclesiastiche, estensioni della religione anglicana. Inoltre, molti settori dell'aristocrazia maltese vedono l'indipendenza come il modo migliore per evitare una europeizzazione e modernizzazione del Paese, mantenendolo nella sua arretratezza, funzionale agli interessi ecclesiastico/nobiliari (va ricordato infatti che proprio le autorità coloniali britanniche cancellarono molti dei privilegi feudali ed ecclesiastici nel 19-mo secolo).
A dicembre 1955, Mintoff strappa alla Gran Bretagna un trattato di integrazione, che concede ampia autonomia amministrativa a Malta, in materia di affari locali (con l'eccezione delle politiche di difesa, fiscali e politica estera, che avrebbero continuato ad essere gestite da Londra, ma dall'Home Office, e non più dal Colonial Office, un modo simbolico per riconoscere che Malta passa dallo status di colonia a quello di protettorato). Inoltre, Malta acquisisce il diritto di avere i propri rappresentanti nel Parlamento britannico, e Mintoff strappa una concessione fondamentale per il suo bacino elettorale, costituito da lavoratori del cantiere navale di Cospicua: ad essi vengono riconosciuti gli stessi diritti sociali ed economici dei lavoratori britannici.
Tale risultato lascia insoddisfatta la destra, legata alla Chiesa, così che il referendum del 1956 per la ratifica popolare dell'accordo di integrazione viene boicottato, con solo il 59% degli elettori che si recano alle urne. Lascia insoddisfatti anche molti inglesi: la proposta di accettare rappresentanti maltesi nel Parlamento britannico solleva quasi una rivolta di parlamentari, mentre il Ministero della Difesa di Londra contesta la parte dell'accordo che tutela il cantiere navale di Cospicua, considerato non più strategico dopo la fine della guerra.
La miccia che fa saltare l'accordo di integrazione ruota proprio attorno al cantiere: la decisione dell'Ammiragliato britannico di ridurre la sua presenza nell'oramai non più strategico cantiere di Cospicua, licenziando 40 lavoratori maltesi, tutti elettori di Mintoff, ne provoca il ripudio dell'accordo, ed il sostegno ai violenti scioperi successivi. Egli infatti dichiara che “i rappresentanti di Malta nel Parlamento britannico non sono più legati ad alcuna obbligazione nei confronti del Regno Unito”. In questo modo Mintoff riesce a difendere il suo bacino elettorale personale, ed a assecondare la crescente voglia di indipendenza dei maltesi.
Ma viene aggredito dalla potentissima Chiesa cattolica, i cui interessi vengono danneggiati dall'accordo di integrazione del 1955. Il potente arcivescovo di Malta, mons. Michael Gonzi, inizia una guerra personale contro Mintoff ed i laburisti, lanciando un interdetto e giudicando caduto in peccato mortale, indegno di ricevere i sacramenti e da sotterrare in terreno sconsacrato dopo la morte, chiunque appoggiasse e seguisse Dom Mintoff o anche solo chi leggesse giornali laburisti. Nel 1958, quando il partito laburista sostiene le proteste dei lavoratori del cantiere licenziati, la Chiesa lo accusa di fomentare la violenza anziché il dialogo. In realtà, l'accordo di integrazione, che minaccia la rete di potere tradizionale della Chiesa e dell'aristocrazia ad essa legata, è solo l'ultimo capitolo di una lunga storia di ostilità fra Chiesa e laburismo, manifestatosi ad esempio sulla questione del diritto di voto per le donne. Ed è un capitolo dell'ostilità personale fra Gonzi e Mintoff. Nel 1948, durante una cena, alcuni sostenitori di Mintoff cantano canzoni anticlericali, nonché Bandiera Rossa, alla presenza dello stesso Gonzi.
A causa della crisi politica che segue all'accordo del 1955, all'ostilità della Chiesa, ed alle sue successive dichiarazioni, Mintoff perde le elezioni nel 1962, passando all'opposizione. Soltanto nel 1971 Mintoff riesce a tornare al potere. Nel frattempo, la destra del partit nazzjonalista, sostenuta in ciò dalla Chiesa e da papa Paolo VI, ottiene l'indipendenza completa, seppur nell'ambito del Commonwealth e con un governatore generale nominato da Londra, nel 1964, facendo leva sul disinteresse della Gran Bretagna per Malta, alimentato da una spesa per il sostegno dell'economia isolana giudicata oramai eccessiva dall'opinione pubblica britannica, e dal fiasco di Suez. Immediatamente, il governo di destra avvia colloqui per l'integrazione di Malta dentro la CEE.
Quando torna al Governo nel 1971, per essere poi riconfermato alle elezioni del 1976, Mintoff ha le idee molto chiare, e piuttosto radicali. Nonostante una maggioranza parlamentare inizialmente molto risicata, a causa della campagna ostile condotta dalla Chiesa, porta a termine una globale ristrutturazione del Paese. Introduce un welfare state inclusivo, con un reddito minimo garantito, il potenziamento delle scuole pubbliche (ma le sue due figlie andranno in prestigiosi istituti privati), l’introduzione di un programma sanitario pubblico, la garanzia di non discriminazione di genere nel trattamento economico dei lavoratori, la riduzione a 40 ore settimanali dell’orario di lavoro, l’introduzione di una imposizione sui redditi fortemente progressiva, un programma di edilizia popolare ad affitti praticamente prossimi allo zero, aiuti economici alle famiglie con disabili, aumento delle pensioni, un ampio programma di nazionalizzazioni di imprese e banche, crea la compagnia aerea nazionale e la compagnia armatoriale nazionale, oltre che la società nazionale di telecomunicazioni. Colpisce duramente gli interessi ed i privilegi della Chiesa: legalizza il matrimonio civile, cancella i reati di omosessualità e  adulterio, abolisce per legge tutti i titoli nobiliari. Nel 1971, inoltre, abolisce la pena di morte. Eradica di fatto la endemica povertà che da sempre affligge Malta.
In politica estera, il Mintoff degli anni Settanta è un chiaro antimperialista, ed abbandona la precedente linea di integrazione con la Gran Bretagna. Nel 1974, Malta diviene una Repubblica, con l'ultimo governatore generale britannico che diviene il primo presidente; nel 1979, al culmine di un lungo negoziato, scandito dalle minacce di Mintoff di affittare la base navale inglese di Maltaalla Marina sovietica, il premier maltese ottiene la chiusura della base navale inglese e l'abbandono delle ultime forze militari britanniche ancora presenti a Malta, dopo aver ricevuto in pagamento, da parte della Gran Bretagna, 14 miliardi di sterline all'anno dal 1971 al 1979.
Tali importanti risultati di politica estera derivano da una scelta di non allineamento: Mintoff revoca immediatamente il processo di integrazione nella CEE avviato dal precedente Governo di destra, e stringe relazioni molto strette con la Libia di Gheddafi e con la Cina (arrivando addirittura, in un eccesso di entusiasmo, ad elogiare la presa di potere da parte degli khmer rossi). Gheddafi è molto interessato ad ampliare la sua area di influenza su un Paese che è al centro delle rotte marittime e delle forniture di petrolio libico all'Italia, e la stessa Urss potrebbe beneficiare delle crescenti relazioni fra Libia e Malta, al fine di ottenere la tanto agognata base di appoggio per la flotta del Mar Nero nel Mediterraneo (infatti, la flotta del Mar Nero non può intervenire nel Mediterraneo, in quanto bloccata dallo stretto dei Dardanelli, controllato da Paesi filo-atlantici, come Grecia e Turchia). Mintoff, in questo modo, ottiene dalla Libia petrolio e gas naturale a prezzi stracciati, assistenza militare (l'intera forza aerea maltese, in quegli anni, è composta da piloti e tecnici libici) e finanziaria. Parallelamente agli aiuti ricevuti da Libia e Cina, le potenze occidentali, preoccupate dalla possibilità che Malta divenga un avamposto del socialismo e di Gheddafi in pieno Mediterraneo, finanziano Mintoff per convincerlo a rimanere non allineato, ed a non entrare organicamente fra i Paesi satellite di Mosca. In pratica, Mintoff sfrutta appieno il beneficio del non allineamento, che consentì a numerosi Paesi (ad es. la Iugoslavia di Tito) di ottenere grandi benefici per la loro crescita economica.  
Mintoff con Gheddafi

Quando poi la Libia diventa un partner troppo scomodo, perché scoppia, fra Libia e Malta, la grana del controllo delle secche di Medina, rivendicate dai due Paesi e forse ricche di petrolio e perché le accuse di sostegno al terrorismo internazionale e il coinvolgimento nei fatti del Ciad rendono Gheddafi sgradito all'Occidente, nel 1980 Mintoff abbandona i libici (forse anche perché reso edotto, da parte dei servizi italiani, di un fantomatico piano libico di annessione di Malta, sponsorizzato dall'Urss). Per sostituire l’assistenza e le forniture petrolifere libiche, interrotte dal 1 giugno 1980, nell’estate di quell’anno Mintoff stringe un trattato di assistenza con l'Italia, negoziato dall'allora sosttosegretario agli Esteri italiano, il democristiano Zamberletti. L'Italia agisce, in quel frangente, come baluardo degli interessi statunitensi di tenere Malta ancorata ad Occidente, ed in ciò il Governo Cossiga, che gestisce l'operazione, è un garante di ferro. Il timore degli USA, infatti, è che dopo l’abbandono britannico della base navale maltese nel 1979, un Governo socialista, come quello di Mintoff, possa affittare la base alla flotta sovietica del Mar Nero. Occorre tenere Malta nell’orbita occidentale, fornendole tutta l’assistenza finanziaria ed economica che Mintoff desidera. Ed il compito viene affidato all’Italia. 
L'operazione di sostituzione dell’appoggio libico a Malta, invece, non è affatto conveniente per gli interessi nazionali italiani, che al contrario dovrebbe mantenere una linea di amicizia con Gheddafi, stanti gli importanti legami con la Libia per la fornitura di petrolio, per il business dell'ENI nel Paese africano, per le interessenze azionarie libiche in aziende italiane, come la FIAT, per le questioni legate ai diritti di pesca e di sfruttamento delle risorse marittime in acque internazionali, che avrebbero dovuto spingere l'Italia a cercare un accordo con la Libia sui limiti delle acque territoriali, anziché uno scontro. Inoltre, l'accordo italo-maltese, che estromette Gheddafi, è contrario agli interessi italiani anche per  questioni di mantenimento della pace e della sicurezza nell'area. Gheddafi prende molto male l'accordo italo-maltese: la prima avvisaglia del malumore del rais, a trattative ancora in corso, a Giugno, si ha con la vicenda della nave italiana della SAIPEM che cerca petrolio nelle secche di Medina per conto del governo maltese, e che viene più volte disturbata da navi militari libiche, fino quasi a sfiorare uno scontro armato fra Marine Militari di Libia ed Italia. La seconda avvisaglia si verifica con il sequestro, da parte delle motovedette libiche, degli equipaggi di due pescherecci siciliani che operano in acque internazionali rivendicate dal Paese di Gheddafi. L’avvisaglia più sanguinosa si ha con la tragedia di Ustica: il 27 giugno 1980, nel pieno delle trattative italo-maltesi, un aereo civile italiano precipita, probabilmente colpito da un missile aria-aria, o da una collisione con un caccia, durante quella che probabilmente fu una battaglia aerea fra Mig libici e caccia statunitensi coperti dai radar dell’Aeronautica italiana, indotta da un tentativo di Gheddafi di intimidire il Governo italiano, per impedirgli di stipulare l'accordo (l'ipotesi dell'attentato bombarolo è a mio avviso un depistaggio; accanto al relitto dell’aereo fu trovato un serbatoio di un caccia ed un casco di volo dell’USAF; un Mig 23 libico, con il cadavere del pilota in avanzata decomposizione, fu ritrovato 20 giorni dopo dopo sui monti della Sila; l’Aeronautica italiana non ha mai fornito le tracce radar corrette; è peraltro interessante notare che un Boeing di Air Malta si trovasse sulla stessa rotta del DC 9 dell’Itavia, a 10 minuti di volo). E sono pochi quelli che collegano la data della tragica esplosione nella stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, con la data stessa della stipula del primo protocollo di intesa vincolante del futuro trattato italo-maltese, e con il fatto che il negoziatore, Zamberletti, fosse un bolognese.
Nonostante tutto ciò, il patto di amicizia italo-maltese viene stipulato a settembre di quell’anno, contro ogni interesse nazionale italiano. Il nostro Paese si impegna a versare ogni anno cospicui aiuti economici a Malta, pagati dai nostri contribuenti, che superano i vantaggi economici che Malta ritraeva dal suo precedente legame con la Libia; viene gettata la base per il pieno riconoscimento della sovranità maltese sulle secche di Medina forse ricche di idrocarburi, e la protezione militare italiana dalle intromissioni libiche viene garantita. Al tempo stesso, Malta vede riconosciuto il suo status di Paese non allineato, ed il divieto di stabilire sul territorio maltese basi militari straniere. La vittoria di Mintoff e degli Stati Uniti è totale; inizia la progressiva emarginazione dallo scenario internazionale di Gheddafi, e l’Urss subisce la definitiva sconfitta nel suo tentativo di allungare la sua potenza navale sul Mediterraneo. L’Italia paga con il sangue dei suoi cittadini e con i suoi soldi e altre possibili opportunità di business il suo ruolo di puro strumento nelle mani di interessi politici ed economici non suoi.   
Tuttavia, non tutto procede a gonfie vele per Mintoff. Il boicottaggio delle sue politiche, da parte delle forze conservatrici interne al Paese, è costante ed incisivo. Egli stesso mette in mostra una svolta autoritaria che non piace affatto ai suoi concittadini: alle prese con alcune difficoltà economiche dovute alla crisi generale susseguente allo shock petrolifero del 1974, nel 1977 limita il diritto di sciopero e rende obbligatorio, e non più facoltativo, il lavoro straordinario; lavoratori che sfidano il divieto parziale di scioperare vengono licenziati dalle imprese pubbliche in cui operano; il “corpo del lavoro”, una organizzazione di civili impiegati in lavori pubblici, viene spesso usata per spezzare gli scioperi; viene introdotto l’obbligo di alternare periodi di lavoro a periodi di studio per i giovani che vogliono laurearsi, con il risultato che la possibilità di studiare, e la facoltà che viene scelta, diventano appannaggio delle decisioni dei datori di lavoro e non dei giovani interessati. Vengono introdotte riforme che limitano la possibilità per i cittadini di citare in giudizio il Governo, ed i tribunali vengono addirittura sospesi per qualche mese.
Il 15 ottobre 1979 Mintoff sfugge ad un attentato contro la sua vita, e come risposta un gruppo di militanti del partito laburista dà fuoco alla sede del giornale conservatore The Times ed assalta l’abitazione privata del leader nazionalista Eddie Fenech Adami, svaligiandola ed aggredendo e ferendo la moglie, la madre ed i suoi cinque figli. Nonostante una formale deplorazione dell’accaduto, Mintoff non farà niente per far arrestare e processare i responsabili di questo gesto, che gli toglie molto consenso elettorale. Numerosi altri atti minori di volenza contro esponenti o militanti del partit nazzjonalista saranno, in quegli anni, ignorati dalla polizia e dalla magistratura.
Nonostante lo shock petrolifero del 1974, grazie agli aiuti finanziari britannici ed agli aiuti libici nella fornitura di petrolio, i risultati economici complessivi sono positivi: fra 1974 e 1979, il PIL raddoppia, e il tasso di disoccupazione passa dal 5,8% al 2,7%, anche grazie al lavoro creato artificiosamente a favore dei “corpi di lavoro”; per molti anni, il cantiere navale, la principale attività industriale del Paese, è in utile. La povertà sparisce, ed il tenore di vita medio si avvicina a standard europei.  
Ma la cappa sempre più autoritaria che Mintoff imprime alla società non piace più a molti elettori. Di conseguenza, e grazie anche ad un rinnovo della leadership del partito nazionalista, alle elezioni del 1981 Mintoff perde la maggioranza assoluta dei voti. Tuttavia, grazie ad una abile manipolazione dei confini dei collegi elettorali, riesce a mantenere, sia pur di poco, la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. Il partito nazionalista si rifiuta di riconoscere il risultato elettorale, e di inviare in Parlamento i propri rappresentanti, appellandosi al presidente della Repubblica. Mintoff fa il furbo: dichiara che in queste condizioni non può governare, e che entro sei mesi saranno proclamate nuove elezioni. Tuttavia, accetta l’invito del presidente della Repubblica di formare un nuovo governo, e continuerà a governare per tutto l’arco normale della legislatura, senza mai adempiere alla sua promessa di indire nuove elezioni. Come conseguenza, i rapporti politici subiranno un grave degrado, e nei primi anni ottanta la violenza politica nel Paese crescerà a ritmi preoccupanti.
Solo nel 1984, sotto le pressioni interne, Mintoff decide di dimettersi da Primo Ministro e da leader del partito laburista, tornando a fare il parlamentare, ma imponendo, come condizione del suo passo indietro, il fedelissimo Karmenu Mifsud Bonnici come nuovo Primo Ministro. Bonnici diventa quindi premier senza esservi stata alcuna consultazione elettorale, mentre Mintoff, dal suo banco di parlamentare, rimane il vero leader occulto del Governo e del partito, che ne determina ogni scelta. Tale atteggiamento, obiettivamente antidemocratico, non fa che incrementare ulteriormente la violenza politica, anche perché Bonnici, sotto l’impulso di Mintoff, adotta provvedimenti ostili alla Chiesa, come una legge per sequestrare senza indennizzo le proprietà ecclesiastiche, o il tentativo di mettere le scuole cattoliche sotto il controllo governativo. Nel 1984, in una manifestazione di lavoratori del cantiere navale cui presenzia Bonnici, i locali della curia vengono saccheggiati. Bonnici commette l’errore di definire i saccheggiatori “élite della classe operaia”.
 Solo nel 1987, Mintoff riconosce che la destra aveva ragione a protestare per i risultati elettorali del 1981, e promuove un accordo con il leader nazionalista Adami, per modificare la Costituzione al fine di impedire che si formi una  maggioranza parlamentare senza la maggioranza dei voti. Come conseguenza, alle elezioni del 1987, un Paese stanco del crescente autoritarismo del “perit”, e delle violenze politiche alimentate anche dall’intolleranza dei laburisti, con un partito laburista indebolito dai primi sintomi di una lotta di potere interna per succedere a Mintoff, riconsegna il potere alla destra dopo 16 anni di incontrastato dominio di “Tal-Pipa”.
Fino al 1998, Mintoff sarà parlamentare per il partito laburista, quasi sempre all’opposizione, alle prese con una lotta di potere interna al partito, con il leader emergente Alfred Sant, esponente di un laburismo di tipo blairiano, che riuscirà a prendere le redini del partito nel 1992, spodestando Bonnici, il fedelissimo di Mintoff. Il culmine della lotta fra Mintoff e Sant si verificherà nel 1998, quando Sant riuscirà ad arrivare al Governo con la promessa elettorale di abolire la neo-istituita IVA (che poi sostituirà con una tassa equivalente, ma chiamata in modo diverso). Il Governo Sant, che si regge su un solo seggio di maggioranza, verrà infatti terminato dal voto contrario di Mintoff ad un progetto di concessione di un tratto di costa ad un privato, conducendo ad elezioni anticipate in cui il partito laburista verrà pesantemente sconfitto. Mintoff, in questo modo, otterrà la testa del suo avversario politico interno al prezzo di riportare all’opposizione il suo partito. Ed al prezzo di terminare la sua stessa carriera politica. Alle elezioni del 1998, infatti, per la prima volta in più di 50 anni, Mintoff non si candiderà. L’oramai anziano leader evidenzia quindi i chiari sintomi di quel rancore senile distruttivo, che è forse la naturale evoluzione di una personalità spigolosa e poco adusa al compromesso.
Disperazione della folla ai funerali di Mintoff
Inizierà quindi la sua lunga, e per certi versi rancorosa, pensione da politico. Nel 2003, in occasione del referendum per l’accesso di Malta alla Ue, farà qualche comparizione, per supportare la posizione del partito laburista e del sindacato, ostile all’ingresso nella Ue, dichiarando, profeticamente, che tale accesso avrebbe comportato una riduzione dei posti di lavoro e delle tutele dei lavoratori, poiché il progetto Ue è un progetto liberista, e che avrebbe ridotto l’indipendenza di Malta. Gli elettori maltesi, sia pur per una minoranza piccolissima, purtroppo non lo ascolteranno, votando a favore dell’ingresso nella Ue. 
Solo nel 2008, quando il suo acerrimo rivale Sant si ritira dalla vita politica, saranno tentati alcuni approcci per riportarlo dentro il partito laburista, ma oramai le condizioni di salute sono un ostacolo troppo grande. Al suo funerale, sarà pianto come padre della Patria dal nuovo leader laburista, Muscat, ma anche dai suoi avversari politici, e un folla oceanica seguirà il feretro per l’ultimo saluto. Solo la Chiesa e gli ambienti più retrivi della società maltese manterranno la loro antipatica ostilità, con articoli sarcastici, dopo la sua morte. 

lunedì 27 agosto 2012

La decrescita vista dai borghesi, ovvero l’Italia Futura in mano ai trogloditi di oggi



di Lorenzo Mortara

Il movimento per la decrescita felice, il cui principale portavoce internazionale è Serge Latouche, autore di ottimi libri, appartiene all’enorme letteratura dei socialismi utopistici. Nonostante si spacci per chissà quale novità, la decrescita non è che l’ultima variante del mutuo soccorso, dei falansteri e di altre fantasticherie ottocentesche. L’origine sociale è piccolo borghese, questo aspetto già da solo basta e avanza per condannarla, perché la piccola borghesia non può andare né avanti né indietro, di conseguenza non ha futuro né che cresca con gioia né che decresca con somma tristezza e viceversa. Il passato è dei feudatari, il presente dei borghesi, il futuro dei proletari. Del regno rinsecchito e felice dei piccolo borghesi, non ci sarà mai traccia. Nondimeno, Latouche, proprio come i suoi padri, è animato da una genuina volontà di porre rimedio ai mali del capitalismo. Proprio per questo la sua opera, è comunque interessante e altamente istruttiva, persino per noi, se non altro per le sue accurate ricerche. Se però la decrescita non può resistere in un solo suo punto all’inesorabile e spietata critica marxista, restandone irrimediabilmente al di sotto, di fronte all’acefala critica liberale resterà sempre tre spanne al di sopra, intangibile. La critica liberale alla decrescita è tanto indecente quanto quella marxista è intelligente. Solo la volgarità della borghesia e dei suoi cortigiani (in questo caso cortigiane) non se ne rende conto.
A prendersela con lo spauracchio della decrescita, La Stampa, ha messo in questi giorni Irene Tinagli, 35 anni, economista all’università del Borbone di Madrid, consigliera sempre in materia d’economia per l’ONU e altri svariati enti perditempo, nonché nuova maschera dell’attuale Italia Futura, partito praticamente no-profit del profittatore Montezemolo, e di conseguenza statua al museo delle cere nella stanza dedicata alle eroine defunte per la nobile causa del PD, di cui è ormai un’ex delusa. Non male per una martire della meritocrazia e della lotta alla burocrazia, aver cominciato ad illudersi di far politica nel covo degli ex stalinisti...
Questa presunta talentuosa svenduta al profitto, critica dal profondo del suo realismo l’illusione romantica della decrescita. Tuttavia, piena di sé come è, non si accontenta di dire le solite sciocchezze in materia, così per dare peso alle sue banalità canzona pure il buon Ceronetti, un gigante al confronto, il quale dopo aver distinto i beni necessari da quelli fatti puramente per trarre profitto, invoca un ritorno ai primi per rimediare ai mali dei secondi. L’errore del Ceronetti sta proprio qua, nell’illudersi che esistano beni fatti per necessità e altri fatti per il profitto, quando in realtà, sotto il capitalismo, necessario e superfluo dipendono entrambi dal plusvalore. Una cosa necessaria che non produca profitto diventa immediatamente superflua, così come una cosa superflua che generi la più grande quantità di profitto diventa immediatamente una necessità assoluta. Irene Tinagli, ovviamente, non rimette a posto questo errore tecnico del Ceronetti, ma preferisce accusarlo di romanticismo in contrapposizione al suo pomposo realismo abbarbicato alle nuvole. Sarebbe bello tornare alla produzione artigianale «se non fosse che la distinzione tra beni volti alla soddisfazione di bisogni cosiddetti essenziali e beni commerciali non è così netta come si possa pensare (senza contare l’inquietante scenario in cui qualcuno decide cosa è essenziale per la gente e cosa non lo è)». Questo qualcuno che decide cosa sia essenziale è evidentemente l’intellettuale Ceronetti. Per la gleba del Capitale è già inquietante che a decidere cosa sia essenziale da produrre sia la piccola borghesia intellettuale, figuriamoci che grado di isteria raggiungerebbe qualora a decidere fossimo noi proletari, tuttavia se lo fa il mercato, e cioè la grande borghesia cretina, l’inquietudine sparisce e cede il posto all’euforia per aver conservato, libero come un fringuello, il commercio indipendente e autonomo della schiavitù.
Il realismo della Tinagli consiste tutto qua, nella fede in questa superstizione mercantile.
Dopo aver toccato il punto più alto della sua critica, quella fatta da Ceronetti al posto suo, Irene Tinagli scende a rotta di collo per il suo articolo, inforcando tutti i luoghi più comuni della vulgata liberista contro la decrescita. Dimostrando di non aver mai letto un solo rigo della letteratura «decrescente», la giovane economista ci spiega che un’economia di sussistenza non rinuncerebbe solo all’I-pad ma anche ai servizi sociali che lo Stato offre grazie alla crescita. Non solo, senza crescita, per i poveri sarebbe un disastro perché i ricchi un modo per arrangiarsi lo troverebbero sempre. A dimostrazione delle sue tesi, elogia la Cina che dal 1981 al 2001, con “l’apertura alla crescita economica”, come la chiama lei, ha dimezzato la povertà; cita il compagno burocrate Deng Xiaoping il quale ha sentenziato che «la povertà non è socialismo»; infine di fronte alla contraddizione cubana che ha osato crescere anche negli anni sessanta, si affretta a distruggere il miracolo economico dell’isola perché fittizio, in quanto foraggiato dalla vecchia Unione Sovietica. Morale (solita): è per il bene di noi proletari che i borghesi vogliono crescere, ed è sempre per il nostro bene che i loro profeti in gonnella cantano le loro omelie.
Se fossero vere le corbellerie sulla crescita, a crescita zero dovrebbe corrispondere un livello stazionario delle prestazioni statali di servizi, oggi quindi non avremmo grandi problemi. Nell’economia stagnante dell’abbondanza, anche i servizi dovrebbero ristagnare al livello elevato raggiunto. Invece, nonostante un PIL 6 volte superiore a quello di 60 anni fa, la crescita ha riportato indietro, a livelli ottocenteschi, il movimento operaio. Per una Cina che con l’apertura al mercato ha impennato la crescita dei Deng Xiaoping sulla miseria crescente di masse proletarizzate, c’è anche una Russia che ha tentato di fare la stessa cosa ed è collassata. I conti insomma non tornano finché verranno fatti col pallottoliere della crescita interclassista, un pallottoliere truccato e idealistico.
David Ricardo spiegava nel capitolo Macchine dei suoi Principi di economia politica e dell’imposta «che un aumento del prodotto netto di un Paese è compatibile con una diminuzione del prodotto lordo». Traduzione: la crescita di borghesi e redditieri è possibile anche in regime di stagnazione, purché la quota salari generali diminuisca. Ed è grosso modo questo che sta succedendo oggi su scala planetaria, perché la crescita non è che la crescita del profitto e se aspettiamo lei per far crescere i salari, possiamo aspettare per l’eternità. Per essere precisi, un briciolo di verità nella tesi della crescita necessaria per il miglioramento del proletariato, c’è. Infatti, con la crescita lorda, crescono anche i salari, qualora la crescita complessiva sia superiore alla loro decrescita relativa. La decrescita relativa dei salari è alla base della società capitalistica. Se questa viene compensata da una maggiore crescita produttiva allora anche noi abbiamo un beneficio per quanto relativo. Se per esempio 100 operai producono 1000 automobili, l’innovazione che consentirà la stessa produzione con metà del personale, porterà a una crescita dei salari qualora la loro decrescita relativa del 50% sarà compensata da un aumento della produzione superiore del 100%. In questo caso e solo in questo caso, Capitale Rendita & Lavoro avranno tutti un beneficio netto in termini assoluti, anche se il Lavoro al prezzo enorme della sua perdita relativa. L’idea che solo la crescita possa aumentare i salari, è appunto la credenza mitica che la crescita assoluta del PIL possa compensare all’infinito la perdita relativa del monte salari. Se Latouche è un romantico illuso, Irene Tinagli e i borghesi non sono più nemmeno capitalisti illuminati dalla ragione, essendo ormai regrediti ad oscurantisti più o meno medioevali.
La perdita relativa della quota salari, impone all’economia capitalistica una crescita geometrica nel tentativo di recuperarla. D’altra parte la crescita geometrica tende a ridurre gli sbocchi necessari per il suo smaltimento, cioè a creare ostacoli sempre più grandi sul suo cammino. Ne viene che la tendenza storica del capitalismo è quella di dimezzare costantemente la crescita a fronte della necessità per i salariati di vederla raddoppiata. Se nel trentennio glorioso la crescita si aggirava attorno al 6%, prima della crisi del 2008 faticava a superare il 3%. In futuro si ridurrà ancora. Già nel 1991, lo ricorda Latouche nel suo Come sopravvivere allo sviluppo, era stato calcolato un obbiettivo 10% come traguardo minimo di crescita annuale per mantenere tutti, poveri e ricchi, nel benessere favoloso della società del profitto. Questo significa, a grandi linee, che se ieri ci voleva il 10% di crescita annuale per togliere dalla miseria tre miliardi e mezzo di persone, metà della popolazione mondiale, oggi al di sotto del 20% c’è il rischio di scaraventarci anche l’altra metà. Ergo la crescita per il bene di tutti è pura ideologia borghese. E fin qui lo sapevamo. Sbugiardare l’ideologia borghese della crescita non significa però cedere alle lusinghe dell’ideologia piccolo borghese della decrescita. Nella società attuale, capitalistica, sono i borghesi quelli che devono decrescere, e possono farlo solo se crescono i salari. Guai se anche un salariato volesse decrescere. Ci manca solo questo! Un salariato che vuole decrescere, è solo un operaio che vuol aumentare lo sfruttamento. I salariati invece devono voler crescere smisuratamente. Tuttavia, la crescita dei salari non ha bisogno necessariamente di una crescita generale. Così come i profitti possono crescere anche in caso di calo di prodotto lordo, alla stessa maniera possono farlo i salari, purché cali il profitto. Va da sé che un aumento dei salari farà verosimilmente ripartire la crescita generale. Ma in questo caso le difficoltà verranno dallo sciopero bianco del Capitale. Più o meno come sta avvenendo in Venezuela, Paese che, con la forte ridistribuzione del reddito che ha portato il movimento bolivariano, dimostra in maniera lampante come al capitalismo anche la crescita stia stretta quando non vada a beneficio del profitto ma dei salari.
Quello che la Futura Itaglia delle Irene Tinagli vogliono con la crescita, è la crescita del capitalismo. Noi invece vogliamo la sua decrescita come premessa del suo azzeramento. Solo così possiamo avere grandi speranze di crescita. E solo così possiamo darne anche qualcuna a Latouche e ai “decrescitori”. La decrescita felice è infatti impossibile, ma la crescita felice, cioè il ricambio organico con la natura, con una produzione che aumenti o diminuisca, con tutti i servizi sociali annessi, in perfetta armonia con l’ambiente circostante sarà certamente possibile con il comunismo. Perché la miseria non è il socialismo, ma la ricchezza di Deng Xiaoping lo è ancora meno, perché non è altro che il capitalismo. E per la nostra crescita, in fondo, ci vuole la crescita del marxismo, la nostra sola vera ricchezza.


Stazione dei Celti
Domenica 26 Agosto 2012 

sabato 25 agosto 2012

COOP: IL MISTERO DEL VERBALE SCOMPARSO

di Norberto Fragiacomo



Le Cooperative operaie nascono, in una Trieste ancora austriaca, il 26 ottobre 1903, per iniziativa della Casa del Popolo, vale a dire di Valentino Pittoni, padre nobile, assieme a Carlo Ucekar, del Socialismo triestino.
Il verbale, scritto in bella calligrafia (come si usava allora), attesta la presenza di 127 “consortisti”, che, nel corso di un secolo lungo e doloroso per le terre giuliane, si moltiplicheranno a dismisura.
Oggi le COOP, non più solo ”di Trieste”, ma pure di “Istria e Friuli”, vantano circa 110 mila soci, ed il prestito sociale si aggira sui 160 milioni di euro, con 17 mila sottoscrittori: rappresentano, insomma, una fra le realtà imprenditoriali (e datoriali) più significative della regione Friuli Venezia Giulia.
Lo spirito dei fondatori, però, si è in parte perso: cosa avrebbero detto quei “consortisti”, e il segretario Pittoni, della richiesta di danno morale (500 euro, poi ridotti[1]) avanzata nei confronti di una vecchietta ultrasettantenne, sorpresa a rubare due arance e due fette di carne in un supermercato? E come avrebbero commentato un regolamento elettorale che, di fatto, garantisce agli attuali vertici l’elezione a vita, frapponendo ostacoli insormontabili alla presentazione di liste e candidature alternative?
Di recente qualcosa si è mosso: un socio, che ne raccoglie intorno a sé molti altri, ha iniziato una battaglia contro la dirigenza, evidenziando le gravi perdite gestionali (coperte, annualmente, con immancabili plusvalenze[2]) e domandando un deciso cambio di rotta. Lo scontro ha animato le assemblee per l’approvazione del bilancio, svoltesi a inizio estate, e poi si è trasferito nelle aule del tribunale e sui giornali locali: Il Piccolo ed il bisettimanale La Voce di Trieste danno voce ai protagonisti della vicenda, e si sforzano – soprattutto il secondo – di mantenere un tono obiettivo.
L’ultimo episodio della saga è incentrato sul controllo straordinario disposto dalla Regione nei confronti dell’ente (che nega qualsiasi ipotesi di irregolarità gestionale), ma sullo sfondo già si profilano le elezioni per il rinnovo del Consiglio di amministrazione, in vista delle quali i soci “dissidenti” domandano le indispensabili modifiche regolamentari.


Lo sceneggiatore della vicenda Coop dev’essere un giallista di tutto rispetto, se è vero che, da mesi, tiene i lettori de Il Piccolo (ed a maggior ragione, gli oltre centomila soci delle Cooperative operaie di Trieste, Istria e Friuli) con il fiato sospeso.
Dopo assemblee al calor bianco e provvedimenti giudiziari in serie, arriva, il sabato prima di Ferragosto, l’ennesimo colpo di scena: a pagina 22 del giornale, in Cronaca, spunta un articolo che, già dal titolo, sa di The End: “Coop, finita l’ispezione: <<Nessuna irregolarità>>”.
Non saranno le uniche virgolette in un testo, di media lunghezza, redatto all’insegna del tutto va bene: leggendolo, si apprende che i 160 milioni del prestito sociale sono in ottime mani. Meglio così, ci mancherebbe! Balzano però subito agli occhi delle stranezze – anzi, per conservare una doverosa obiettività, ci correggiamo: una serie di… peculiarità del pezzo giornalistico.
Anzitutto, l’articolo – a differenza dei precedenti (Ernè, poi Barbacini), e dei due pubblicati martedì 14 (Unterweger) - non reca, in calce, alcuna firma: che si sia scritto da solo? Singolare, inoltre, che venga dato ampio spazio alle dichiarazioni del direttore generale Della Valle e a quelle, larvatamente minacciose, del presidente Marchetti – tutte opportunamente virgolettate – e non si riporti, al contrario, alcun passaggio del verbale dell’amministrazione regionale che proverebbe, secondo Pier Paolo Della Valle, che “le tesi” dei contestatori sono “infondate e fuorvianti”. Nel comunicato delle Coop si precisa che “la Regione sottolinea come non ci siano irregolarità nei bilanci, il regolamento elettorale sia corretto, le assemblee di giugno regolari” ecc.: benissimo, ma come mai, di fronte ad un simile scoop, il giornalista non ha preteso di verificare le informazioni facendosi mostrare il famoso verbale, per poi riportarne i passi salienti? La dirigenza Coop glielo avrebbe messo volentieri a disposizione, opiniamo, visto che, per sua stessa ammissione, “ha ricevuto il documento dal Servizio cooperazione della Direzione centrale (righe da 9 a 12)”. Ci riesce difficile credere, in ogni caso, che le “oltre quaranta pagine” del verbale abbiano spaventato il giornalista, inducendolo a rinunciare all’istruttiva lettura.
Particolari senza importanza, si dirà, così come di scarso rilievo potrebbe essere valutata la sola richiesta, proveniente dalla Regione (metà della terza colonna), di riapprovare il regolamento del prestito sociale, datato 1997; sorprende alquanto, invece, che l’amministrazione sconfessi l’autorità giudiziaria, sostenendo che per la consegna del libro soci “va fissato un prezzo dal Tribunale”.
Insomma, il cronista innominato fornisce più “certezze” che notizie, e non soddisfa appieno il nostro legittimo desiderio di conoscere come stiano realmente le cose.
Tocca quindi abbeverarci alle fonti – quelle normative, intendo, visto che si tratta di un’ispezione straordinaria effettuata dall’amministrazione, ed il potere ispettivo trova il suo fondamento nella legge, che, nel caso specifico, è la Legge regionale 3 dicembre 2007, n. 27 (“Disciplina organica in materia di promozione e vigilanza del comparto cooperativo”): in base all’articolo 5 dello Statuto speciale, la Regione ha difatti potestà legislativa in materia di cooperazione e vigilanza sulle cooperative (n. 17).
Il riferimento al verbale ed all’ispezione straordinaria ci conduce dritti al Capo IV, rubricato “Attività di revisione”.
L’articolo 14 distingue tra revisioni ordinarie – che avvengono con cadenza almeno biennale (comma 1), e, si noti bene, sono svolte, per le cooperative aderenti a Confcooperative, dalla medesima Associazione, il cui presidente, uno e bino (per la cronaca, si chiama Franco Bosio), siede contemporaneamente nel CdA delle Cooperative operaie, – e revisioni straordinarie che, ai sensi del comma 6, “sono effettuate dalla Direzione a mezzo di revisori incaricati sulla base di esigenze di approfondimento derivanti dalle revisioni ordinarie e ogni qualvolta se ne ravvisi l’opportunità (…)”. Nel nostro caso siamo alle prese con una revisione straordinaria, che mira ad accertare (articolo 15, comma 2) l’esatta osservanza delle norme, la sussistenza dei requisiti normativi per il godimento di agevolazioni, il regolare funzionamento amministrativo-contabile dell’ente, l’esatta impostazione tecnica e il regolare svolgimento delle attività specifiche, la consistenza patrimoniale dell’ente e lo stato delle attività e delle passività e, infine, la correttezza dei rapporti instaurati con i soci lavoratori e l’effettiva rispondenza di tali rapporti a quanto previsto normativamente e contrattualmente.
L’articolo 16 ci presenta il già citato verbale, il cui modello viene determinato, assieme alle modalità ed ai termini di esecuzione della revisione, con provvedimento del Direttore centrale competente in materia di vigilanza sulla cooperazione.
Il modello è, in sostanza, un prestampato, che si basa su quesiti standard, cui il revisore incaricato dalla direzione è tenuto a dare una succinta – e documentata – risposta; consta mediamente di una dozzina di fogli (al netto degli allegati: non quindi le quaranta pagine di cui si parla nell’articolo…) e va sottoscritto, a redazione effettuata, dal professionista e dal rappresentante legale della cooperativa. Ci risulta – la notizia non è coperta da segreto, e potrà forse interessare il lettore – che a firmare il verbale siano stati il presidente Livio Marchetti e la dott.ssa Lorella Torchio, iscritta all’Albo Regionale dei revisori di società cooperative.
L’articolo 17 (Esecuzione delle revisioni) riconosce al revisore ampie facoltà istruttorie, e pure un potere di diffida, nei confronti dell’ente, ad eliminare le irregolarità sanabili, anche se l’ultima parola spetta alla Direzione centrale, attraverso il Servizio competente per materia: un tanto significa che il documento inviato a Regione e Coop non ha natura di provvedimento definitivo, come l’articolo pubblicato l’11 agosto sembra suggerire. Nei fatti, in esito all’ispezione, il professionista formula una proposta di provvedimento che, a seconda delle circostanze, può avere tre diversi contenuti.
Ove non siano riscontrate irregolarità di alcun genere, la revisione si conclude con un certificato di revisione rilasciato dal Direttore del Servizio cooperazione entro novanta giorni dal ricevimento del verbale; nell’eventualità, menzionata in precedenza, di irregolarità sanabili, tocca al revisore chiedere all’ente cooperativo di porvi rimedio, indicando all’uopo un termine; ove le anomalie permangano, la decisione sul da farsi spetterà agli uffici regionali. Nelle ipotesi più gravi – violazioni di legge, pesanti ammanchi di bilancio ecc. – l’articolo 23 della Legge regionale 27/2007 prevede una vasta gamma di sanzioni, che vanno dalla gestione commissariale allo scioglimento per atto dell’autorità. Detti provvedimenti, visto l’impatto sulla vita societaria, sono di competenza dell’organo politico, e vengono assunti “con deliberazione della Giunta regionale, su indicazione dell’Assessore competente, sentito il parere della Commissione” regionale per la cooperazione. Si potrebbe nutrire qualche dubbio sull’opportunità di coinvolgere nella decisione un collegio egemonizzato dalle Associazioni regionali di cooperative (quattro rappresentanti di Confcooperative, tre della Lega delle Cooperative e due dell’Associazione generale Cooperative italiane, a fronte di due soli commissari regionali), ma va chiarito che il parere, per quanto obbligatorio, non è affatto vincolante per l’amministrazione.
L’istruttoria conduce dunque, a seconda dei dati raccolti, in tre direzioni fra loro alternative: sta al verbalizzante, vale a dire al revisore, avanzare la sua proposta, inserendo un’innocente crocetta in una delle caselle stampate sull’ultima pagina del modello del verbale di revisione.
Ora, tanto l’amministrazione quanto i vertici delle Coop hanno in mano il documento siglato dal revisore: mentre la prima, tuttavia, è impossibilitata a svelarne i contenuti, a causa di una norma (l’articolo 40 della Legge Regionale 27/2007, rubricato con involontaria comicità “diritto di accesso”) che sottrae all’accesso i verbali di revisione per la bellezza di cinque anni (!), alle Cooperative operaie basterebbe esibire alla stampa la paginetta con la proposta del revisore per mettere a tacere qualsiasi critica.
Se è tutto in regola, come ci è stato assicurato, è nel loro pieno interesse farlo, senza contare che i soci – tra cui il sottoscritto – avrebbero il piacere (ed hanno il diritto!) di vedere quelle carte, anche per confrontarle con il comunicato stampa pubblicato, con grande risalto, da Il Piccolo.
Se, malgrado le nostre sollecitazioni, la dirigenza Coop terrà il verbale in cassaforte, “perché la questione è chiusa”, non ci resterà che domandare al Direttore del Servizio cooperazione se, avendo effettivamente riscontrato l’assenza della minima irregolarità, abbia apposto la propria firma sul certificato di revisione, che, come tutti i provvedimenti decisori, è pubblico e consultabile da qualunque interessato.
Tra poco, quindi, conosceremo i risultati della revisione straordinaria, e potremo verificare se la notizia propalata dal quotidiano locale sia fondata o meno; pur augurandoci, in qualità di soci, che il controllo abbia avuto esiti positivi, non nascondiamo qualche perplessità originata dal raffronto tra quanto letto l’11 ed il 14 agosto e il testo della normativa regionale.
Il “certificato” (di revisione) cui impropriamente si allude nel pezzo di lunedì scorso può essere rilasciato solo ove “si siano conclusi senza rilievi di irregolarità gli accertamenti e le verifiche previsti dall’articolo 15; come si concilia questa prescrizione con la richiesta, menzionata venerdì dall’anonimo articolista, “che il regolamento del prestito sociale, datato 1997, sia riapprovato dall’assemblea dei soci”? Piccolezze, certo - ma evidentemente siamo di fronte ad un rilievo… o no? E che cosa succederebbe se tale regolamento non venisse riapprovato? Urge un chiarimento.
Tralasciamo la questione del regolamento elettorale a prova di dissidenti, che secondo la Regione – testimonianza de relato resa dalle Coop – sarebbe “corretto”, e veniamo a quell’inusuale consiglio, rivolto dall’amministrazione ai giudici triestini, di fissare un prezzo per la consegna del libro soci, accompagnato dall’affermazione che non ne è dovuto il deposito nella sede della Camera di commercio.
Un’esortazione ed una negazione pesantissime, visto che contraddicono (rectius: contraddirebbero) una sentenza del Tribunale di Trieste, confermativa di una decisione del suo Presidente, che, oltre a ravvisare scarsa correttezza nell’operato dei vertici societari (cfr l’articolo pubblicato da Il Piccolo in data 8 luglio 2012, a firma di Corrado Barbacini), ha imposto la messa a disposizione e la trasmissione dei dati relativi ai soci alla Camera di commercio di Trieste. Si rammenti che, per la vicenda dei 50 mila euro richiesti al socio Adeo Cernuta in cambio della consegna della lista completa dei soci, sono stati iscritti nel registro degli indagati, dal pm Federico Frezza, il presidente ed il vicepresidente delle Cooperative operaie.
Stupisce che, in una situazione tanto delicata e controversa, un revisore si metta, d’impulso, ad impartire “ordini” (o consigli niente affatto sollecitati) alla magistratura – anzi, diciamola tutta: ci appare improbabile, fantascientifico, inverosimile, dal momento che non siamo nell’Albania di Enver Hoxha, e, per il momento, le forme della democrazia (se non la sua sostanza, ma questa è un’altra storia), sono ancora in gran parte rispettate, indipendenza dei giudici compresa. Può darsi che il braccio di ferro in corso sull’Ilva muti gli scenari, ma intorno a Taranto si muovono attori (ed interessi economici) giganteschi, di fronte ai quali Coop e comitati giuliani sono poca cosa.
Insomma, il giallo dell’estate triestina è ben lungi dal trovare soluzione; e magari presto scopriremo che mancano sia il “delitto” che i colpevoli. Ne saremmo lieti, poiché siamo persuasi, al pari di Roberto Cosolini (anche se, a differenza sua, non avvertiamo l’esigenza di recarci ad omaggiare il presidente pro tempore Livio Marchetti), che le Cooperative operaie sono “molto importanti per la città, per la sua storia, per i posti di lavoro e per il quotidiano servizio che offre a migliaia di consumatori”. Proprio per questo motivo, auspicheremmo un’attenzione particolare, da parte del Sindaco, nei confronti del problema, di cui non è lecito disinteressarsi asserendo – come nell’ancor più preoccupante faccenda Acegas – che “la politica deve starne fuori”, visto e considerato che, in entrambe le questioni, politici vecchi e nuovi vestono i panni dei protagonisti (o di ben remunerate comparse).
Alla dirigenza delle Cooperative operaie di Trieste, Istria e Friuli chiediamo sommessamente di far parlare le carte, anziché i comunicati stampa… prima delle elezioni per il rinnovo del CdA, si intende. Lo domandiamo per favore, ma pienamente consapevoli che un tanto - come soci e come triestini, angosciati per il futuro della nostra città – ci è semplicemente dovuto.