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lunedì 31 dicembre 2012

Perché Giorgio Napolitano è il peggiore Presidente della storia della Repubblica




di Giuseppe Angiuli


Quello che ascolteremo nelle prossime ore sarà l’ultimo discorso di fine anno di Giorgio Napolitano pronunciato dalla scrivania di Presidente della Repubblica italiana. 
È mia ferma impressione che egli sia stato senz’ombra di dubbio – da Enrico De Nicola fino ad oggi - l’uomo peggiore tra tutti coloro i quali hanno ricoperto la carica di Capo dello Stato dal 1948 ad oggi. 
Provo a spiegarne il perché. 


Il settennato di “Re George” (2006-2013) verrà verosimilmente identificato con la fase storica in cui la cosiddetta Costituzione materiale del nostro Paese ha subito il suo più clamoroso stravolgimento e le più evidenti manomissioni, con conseguenze purtroppo destinate a lasciare un segno indelebile (oltreché nefasto) nella vita democratica dei cittadini italiani, per un periodo lungo di qui a venire. 

Intendo affermare che lo spirito con il quale il vecchio (post)comunista napoletano, da sempre sospettato di genealogia regale (1,) ha interpretato il ruolo di Capo dello Stato in questi sette anni, ha finito per imprimere una svolta in senso oligarchico all’assetto dei Poteri dello Stato al punto da porre Giorgio Napolitano aldilà e al di fuori di qualsiasi confronto con tutti coloro i quali lo avevano finora preceduto, facendoci rimpiangere finanche le figure presidenziali più “opache” tra quelle passate dal Quirinale in questi 60 anni, vale a dire Antonio Segni, Giovanni Leone e Francesco Cossiga. 



Per comprendere appieno la reale gravità delle responsabilità storiche che penderanno a lungo sul capo di Napolitano occorre soffermarsi attentamente sulla locuzione Costituzione materiale
La nozione di Costituzione materiale fu introdotta grazie all’elaborazione del giurista Costantino Mortati in contrapposizione a quella di Costituzione scritta o formale
Accanto alle regole scritte – intendeva spiegare il Mortati – esiste tutta una serie di prassi, atti e comportamenti adottati dagli organi costituzionali, che contribuiscono progressivamente ed inesorabilmente a trasformare di fatto l’assetto dei rapporti civili, sociali e politici tra i cittadini di uno Stato-nazione. 
In sostanza, oltre alle norme scritte, l’assetto dei poteri di uno Stato soggiace costantemente all’influenza data dai comportamenti concretamente posti in essere dai singoli detentori delle cariche che si avvicendano nella loro effettiva gestione. 
E dunque, nella storia istituzionale di un Paese, accanto alle norme codificate, si afferma col tempo un insieme di princìpi che, quantunque non presenti formalmente nel corpo della carta costituzionale, assurgono al rango di diritto vivente, assumendo un’importanza che spesso può anche travalicare lo stesso significato letterale delle norme scritte. 
Pertanto, per verificare quale sia il grado di effettiva democrazia all’interno di un Paese, non è soltanto alla carta costituzionale formale che tocca guardare bensì anche alla Costituzione materiale (2). 

Orbene, se si analizzano attentamente alcuni comportamenti messi in atto dall’attuale Presidente della Repubblica nel corso del settennato che sta per volgere al termine, non è difficile convincersi che costui abbia attuato dei clamorosi strappi con prassi istituzionali che solo fino a poco tempo fa erano unanimemente considerate intoccabili all’interno delle nostre istituzioni repubblicane. 

Non è mancato in questi anni chi ha accusato apertamente Napolitano di avere agito non soltanto in violazione delle prassi della nostra Costituzione materiale ma di avere di gran lunga travalicato i confini delle sue stesse funzioni e prerogative formali, così come codificate all’art. 87 della nostra Carta fondamentale (3): a tal proposito, merita di essere quanto meno menzionata la clamorosa azione di cui si è resa protagonista l’avvocatessa sarda Paola Musu, che il 2 aprile del 2012 ha denunciato penalmente Giorgio Napolitano per diversi reati, tra i quali spicca quello di attentato contro la sovranità, l’indipendenza e l’unità dello Stato Italiano, previsto dall’art. 241 del codice penale.




La coraggiosa professionista cagliaritana, prendendo spunto dal controverso passaggio politico-istituzionale che nel novembre 2011 aveva visto il tecnocrate Mario Monti proiettato, nel giro di poche ore, dalla cattedra del tempio accademico del pensiero neo-liberista italico (la Bocconi) direttamente a Palazzo Chigi, ha addebitato a Giorgio Napolitano la responsabilità per avere promosso un percorso politico-istituzionale che ci starebbe conducendo da essere una Repubblica democratica, in cui la sovranità appartiene al popolo (come icasticamente recita l’art. 1 della Costituzione) ad una Repubblica aristocratica, cioè quella in cui “alcune famiglie vi godano la suprema potestà” (Montesquieu, “l’èsprit des lois”). 

Ma senza volere avventurarci nell’esaminare la fondatezza del rilievo penale adombrato dalla Musu nei comportamenti assunti dall’inquilino del Quirinale, è fuor di dubbio che questo settennato si sia caratterizzato per delle situazioni inedite che mai prima d’ora avevano contraddistinto l’operato di un Presidente della Repubblica. 

Nel nostro ordinamento, la figura del Capo dello Stato, pur rivestendo anch’essa una natura (ovviamente) “politica”, fu concepita dai padri costituenti come quella di un mero arbitro, di un soggetto primus inter pares estraneo alla competizione tra le forze politiche proprio in quanto supremo garante del funzionamento dei meccanismi della democrazia parlamentare. 
Nessuna norma scritta o prassi prevedono, ad esempio, che il Presidente della Repubblica possa intervenire nel dibattito tra le forze democratiche del Paese, prendendo posizione a favore o contro una particolare scelta politica; men che meno, nessuna norma o prassi prevedono che il Capo dello Stato possa interagire direttamente con gli altri organi costituzionali a carattere decisionale (il Parlamento e l’Esecutivo) al fine di orientarne le scelte fondamentali attorno alle quali si deve sviluppare la libera discussione da cui fare infine scaturire la decisione democratica (4). 
Giorgio Napolitano, purtroppo per noi, ha fatto entrambe le cose: non soltanto ha agito da vero e proprio attore politico, condizionando pesantemente il “libero agire” delle forze politiche in momenti delicatissimi della dialettica democratica (in cui egli avrebbe dovuto limitarsi ad essere un silenzioso osservatore) ma ha avuto perfino l’ardire di rivolgersi direttamente al Parlamento ed al Governo (creando un precedente gravissimo), intimando loro l’adozione di precise scelte politiche attorno a questioni fondamentali in materia macroeconomica! 




Due su tutti gli episodi che segnano una rottura con una lunga prassi a cui tutti i precedenti inquilini del Quirinale ci avevano abituati: la guerra di Libia (marzo 2011) e la formazione del Governo dei banchieri a guida Mario Monti (novembre 2011). 
Quanto alla prima vicenda, difficilmente potremo dimenticare l’immagine di un Presidente della Repubblica che, in occasione dei festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, nel retrobottega del Teatro dell’Opera a Roma, intima al riluttante Berlusconi di dare il suo pieno avallo ai bombardamenti NATO sulla Libia di Gheddafi. 

Lo so, era già avvenuto che l’Italia partecipasse all’assalto militare ad una nazione sovrana, spacciando ipocritamente tale crimine per una “missione di pace”. Ma mai era avvenuto che lo sfregio all’art. 11 della Costituzione fosse perorato, incoraggiato e vivamente caldeggiato in prima persona proprio da colui il quale dovrebbe ergersi a supremo garante della nostra grundnorm
È vero, già nel 1999 era accaduto che il primo governo guidato da un ex comunista (D’Alema) fornisse il proprio avallo all’assalto imperialista alla Jugoslavia di Milosevic ma in quel caso lo scaltro Ciampi si era limitato a chiudere tutti e due gli occhi, senza essere l’artefice diretto di una scellerata decisione politica già presa da D’Alema medesimo col pieno apporto di Francesco Cossiga (il quale nelle sue memorie parla apertamente di una scelta assunta nel corso di una “cena a tre” con l’ambasciatore U.S.A. a Roma). 


Ma anche la sfrontata risolutezza con la quale Napolitano si è rivolto al Governo-Berlusconi ed allo stesso Parlamento italiano per invitarli ad ossequiare il prima possibile i contenuti della lettera-diktat dell’agosto 2011 a firma Draghi-Trichet grida giustizia. 
Contrariamente a quanto viene fatto credere all’opinione pubblica, le scelte di cosiddetta austerity economica “suggeriteci” dalla Troika B.C.E.-F.M.I. e dalla “sergente di ferro” Angela Merkel, lungi dal costituire degli impegni cui l’Italia doveva necessariamente tenere fede in ossequio a non ben precisati princìpi superiori, costituivano delle decisioni di politica economica che, in una democrazia che è tale non solo sulla carta, non possono che costituire il frutto di una meditata e prolungata discussione tra le forze parlamentari, anziché il risultato di una mera imposizione autoritaria: è sotto gli occhi di tutti, dunque, che Giorgio Napolitano, in tale precisa occasione, ha agito apertamente - come mai prima d’ora era accaduto nella storia d’Italia – non già da supremo garante degli interessi del popolo italiano bensì da curatore degli interessi del capitalismo finanziario europeo e dei suoi organismi tecnocratici sovranazionali. 

La gravità senza precedenti dello strappo istituzionale di cui si è reso protagonista Napolitano sta tutta qui: se alcuni suoi predecessori avevano forse trescato nell’ombra per condizionare l’andamento della vita politica del Paese, egli ha agito sfrontatamente e spudoratamente, alla luce del sole. 
E così, mentre il vecchio Antonio Segni, nel 1963, aveva avuto il pudore istituzionale di “amoreggiare” dietro le quinte coi Carabinieri del Generale De Lorenzo al fine di scoraggiare con ogni mezzo l’insediamento del gabinetto di centro-sinistra a guida Moro-Nenni (pagandone poi le conseguenze con la sua improvvisa defenestrazione dal Quirinale), Lord George non ha avuto alcun timore di dettare al Parlamento, davanti alle telecamere, quale dovesse essere il Governo da insediare a Palazzo Chigi al posto di Berlusconi, da chi tale nuovo Esecutivo dovesse essere diretto e quale programma politico esso dovesse pedissequamente perseguire. 

Se il vecchio Leone, negli anni ’70 del secolo scorso, aveva dovuto reagire con pudico imbarazzo alle aggressioni della stampa dell’epoca che lo volevano protagonista di ogni sorta di scandalo, il nostro King George non ha avuto alcun pudore nell’intimare al C.S.M. l’inutilizzabilità di scottanti intercettazioni telefoniche che lo vedevano come (indiretto?) protagonista. 


Sì, lo so a cosa pensate. 
Anche Francesco Cossiga, il “gattosardo”, si era caratterizzato, specie nell’ultima parte del suo settennato, per l’utilizzo di un linguaggio poco consono a quello di un arbitro imparziale nella contesa politica. Ma, a ben rivedere i fatti dell’epoca del crepuscolo della Prima Repubblica (1991-92), si capisce che i latrati disordinati del Presidente dell’epoca costituivano un grido quasi irrazionale di un uomo ferito nell’orgoglio il quale, avendo bene compreso che qualcuno “molto in alto” stava azzerando tutti i protagonisti di primo piano della scena politica del tempo, cercava disperatamente di ritagliarsi almeno un posto al sole all’interno della nascente Seconda Repubblica, evitando di fare la fine riservata a Craxi e ad Andreotti. Questo era, a mio avviso, il reale intento delle sue “picconate”. 
Ma è difficile affermare che Cossiga, con le sue esternazioni spesso scriteriate (ed anche probabilmente favorite da una psiche caratteriale non proprio immune da squilibri), ebbe ad influenzare in modo decisivo gli eventi di quella fase della storia repubblicana: ben altre erano allora le forze in campo a dirigere le danze. 

Quel che colpisce dell’attivismo di Napolitano è che costui, a differenza di Cossiga, è sempre apparso lucidissimo nei suoi freddi intenti di mestatore del gioco politico. 
Soltanto i poco e male informati possono sorprendersi di un atteggiamento così servizievole e zelante verso i Poteri Forti come quello messo in atto da Re Giorgio nel corso del suo settennato. 
Non tutti sanno che a costui toccò il compito, nel 1978, di compiere il primo viaggio negli Stati Uniti di un uomo del Comitato Centrale del P.C.I., inaugurando una lunga stagione di fiancheggiamento che avrebbe portato il (fu) Partito della classe operaia italiana a diventare il supremo garante in Italia degli interessi del capitalismo finanziario trans-nazionale. 


Dopo avere trovato gli “agganci” giusti negli States, il Nostro fu battezzato da Henry Kissinger come “il mio comunista preferito” e compì un lungo lavoro di limatura dei rapporti che avrebbe portato i dirigenti dell’ex-PCI, tra il 1989 ed il 1992, a stipulare degli accordi strategici di lunga durata con i Poteri Forti (non solo americani) della politica e dell’economia: da una parte gli ex comunisti garantirono la loro inerzia silenziosa di fronte all’avvio del ciclo delle privatizzazioni, dall’altra parte ottennero in cambio quella legittimazione a partecipare al governo del Paese che fino ad allora non avevano potuto avere a causa del loro legame storico con l’Unione Sovietica. 
Dio solo sa quanti e quali sciagure sono derivate al nostro Paese da questo genere di “patti”. 
Dio solo sa quante altre ne deriveranno prima che la massa critica degli italiani possa iniziare davvero a capire tutto ciò. 

Voglio chiudere ricordando un’ultima perla lasciataci dal “comunista preferito da Kissinger” (ed anche dagli israeliani): in un incauto discorso pubblico pronunciato nel gennaio 2007, il Nostro ebbe a dichiarare il proprio sdegnato No all’antisemitismo, “anche quando esso si travesta da antisionismo”, contribuendo così ad alimentare una imperdonabile e dannosissima confusione semantica tra due concetti che è sempre bene tenere distinti, quelli di ebraismo e sionismo (5). 


Domenica 30 Dicembre 2012
Giuseppe Angiuli




1 E’ abbastanza noto il pettegolezzo che vorrebbe Giorgio Napolitano figlio di Re Umberto II di Savoia, il quale lo avrebbe generato nel corso di una relazione extraconiugale avuta con una delle dame di compagnia della regina Maria Josè.

2 Operando un parallelismo non del tutto fuori luogo, i sostenitori ideologici della recente destabilizzazione della Libia di Gheddafi ad opera della NATO facevano spesso riferimento ai poteri autocratici che il colonnello esercitava di fatto nel sistema politico della nazione africana (ossia nella Costituzione materiale di quel Paese), ancorchè egli non ricoprisse formalmente alcuna carica istituzionale se non quella simbolica di “leader della Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista”.

3 Art. 87: “Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale. Può inviare messaggi alle Camere. Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione. Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo. Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione. Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere. Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere. Presiede il Consiglio superiore della magistratura. Può concedere grazia e commutare le pene. Conferisce le onorificenze della Repubblica”.

4 L’unico strumento che la Costituzione affida al Capo dello Stato per interloquire direttamente col Parlamento è costituito dal messaggio alle camere, al quale diversi Presidenti sono ricorsi in passato per raccomandare il rispetto di meri princìpi a carattere generale, come ad esempio fece Ciampi nel 2002 perorando il rispetto della democrazia nell’informazione.

5 Una memorabile risposta alle improvvide parole di Napolitano pervenne da Mauro Manno, compianto studioso napoletano del sionismo, cfr. G. Angiuli, La fondamentale differenza tra ebraismo e sionismo, pubblicata su questo stesso blog



sabato 29 dicembre 2012

Il fiscal cliff è un diversivo, di Paul Craig Roberts


Per gentile concessione del blog "Memorandum di uno Smemorato" del compagno Francesco Salistrari pubblichiamo questo interessante articolo. 



Il “fiscal cliff” è un'altra bufala per distogliere l'attenzione di politici, dei media e del pubblico più attento, sempre che ce ne sia, da problemi piccoli e grandi.
Il fiscal cliff è un taglio automatico alla spesa ed un incremento delle tasse, con il fine di ridurre il deficit di una cifra insignificante nei prossimi 10 anni, se il Congresso non prenderà direttamente l'iniziativa di tagliare la spesa ed aumentare le tasse. In altre parole, il fiscal cliff ci sarà comunque.
Guardando il problema dal punto vista dell' economia tradizionale il fiscal cliff consiste in una doppia dose di austerità in un' economia già vacillante ed in recessione. Da John Maynard Keynes in poi molti sono gli economisti che hanno capito che l' austerità non è la risposta a recessioni e depressioni.
In ogni caso, il fiscal cliff è poca roba se comparato allo tsunami dei derivati, o alla bolla del mercato azionario o a quella del dollaro. Il fiscal cliff richiede tagli da parte del governo federale di 1,3 trilioni di dollari in 10 anni. Il Guardian riporta che questo significa che il deficit federale deve essere ridotto di 109 miliardi di dollari ogni anno cioè del 3% del budget annuo. Più semplicemente basta dividere 1300 miliardi per 10 e otteniamo i 130 miliardi di dollari di saving richiesti ogni anno. Ma si potrebbe ottenere tranquillamente lo stesso risultato se Washington si prendesse tre mesi di ferie l'anno dalle sue guerre.
Lo tsunami dei derivati e la bolla delle obbligazioni e del dollaro invece hanno un peso diverso.
Lo scorso 5 giugno, su “Collapse At Hand”, feci notare che secondo il rapporto del quarto trimestre dell’ Office of the Comptroller of Currency del 2011, circa il 95% dei 230 trilioni di dollari di esposizione sui derivati degli Stati Uniti erano detenuti da quattro istituti finanziari statunitensi: JP Morgan Chase Bank, Bank of America, Citibank e Goldman Sachs.
Prima della deregolamentazione finanziaria, in pratica l' abolizione del Glass-Steagal Act e la non-regolamentazione dei derivati – un risultato ottenuto dalla collaborazione tra l'amministrazione Clinton con il Partito Repubblicano – Bank of America e Citibank erano le banche commerciali che prendevano i versamenti dei depositanti e facevano prestiti al mondo degli affari e ai consumatori poi, con i fondi residui, compravano i titoli del Tesoro .
Con l' abolizione del Glass-Steagall queste oneste banche commerciali hanno cominciato a giocare come in un casinò, come la Goldmann Sachs che, pur essendo una banca di investimenti, si è messa a scommettere non solo i suoi soldi, ma anche quelli dei depositanti facendo scommesse senza avere i soldi, sui tassi d' interesse, sul mercato dei cambi, sui mutui, sulle materie prime e sulle azioni.
Questo giochetto in breve tempo non solo ha superato di molte volte il PIL degli Stati Uniti, ma addirittura il PIL mondiale. Infatti le scommesse della sola JP Morgan Chase Bank sono pari al valore di tutto il PIL mondiale.
Stando al rapporto del primo quadrimestre del 2012 del Comptroller of the Currency, l'esposizione delle banche statunitensi sui derivati è diminuita, a 227 trilioni di dollari, in modo insignificante rispetto al trimestre precedente. E l'esposizione delle 4 banche statunitensi ammonta quasi al totale dell’esposizione e supera di molte volte il loro asseto il loro capitale di rischio.
Lo tsunami dei derivati è il risultato della manipolazione di un gruppo di ufficiali pubblici pazzi e corrotti che hanno deregolato il sistema finanziario statunitense. Oggi soloquattro banche americane hanno una esposizione sui derivati pari a 3,3 volte il PIL mondialez. Quando ero un funzionario del Tesoro USA , una circostanza come questa era considerata fantascienza.
Se tutto andrà bene, gran parte delle esposizioni sui derivati in qualche modo si compenseranno tra loro, così che l'esposizione netta, che rimarrà comunque sempre superiore al PIL di molti paesi, non è dell'ordine di centinaia di miliardi di dollari. Comunque, la situazione sta preoccupando molto la Federal Reserve che dopo aver annunciato un terzo QE, che consiste nello stampare soldi per comprare titoli – sia del Tesoro degli Stati Uniti che dei derivati-a-fregatura delle banche – ha appena annunciato che raddoppierà i suoi acquisti del QE3.
In altre parole, l' intera politica economica degli Stati Uniti è basata sul salvataggio di quattro banche troppo grandi per fallire. Le banche sono troppo grandi per fallire solo perchè la deregolamentazione ha permesso una concentrazione finanziaria, come se l' Anti-Trust Act non fosse esistito.
Lo scopo del QE è quello di mantenere alti i prezzi dei debiti, che supportano le scommesse delle banche. La Federal Reserve dichiara che lo scopo di questa massiccia monetizzazione del debito è quello di aiutare l' economia facendo scendere i tassi di interesse ed facendo aumentare la vendita delle case. Ma la politica della Fed sta facendo male all'economia perché sta togliendo ai risparmiatori, e sopratutto ai pensionati, il reddito dei loro interessi sui risparmi, forzandoli a prosciugare il loro castelletto di risparmi. Infatti i tassi reali di interesse pagati sui certificati di deposito, sui fondi di investimento e sui titoli sono inferiori al tasso d' inflazione.
Inoltre, i soldi che la Fed sta creando nel tentativo di salvare le quattro banche sta facendo innervosire i possessori di dollari, sia in patria che all’estero. Se gli investitori abbandoneranno il dollaro ed il suo cambio crollasse, anche il prezzo degli strumenti finanziari che gli acquisti della Fed stanno sostenendo crollerebbe ed il tasso di interessi aumenterebbe. L' unico modo che ha la Fed per sostenere il dollaro è quello di aumentare il tasso di interesse. In quel caso, i detentori di titoli verrebbero spazzati via, e l'indebitamento per interessi del debito del governo esploderebbe.
Con una catastrofe come quella che seguirebbe al collasso della borsa e della bolla immobiliare, la residua ricchezza della popolazione verrebbe spazzata via. 
Ma gli investitori stanno già abbandonando le azioni per “salvare” il Tesoro. È per questo che la Fed può mantenere i prezzi dei titoli così alti mentre il tasso di interesse reale è negativo.
La paventata minaccia del fiscal cliff è nulla se comparata con il rischio che incombe con i derivati, con la minaccia sulla tenuta del dollaro e con quella di un mercato azionario che dipende dall’impegno della Fed a salvare le quattro banche americane.
Ancora una volta, i media e il loro maestro, il governo degli Stati Uniti, nascondono il problema vero dietro un problema fasullo.
Il fiscal cliff per i Repubblicani è diventato l'unico modo di salvare la nazione dalla bancarotta, distruggendo così la rete di aiuti sociali messa in piedi negli anni '30 e migliorata dalla “Great Society” di Lyndon Johnson a metà degli anni '60.
Ora che non c'è lavoro, che i redditi delle famiglie sono stagnanti se non addirittura in declino da decenni, ed ora che i redditi e la ricchezza sono concentrati in poche mani è il momento, dicono i Repubblicani, di distruggere la rete di aiuti sociali: in questo modo si eviterà di cadere sotto il fiscal cliff.
Nella storia umana, questo modo di governare ha prodotto rivolte e rivoluzioni, e questo è quello di cui gli Stati Uniti hanno disperatamente bisogno.
Forse, dopo tutto, i nostri stupidi e corrotti politici ci stanno facendo un favore. 

venerdì 28 dicembre 2012

IL REGALO DI NATALE di Norberto Fragiacomo



Un noto imprenditore triestino, proprietario di supermarket, rivendica pubblicamente la scelta di aver tenuto aperto l’esercizio il giorno di Natale, asserendo addirittura – con la tipica sfrontatezza del paròn – di aver “fatto un regalo ai suoi dipendenti”, cui sarebbe finito in tasca qualche spicciolo in più… da spendere possibilmente in azienda, negli intervalli tra un turno e l’altro.
Una manciata di euro in cambio della libertà: non è granché come affare, ma chi sta sotto, oggi, deve far buon viso a giochi sempre peggiori. Ammalarsi è vietato, prendersi le ferie è vietato; vivere la propria vita è vietato, in una Repubblica dove il lavoro manca o fa rima con asservimento, mentre la Costituzione “più bella del mondo” (copyright Pierluigi Bersani, che evidentemente ha studiato a fondo tutte le altre) viene attuata, in tivù, da declamatori milionari.
Può darsi, nel caso citato, che i lavoratori, avendo il coltello dalla parte della lama, non si siano azzardati a protestare, ed abbiano anzi ringraziato per l’extra: in fondo, il nostro affermato impresario si è vantato di ciò che molti suoi colleghi fanno, più o meno di nascosto; l’andazzo è generale, e rispecchia lo spirito dei tempi.
Sono state le liberalizzazioni montiane e un’Europa edificata su misura dell’avidità delle lobby a spargere l’humus che alimenta la mala pianta dello sfruttamento, e lo giustifica “filosoficamente” agli occhi del cittadino comune e, talvolta, della stessa vittima. Capita, infatti, che persone normali, intervistate dai media, ripetano pappagallescamente che, in un’epoca di poco lavoro, è giusto faticare nei giorni di festa: opinioni del genere dimostrano non soltanto che, in un Paese abbrutito e sommamente ignorante, la logica aristotelica è patrimonio di un’esigua minoranza, ma anche e soprattutto che il suddito-consumatore, dopo anni di lavaggio del cervello, antepone ormai le esigenze della produzione a quelle proprie. E’ evidente che lo scopo perseguito dalle istituzioni europee attraverso le c.d. liberalizzazioni è ben più ambizioso di quello del singolo commerciante, che mira al profitto e, in qualche caso, all’autocelebrazione: si tratta, da un lato, di “educare” gli esseri umani alla servitù, togliendo loro, poco alla volta, tutele e diritti; dall’altro, di favorire la concentrazione imprenditoriale, mettendo fuori gioco i pesci piccoli, e dunque proletarizzandoli. Della famosa “crescita”, in questo momento storico, ci si occupa soltanto a parole: il potere appare molto più interessato a rimodellare i rapporti economico-sociali tra le classi.
Come Comitato No Debito, abbiamo contestato l’apertura di esercizi commerciali il Primo Maggio (http://www.pandoratv.it/?p=articolo&ref=categoria&a=1520). Per Natale vale lo stesso principio: non possiamo né dobbiamo permettere che i ritagli di tempo da dedicare alla famiglia o, semplicemente, a se stessi siano sottratti all’essere umano. La religione non c’entra, o c’entra solo come fatto personale, come diritto del singolo ad autodeterminarsi (e dunque a partecipare a una messa mattutina o ad una manifestazione, nei giorni a ciò deputati, o, se preferisce, a concedersi una passeggiata in Carso). Una festa, religiosa o laica che sia, va rispettata, e il fatto che quest’appropriazione indebita di vita e di dignità sia legittimata da istituzioni come l’Unione Europea e la Consulta (la quale, nell’incredibile sentenza n. 299 dell’11 dicembre 2012, ha calpestato mezza Carta Costituzionale in nome di una “accezione dinamica della tutela della concorrenza” che, più che a Boccioni, fa pensare ai giudici di Franz Kafka) prova soltanto che il cancro capitalista infesta ormai gran parte dell’organismo occidentale.
Il Capitalismo è una malattia con cui non si può convivere: va estirpata prima che uccida l’ospite. In attesa di abbattere il mostro, iniziamo col boicottare tutte le imprese commerciali che hanno fatto della sopraffazione e del disconoscimento dei diritti dei lavoratori la loro regola “aurea”. Sembrerà a molti un tentativo velleitario, senza speranza, ma anche qualche granello di sabbia nel motore di questa Europa può contribuire a rallentarne la folle corsa, specie se si riuscirà a creare una sinergia con quelle forze (CGIL, Confcommercio, Confesercenti) che si oppongono alla liberalizzazione selvaggia, e con gli enti territoriali, dai quali è lecito pretendere una resistenza che vada al di là di pur doverose impugnazioni di leggi. Nella penisola iberica i sindaci intralciano, spesso con azioni clamorose, i piani del Capitale al governo; se i loro colleghi italiani valutassero, ad esempio, l’ipotesi di adottare, in maniera coordinata, ordinanze per mettere un freno al Far West degli orari, qualcosa i lavoratori potrebbero ottenere, anche a medio-lungo termine. Nel frattempo, bisognerà spiegare a moltitudini allevate per il consumo che si può fare a meno di acquistare pane e latte la domenica: non da ieri esistono frigoriferi e congelatori.   
A proposito di Spagna: da Madrid arriva una proposta stimolante. Medici e infermieri, a partire dal 27 dicembre, scenderanno in piazza nell’intero Paese a difesa della sanità pubblica, che Mariano Rajoy intende privatizzare (http://www.intersindicalsalud.com/), e – tramite Facebook - chiedono a noi triestini di fare altrettanto. Può servire a molto: lo sciopero prolungato di medici coraggiosi ha impedito di recente, in Slovacchia, l’attuazione di un medesimo progetto delinquenziale.
Rispondiamo all’appello, diffondiamolo in Italia e all’estero: lo sciopero del 14 novembre ci ha indicato un’Europa degna di questo nome, composta di uomini e donne che nulla hanno a che spartire con i marci governanti dell’Unione schiavista.
Sopravvalutare le barriere linguistiche significa non aver capito niente, e porta a buttare nell’immondizia l’unico effetto positivo di questi sessant’anni di relativa pace: il fatto che gli europei si sentano, se non fratelli, almeno cugini. Perché il continente divenga la nostra casa non basta, tuttavia, restaurare l’edificio fatiscente: tocca abbatterlo, e poi ricostruirlo dalle fondamenta.
La fine di questo mondo sarà la premessa di un futuro migliore: svegliamoci!


giovedì 27 dicembre 2012

Una risposta inadeguata, di Riccardo Achilli



di Riccardo Achilli


Come ho già scritto in precedenza (cfr. Il progetto europeo pericolante) la via di uscita (si fa per dire) alla crisi dei debiti suggerita da un impasto di liberismo e nazionalismo economico dei Paesi egemoni ha creato le condizioni affinché l’unione monetaria europea venga strutturalmente indebolita e resa più vulnerabile, anche quando la crisi sarà passata. Il non aver voluto adottare i criteri delle aree valutarie ottimali, che fondamentalmente richiedono condizioni di omogeneità/coordinamento delle economie reali e delle politiche fiscali, in nome di una omogeneità concentrata esclusivamente sui parametri inflazionistici e finanziari, come previsto dall’accordo di Maastricht, ha creato le premesse per la situazione esplosiva che viviamo oggi. Il nazionalismo delle economie forti (Germania in testa) che ha scaricato sui PIIGS tutto il peso del riaggiustamento fiscale imposto dalla speculazione sui debiti sovrani ha fatto il resto.
Il riaggiustamento fiscale è stato anche l’occasione per imporre un processo di ristrutturazione sociale dei mercati del lavoro e dei sistemi di welfare dei Paesi PIIGS, inappropriato e controproducente rispetto all’obiettivo di ridurre rapidamente il rapporto fra debito pubblico e PIL (atteso che i saldi di finanza pubblica sono endogeni al ciclo, e naturalmente il processo di ristrutturazione sociale, o di massacro sociale per essere più appropriati, ha effetti depressivi sul ciclo stesso) ma appropriato per creare quelle condizioni strutturali, cioè di medio e lungo termine, attraverso le quali far ripartire il saggio di profitto (sia attraverso un maggior sfruttamento del lavoro, reso possibile dalla riforma-Fornero, sia attraverso nuove opportunità di business, attraverso annunci, mai realmente smentiti, di parziale privatizzazione di importanti comparti del welfare pubblico) e, soprattutto, attraverso le quali far ripartire l’investimento finanziario, rassicurando gli operatori circa la sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico dei PIIGS, di fatto abbattendo l’incidenza sul trend del debito della spesa pubblica previdenziale e sociale (cioè, riducendo il cosiddetto “debito implicito”).
Tale processo è però denso di contraddizioni esplosive che rischiano di farlo fallire, azzerando i risultati attesi dai “ristrutturatori”. Tale processo infatti non incide sul debito implicito delle economie egemoni (Germania e Francia) proprio perché il peso della crisi è stato scaricato sui PIIGS, ma ciò ovviamente significa che il problema dell’aggregato di debito dell’intera area euro è stato risolto solo in parte, poiché, ovviamente, le economie egemoni sono anche quelle che hanno la maggiore incidenza del loro debito nazionale sul debito europeo totale. E peraltro la Germania, in primis, utilizza alcuni artifici contabili (ovviamente resi legittimi dalle regole di calcolo del debito di Maastricht) per celare una parte importante del suo debito pubblico. Poi vi sono le contraddizioni già analizzate nel mio articolo precedente (potenziale riduzione della coesione politica europea derivante dall’allargamento della forbice del benessere fra Nord e Sud dell’area, entrata in stagnazione del ciclo economico delle stesse economie egemoni, per distruzione dei loro mercati di esportazione mediterranei, aumento delle disparità nei fondamentali macroeconomici reali fra le diverse economie nazionali, che rende sempre più difficile gestire in forma univoca gli strumenti di politica monetaria, anche a fronte di possibili attacchi speculativi futuri sul tasso di cambio dell’euro).
L’unica possibilità di uscita da queste contraddizioni è costituita da due componenti: in primis, dalla riattivazione della crescita economica, in modo da avere le risorse aggiuntive per gestire una situazione debitoria che, a livello aggregato europeo, ma anche a livello dei singoli Paesi PIIGS, continua ad essere critica, ed in secondo luogo dalla preparazione di strumenti di politica economica in grado di garantire qualche forma di maggiore omogeneizzazione dei cicli economici reali delle singole economie, e di maggiore coordinamento delle politiche fiscali, cercando cioè di correggere le maggiori distorsioni del concetto monetarista dell’area valutaria comune introdotto dal trattato di Maastricht.
Mentre è oramai probabile che i trattati europei, ed il fiscal compact in particolare, verranno rinegoziati nel giro di un anno al fine di riattivare, seppur in modo prudente, la crescita economica, la strategia europea complessiva per tentare di riattivare le crescita e garantire maggiore omogeneità e coordinamento (cioè per rispondere alle due condizioni sopra richiamate necessarie per salvare l’euro dalle sue contraddizioni) è contenuta in un documento appena proposto dalla Commissione, chiamato “Blueprint for a deep and genuine economic and monetary union”. Tale documento prevede una strategia di corto, medio e lungo termine. Le misure per la crescita ed il coordinamento da attivare entro i prossimi 6-18 mesi prevedono la creazione di uno strumento finanziario destinato a supportare il ribilanciamento ed il riaggiustamento del ciclo delle economie nazionali partecipanti alla UE, sanando quello che è uno dei maggiori limiti di tale area valutaria, ovvero l’assenza di un sistema di controbilanciamento di shock asimmetrici che dovessero colpire soltanto alcune e non tutte le economie partecipanti, in vista della creazione di un sistema che garantisca una migliore convergenza dei cicli economici nazionali.
Nel medio termine (18 mesi-5 anni) si prevede la creazione di una politica fiscale comune, con la possibilità di imporre modifiche vincolanti alle manovre finanziarie nazionali non allineate agli obiettivi comunitari, un coordinamento delle politiche fiscali e del lavoro, la creazione di una capacità fiscale autonoma dell’Unione Europea per condurre le sue proprie politiche, superando in parte il finanziamento del bilancio comunitario ad opera dei bilanci dei singoli Stati membri che vige oggi. Si prevedono forme molto timide di mutualizzazione del debito pubblico europeo, alternativamente tramite lo strumento del redemption fund (essenzialmente un fondo che acquista i debiti pubblici nazionali che eccedono la soglia del 60% del PIL, finanziandosi con l’emissione di titoli garantiti da tutti i Paesi Ue, e nei confronti del quale i Paesi che hanno versato il loro extra debito rimangono responsabili del pagamento a scadenza della quota capitale ed interessi dei titoli pubblici dell’extradebito stesso) oppure tramite gli euro-bill (titoli a breve scadenza, non superiore ai 2 anni, emessi dalla Ue in sostituzione dei singoli Stati membri, e garantiti dalla Germania, una forma di mutualizzazione del debito pubblico nazionale limitata al solo debito a breve scadenza).
Nel lungo termine (oltre i 5 anni) si prevede una completa unificazione fiscale, monetaria e della gestione debitoria, con un parallelo processo politico di unificazione istituzionale, con accresciuti livelli di democraticità, rappresentatività e accountability delle istituzioni comunitarie.
Purtroppo, il disegno in questione (che rappresenta solo una proposta, che deve essere approvata, ma soprattutto implementata, dal Consiglio Europeo) è al contempo troppo ambizioso e troppo rinunciatario. In altri termini, è velleitario.  E’ troppo ambizioso perché recupera quell’idea, politica prima ancora che economica, di Stati Uniti di Europa, che è stata propria dei suoi padri fondatori, e che però se non si è mai realizzata, soccombendo a nazionalismi e rendite di posizione. Poiché per l’unificazione politica ed economica la Commissione, nel suo documento, prevede un orizzonte superiore ai 5 anni, cioè un orizzonte entro il quale i meccanismi di crescita si saranno prevedibilmente riattivati, non si capisce perché, superata l’angoscia della crisi, quegli stessi nazionalismi e quelle stesse rendite di posizione dovrebbero farsi da parte, quando non lo hanno fatto negli ultimi 60 anni. Finita l’emergenza della crisi, se finirà, non basterà il richiamo secondo cui ciò che è successo potrà succedere di nuovo, se l’area euro non si dota delle caratteristiche di area valutaria ottimale e solidale. Perché la memoria delle tragedie di questa crisi sarà rapidamente perduta in una nuova orgia di crescita, consegnata a sbiaditi libri di storia, ed ognuno tornerà a coltivare il proprio orticello nazionale, cercando, come sempre, di massimizzare a suo vantaggio, ed a svantaggio del vicino, i frutti della ritrovata crescita. Se invece la crisi non sarà stata superata entro i prossimi 5 anni…beh…avremo altro a cui pensare di più urgente rispetto ai problemi di integrazione europea. La verità è che i processi di integrazione politica non dipendono dalla spinta dell’economia, ma da fattori culturali, storici, etnografici,  sociali e relazionali, persino attinenti alla psicologia di massa dei popoli e dei loro simboli aggregativi. Quindi tali processi camminano da soli, oppure non camminano. Se si cerca di farli camminare con la forza, con un disegno burocratico calato dall’alto, non attecchiscono nel profondo, ed esplodono, spesso in modo sanguinoso.
Non sono le Blueprints della Commissione a poter creare i presupposti per l’integrazione. E’ la scuola, che deve avere un approccio profondamente europeistico e multiculturale sin dalle prime classi, è la politica dei singoli Stati, che deve dare maggiore esempio di europeismo agli elettori, anziché rifugiarsi in comodi richiami alla Terra ed al Sangue ogni volta che c’è da negoziare a livello comunitario foss’anche la più futile delle questioni, che so, la proposta di regolamento europeo che stabilisce quanta percentuale minima di burro di cacao debba esserci dentro il cioccolato prodotto in Europa, o stronzate simili. E’ il mercato del lavoro che deve essere più aperto, eliminando i residui di regolamentazioni nazionali ed incentivando maggiormente i lavoratori a girare per l’Europa, foss’anche per brevi periodi.
Oltre che essere esageratamente ambizioso, questo documento della Commissione riesce anche nella mirabile impresa di risultare timido. Non una parola, tranne una chiacchiera generica sul concetto di “economia sociale di mercato” (che ovviamente implica l’accettazione dei meccanismi di mercato, “emendata” da qualche mancetta caritatevole, assolutamente inadeguata per correggere le distorsioni del mercato e per affrontare il grave impoverimento in atto di ampi strati della società) e sull’ovvietà che le politiche sociali andrebbero coordinate e rafforzate anche tramite il FSE (ma senza dire come) sulla progressiva realizzazione di un welfare europeo, che potrebbe essere generosissimo, poiché basato sul debito pubblico europeo, e non su quello dei singoli Stati. Con la risultante pazzesca che non si ammette che le regole sulla vigilanza bancaria, ad esempio, possano essere diverse da Stato a Stato, ma si ammette che la tutela dei lavoratori, dei malati, degli anziani possa essere diversa da Stato a Stato. E poi si pretende di creare una unificazione politica!!! Basata sulle ingiustizie!!! Non si punta con decisione agli eurobond, cercando compromessi di basso livello (eurobill per mutualizzare soltanto il debito pubblico a breve, che rappresenta meno dell’11% del debito pubblico totale dell’area euro, redemption fund, che lascia assolutamente immutati gli obblighi di pagamento dell’extra debito da parte degli Stati membri, confidando soltanto in un eventuale calo dei rendimenti dovuto alla garanzia tedesca, che non si sa quanto possa essere solida, alla prova dei mercati). Non si fissa un valore minimale di dotazione finanziaria dello strumento finanziario per il controbilanciamento degli shock asimmetrici.
Un documento al contempo velleitario e rinunciatario ha un solo, reale obiettivo: dare fondamento a qualche limitata azione, di piccolo cabotaggio: per l’appunto, gli euro-bills piuttosto che il redemption fund, qualche contrattino stipulabile fra Stato nazionale e Commissione per avere qualche soldarello in caso di crisi asimmetrica,  un maggiore controllo comunitario sulle manovre finanziarie degli Stati membri che, in assenza di una maggiore democrazia politica nell’agire degli organi europei (poiché come detto tale obiettivo è velleitario) si traduce soltanto in un controllo burocratico ed antidemocratico sulle decisioni di Governi e Parlamenti nazionali.
Serve maggior coraggio. Serve l’immediata e completa mutualizzazione del debito nazionale, serve un ridisegno completo delle strategie di politica economica, che sia basato su crescita, ma anche redistribuzione della ricchezza, altrimenti la crescita da sola non serve. Serve una politica industriale di scala europea che preservi, rafforzandoli, i campioni industriali, anche tramite la creazione di imprese di proprietà multigovernativa nei settori strategici. Serve una politica di sostegno alla domanda, che allarghi lo spazio del welfare pubblico, identificando dei criteri di tutela minimi che ogni Stato deve assicurare, iniziando dal reddito minimo garantito pari ad almeno il 60% del reddito mediano. Occorre costruire un mercato del lavoro europeo basato sui diritti e sulle opportunità, che da un lato uniformizzi il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) tramite un parametro omogeneo di variazione delle retribuzioni in base alla produttività, e d’altro lato determini un “core” comune di diritti sindacali e del lavoro da garantire in ogni Stato membro, più ampio di quello attualmente identificato dalla Ue (davvero striminzito, tale cioè da consentire una ampia riduzione dei diritti del lavoro preesistenti), nonché meccanismi incentivanti la cogestione e la compartecipazione dei lavoratori alle decisioni aziendali, servono meccanismi fiscali e di trasferimenti pubblici in grado di controbilanciare shock macroeconomici asimmetrici su singoli Stati, serve un rafforzamento, finanziario ma anche di miglioramento dei meccanismi di programmazione e governance, dei fondi strutturali, per ridurre le sacche di disoccupazione e ritardo di sviluppo esistenti nei Mezzogiorni d’Europa (segnalo che nel documento economico Achilli/Gatti della Lega ei Socialisti si fanno numerose proposte per rendere più snella e flessibile la programmazione dei fondi strutturali, e per ridefinire in modo statisticamente più rigoroso le regioni europee a ritardo di sviluppo; per informazioni e per visionare il documento si può scrivere a r.achilli@libero.it oppure a renatocostanzogatti@gmail.com). Servono infine regole automatiche che impongano, agli Stati membri in condizioni di avanzo strutturale delle partite correnti, l’attivazione di politiche a sostegno della domanda per consumi, in modo da migliorare il saldo delle partite correnti dei Paesi deficitari tramite l’aumento dell’export negli Stati membri eccedentari.
Serve una ridefinizione oggi, non domani, dell’assetto istituzionale europeo, in modo da renderlo più democratico, più partecipativo, de-burocratizzandolo, e togliendo alla Commissione gran parte dei poteri di iniziativa, per attribuirli al Parlamento Europeo. Così come il Consiglio Europeo va sostituito con un organo di garanzia super partes eletto dal Parlamento. Serve poi una definizione di tipo ocnfederativo a maglie larghe delle autonomie che rimarranno in capo ai singoli Stati membri. E tale ridefinizione serve oggi, non va posposta a quando saranno stati omogeneizzati i meccanismi di gestione dell’economia e delle politiche sociali e del lavoro. Perché la costruzione politica e democratica deve precedere la costruzione economica, altrimenti il rischio è quello di rimanere dentro un assetto euro-burocratico, in cui le decisioni vengono assunte da ristrette oligarchie tecnocratiche, autoreferenziali rispetto alla volontà popolare. Come avviene oggi. Le Blueprint della Commissione esaminate sopra, questo documento inutile e velleitario, sono esattamente il prodotto di un’Europa burocratica ed oligarchica. 

martedì 25 dicembre 2012

Caligola, il seppellitore delle ultime spoglie di repubblicanesimo, di Riccardo Achilli


di Riccardo Achilli


Provino pure odio per me, purché mi temano
Caligola
Non vi fu servo migliore e padrone peggiore
Svetonio


Introduzione e contesto storico
Gaio Giulio Cesare Germanico, soprannominato Caligola (Anzio? 31 Agosto 12 D.C. – Roma, 24 Gennaio 41 D.C.) visse per ventinove anni e fu imperatore per tre anni, dieci mesi ed otto giorni. Nell’immaginario collettivo, resta l’immagine di uno squilibrato, di un pazzo crudele e privo di freni inibitori, di una figura tragica che, nel pieno della fase più fiorente della storia romana, avrebbe in qualche modo preannunciato il declino di Roma. Albert Camus, nella sua famosa pièce teatrale, fa di Caligola un interprete particolare della teoria dell’Uomo Assurdo, che è centrale nel pensiero del grande Camus: attraverso la sua crudeltà senza apparente motivo razionale, il protagonista di tale pièce rappresenta l’assurdità del potere, che non mira al bene generale, ma alla soddisfazione di impulsi personali del dittatore.
In realtà, di Caligola si sa molto poco. Quasi tutte le informazioni storiografiche e biografiche provengono dalla Storia dei Cesari di Svetonio, storico che lo aggredisce in un modo così virulento e oltraggioso, andando ben oltre la semplice analisi storica dei suoi comportamenti politici e come imperatore, finendo nell’insulto personale, da lasciar supporre che alla base della ricostruzione storica di Svetonio vi fosse livore personale più che seria indagine storico-scientifica. Basti pensare che Caligola viene maltrattato anche rispetto alla sua immagine fisica. Dice Svetonio che “Caligola aveva la statura alta, il colore livido, il corpo mal proporzionato, il collo e le gambe estremamente gracili, gli occhi infossati e le tempie scavate, la fronte larga e torva, i capelli radi e mancanti alla sommità della testa, il resto del corpo villoso”. Tale ritratto fisico peraltro è anche contrastante rispetto ai busti che ci rimangono dell’imperatore. Lo stesso Svetonio si spinge fino a dire che, dopo la morte di Caligola, “i guardiani di questi giardini (i giardini dove riposava la salma dell’imperatore) furono turbati da spettri e che nella casa in cui giacque disteso, tutte le notti furono caratterizzate da qualche manifestazione terrificante fino al giorno in cui la casa stessa fu distrutta da un incendio”.
In verità, l’esagerata sottolineatura del carattere mostruoso e folle di Caligola, fatta da Svetonio, è evidentemente spinta da motivi politici. Lo storico Svetonio era infatti un esponente del ceto equestre, cioè di una classe sociale definita in base al censo (cioè al reddito) ed a radici familiari illustri: si trattava dei ricchi dell’epoca romana, spesso più ricchi addirittura dei patrizi, e che avevano alcune prerogative, come la possibilità di accedere a carriere militari elevata (gli ufficiali dell’esercito romano erano equites) o a carriere amministrative prestigiose (in particolare, giudici ed esattori delle tasse erano scelti fra gli equites). Lo stesso Seneca, che lo tratta al pari di Svetonio, era notoriamente avversario della famiglia di Caligola stesso. Caligola fu un duro e feroce avversario delle classi agiate della società romana, che sistematicamente vessò ed umiliò durante tutto il suo principato, attirandosi quindi il loro odio. Fu in qualche modo il precursore di una durissima lotta di potere fra imperatore e Senato, che, nella storia successiva di Roma, avrebbe progressivamente trasformato il principato, di augusta costruzione, ed ancora rispettoso, sia pur solo formalmente, delle istituzioni repubblicane antiche (e quindi del Senato e della classe patrizia), nel ben più autocratico impero.
Occorre fare un piccolo passo indietro. Il sistema del principato nasce come tentativo di restaurare, sia pur solo formalmente, la defunta Repubblica, distrutta definitivamente da Giulio Cesare, ma in realtà minata alle sue fondamenta da una lunga fase di guerre civili, e dalle sue stesse contraddizioni interne. Con riferimento a queste ultime, va ricordato che il sistema economico di Roma non è mai stato capace di innescare un modello di crescita endogeno, ed è sempre stato dipendente dalle conquiste militari esterne. Il costo dell’enorme apparato burocratico e militare romano (il solo esercito permanente, all’epoca della nascita di Caligola, assorbe circa il 2,5% del PIL dell’impero) e del sontuoso stile di vita di patrizi e equites, associato all’inefficienza cronica di raccolta delle imposte, sia pur con un sistema fiscale oppressivo, rende strutturalmente precarie le casse dello Stato, con l’esigenza di monetizzare i disavanzi, che a sua volta implica l’esigenza di conquistare nuovi territori ricchi di oro e metalli con i quali coniare le nuove emissioni di monete. Il modo di produzione servile richiede sempre nuove guerre per procurarsi schiavi freschi atti a soddisfare una domanda crescente, dopo la stabilizzazione politica ed economica attuata da Ottaviano. Al tempo del proprio splendore Roma, popolata da circa un milione di persone giunse ad importare fino a 3,5 milioni di quintali di frumento ogni anno; almeno tra le 200 e le 300 000 persone vivevano grazie alle distribuzioni gratuite di frumento (ed in un secondo tempo, di pane, olio di oliva, vino e carne di maiale), quindi, calcolando le famiglie degli aventi diritto, si può sostenere che tra un terzo e la metà della popolazione dell'Urbe vivesse a carico dello Stato (la chiamavano la "plebe frumentaria").
D’altro canto, però, a fronte di tale incremento di domanda, la produttività dell’agricoltura, anche durante la lunga fase di prosperità in cui è inserita la vicenda di Caligola, rimarrà stagnante, impedendo quindi di poter risparmiare sul numero di schiavi necessari. I piccoli proprietari terrieri, la categoria più produttiva, si disfano infatti delle loro terre, sia a causa del servizio militare prolungato, sia a causa della concorrenza dei latifondi, che si estendono, ma hanno una produttività molto bassa, anche in ragione della scarsa propensione dei loro proprietari, in genere ricchi patrizi che risiedono a Roma, di investire in migliorie produttive. Neanche i miglioramenti normativi diretti a rendere più umana la vita degli schiavi (la legge Cornelia, dell'82 a.C. proibì che il padrone potesse uccidere lo schiavo senza giustificato motivo e la legge Petronia, del 32, rimosse l'obbligo dello schiavo di combattere nel Circo se richiestogli dal proprietario) servirono ad incrementarne la produttività. Tutto ciò richiederà all’impero romano la duplice esigenza di conquistare nuove terre da coltivare, per contrastare la produttività declinante o stagnante di quelle già controllate, e di procurarsi continuamente nuova manodopera servile.
In conseguenza dell’esigenza di procurarsi metalli preziosi per battere moneta, terre da coltivare e schiavi per lavorare, l’economia romana diverrà sempre più un’economia militarizzata. I capi militari vincenti, sostenuti in qualsiasi avventura, anche politica, dal loro esercito, ricompensato con assegnazioni di terre e premi monetari, assumeranno sempre più prestigio politico fra le masse, fin dal tardo periodo repubblicano, e ciò evidentemente non potrà che condurre verso una deriva autocratica del potere politico. La militarizzazione della vita politica romana è peraltro favorita dalla riforma dell’esercito promulgata da Gaio Mario nel 107 a.c., che estende il reclutamento obbligatorio anche ai cittadini più poveri. Si verrà in questo modo a creare un esercito professionale, composto perlopiù da soldati poveri o nullatenenti, che dipendono per la propria sopravvivenza, in tutto e per tutto dalle elargizioni di terre e di denaro effettuate dal proprio comandante in capo. Di conseguenza i soldati avevano il massimo interesse ad appoggiare il proprio comandante e seguirlo ciecamente, anche quando si lanciava in avventure politiche e si scontrava con i voleri del Senato, composto dai rappresentanti dell'oligarchia dominante e massima espressione dell’assetto istituzionale repubblicano.

Estensione dell'impero romano sotto Tiberio, al momento dell'ascesa di Caligola

Tra l’altro l’evoluzione autocratica del potere sembra essere il modo per dare soluzione alla crescente inquietudine sociale che affligge il tardo periodo repubblicano. Fra l’86 e l’82 a.c. si svolge la sanguinosa guerra civile fra Silla e Mario, che è di fatto la prosecuzione del conflitto di classe fra plebe e classe senatoriale, iniziata sotto i Gracchi, ed innescata dal problema della redistribuzione delle crescenti ricchezze terriere acquisite con l’espansione militare romane, e di conseguenza dal problema della redistribuzione del potere politico fra le istituzioni rappresentanti la nobiltà e quelle rappresentanti la plebe (nonché dal problema connesso dell’estensione della cittadinanza romana, e dei relativi privilegi, anche ai popoli non romani, e non italici, sottomessi). Fra 49 e 44 a.c. esplode la guerra civile fra Cesare e Pompeo, rappresentante, quest’ultimo, degli interessi del patriziato senatoriale (ovvero della fazione degli Optimates). Fino al 31 a.c., si combattono guerre civili che rappresentano la conseguenza dell’omicidio di Giulio Cesare, e che solo Ottaviano riesce a domare definitivamente.
Tuttavia, il prezzo di aver riportato l’ordine a Roma sarà pagato con un radicale cambiamento di regime politico. La già citata militarizzazione della vita economica e politica romana, associata alla consapevolezza che il vecchio ordine repubblicano non era più in grado di dare rappresentanza pacifica al conflitto di classe fra plebe e patriziato, condusse Ottaviano a stipulare un compromesso con il Senato e quindi con i patrizi, che formalmente mantenesse in vita le vecchie istituzioni repubblicane, e sostanzialmente conducesse ad un governo autocratico considerato come l’unico in grado di dare unità e coesione a Roma. Il Senato otteneva in cambio la propria sopravvivenza, sia pur come organismo sostanzialmente consultivo, la plebe otteneva una politica sociale più generosa, fatta di elargizioni di grano e nuove opere pubbliche che ne migliorassero la qualità della vita, oltre che una politica fatta di costosi spettacoli gladiatori e circensi, a beneficio del divertimento collettivo.
Benché il princeps, formalmente, sia solo un primus inter pares, e derivi ancora, sempre formalmente, la sua autorità dalla delega senatoriale (ma di fatto il Senato si limita a ratificare la nomina del successore designato dal princeps stesso), egli è capo militare e religioso, gode della tribunicia potestas, ovvero il potere su tutta la pubblica amministrazione ed il diritto di veto sugli atti promulgati dal Senato, nonché il diritto di emanare, senza controllo senatoriale, decreti ed editti, ovvero norme giuridicamente vincolanti. Inoltre, il princeps, sedendo in Senato, di fatto impone la sua volontà ai senatori, rendendola legge, benché formalmente questa sia ancora promulgata sotto la forma del senatoconsulto, ovvero di un atto di promulgazione senatoriale e non imperiale. D’altra parte, il reato di lesa maestà, introdotto da Tiberio, successore di Ottaviano, gli consente di epurare senza ostacoli i senatori non disposti a ratificare il senatoconsulto suggerito dal princeps. Al Senato restano soltanto funzioni giurisdizionali (operando come tribunale di appello, o come tribunale amministrativo nei confronti di governatori provinciali o degli stessi membri del Senato che si fossero resi responsabili di qualche reato) di normazione in campo religioso ed in alcune materie sociali, e una competenza consultiva nei confronti delle decisioni del princeps.
In questo contesto va inserita la vicenda storica e umana di Caligola. Il suo governo ha una importanza storica notevole, poiché, dopo che il compromesso fra vecchie classi ed istituzioni repubblicane e nuova autocrazia dinastica aveva resistito bene con i suoi predecessori Ottaviano e Tiberio, con Caligola i nodi di tale complesso compromesso vengono al pettine, e si avvia lo scontro frontale fra principe e Senato, che porterà all’esaurimento degli ultimi resti del repubblicanesimo, ed all’instaurazione dell’impero. Il profilo psicologico di Caligola è ovviamente impossibile da tracciare, con le pochissime informazioni che abbiamo su di lui, e con la distorsione delle stesse operata, maliziosamente, dallo storico Svetonio. Però quello che emerge non sembra affatto il ritratto di un folle delirante, ma di un politico estremamente autoritario e privo di scrupoli, con un suo disegno, perseguito anche con una fredda, quasi sadica intelligenza (che si appalesa anche tramite un senso dell’umorismo e dell’ironia feroce nei confronti dei suoi avversari), mirato ad accrescere il suo potere personale ai danni del Senato e delle classi patrizia ed equestre. Il principato di Caligola, per quanto breve, è quindi un punto di snodo fondamentale nella storia di Roma.

Prima della presa di potere
Certamente l’infanzia e l’adolescenza di Caligola sembrano fatte su misura per costruire un carattere intelligente, ambizioso, autoritario e crudele. Terzo dei nove figli di Germanico, uno dei generali romani più di successo e maggiormente amati dal popolo di tutta la storia romana, colui che inflisse alle tribù germaniche una sconfitta talmente cocente da pacificare e stabilizzare per decenni la sempre pericolante frontiera dell’impero con la Germania, che fu addirittura in grado di riportare in patria due delle tre aquile legionarie perse durante la disastrosa strage di Teutoburgo, che ricondusse all’ordine le province orientali, probabilmente Caligola soffrì del classico complesso di inferiorità nei confronti di un padre così famoso ed amato. Complesso probabilmente aumentato dalle aspettative che i genitori collocavano sulle sue fragili spalle di bambino (ad appena sei anni pronuncia un discorso pubblico).

Busto di Germanico, padre di Caligola

Tale complesso può aver creato il conseguente desiderio di emulare la grandezza del padre, che lo rese così ambizioso. D’altro canto, la madre, Agrippina Maggiore, era donna altrettanto carismatica, e quando Germanico morì, con Caligola che aveva 7 anni (peraltro la morte di Germanico creò un enorme scandalo con risvolti giudiziari, per il sospetto, non provato, che fosse stato avvelenato da Tiberio, ovvero dallo zio adottivo di Caligola), non soltanto riuscì a preservarlo dalle più che probabili vendette di Tiberio, ma divenne anche una figura di riferimento per la plebe romana avversa a Tiberio stesso, capeggiando una fazione ostile al princeps, che per tutta risposta, non potendola assassinare per via del prestigio di cui godeva presso il popolo, la segregò nell’isola di Ventotene, facendola morire di inedia, che Caligola aveva 21 anni. La devozione con cui Caligola, una volta divenuto imperatore, raccolse i resti della madre e li fece tumulare nel mausoleo di Augusto, potrebbe andare oltre la normale pietà filiale, ed indicare un attaccamento morboso ad una figura materna che, di fatto, gli aveva salvato la vita, e lo aveva condotto al potere. Non è raro che figli il cui sviluppo maschile è stato ostacolato da una figura materna troppo protettiva sviluppino per compensazione una particolare, feroce forma di ambizione collegata ad una crudeltà ai limiti della disumanità. Naturalmente, l’aver vissuto i primi anni dell’infanzia negli accampamenti militari, a contatto con la durezza e la ferocia delle guerre (il suo soprannome gli fu affibbiato dai legionari, e trae spunto dalla caliga, il sandalo militare) ma anche aver vissuto come ospite nella villa di Capri di Tiberio, a partire dal 31, proprio mentre lo stesso Tiberio metteva a morte l’adorata madre ed il fratello Druso Cesare (ed aver assistito quotidianamente agli eccessi ed alle crudeltà cui Tiberio si abbandonava nella famigerata villa) lo devono aver abituato alla crudeltà ed all’intrigo come elementi normali della vita. Sappiamo che nel 31 Tiberio, mentre gli massacrava la famiglia, e dopo avergli, forse, assassinato anche il padre, lo nominò pontefice, e due anni dopo questore, evidentemente come ricompensa per aver ripudiato il legame con la madre, ed essersi sottomesso a Tiberio stesso. Questo episodio indica chiaramente una intelligenza fredda, cinica fino all’eccesso, calcolatrice ed opportunista.

Agrippina Maggiore, madre di Caligola


Alcuni storici presumono, sulla base però di indizi e non di prove convincenti, che Caligola fosse affetto da una forma di epilessia, che in qualche modo potrebbe giustificare gli accessi di ira che gli storici gli attribuiscono. Questo sia perché l’epilessia era presente in altri membri della sua famiglia, sia perché, forse, alcune tracce di sintomi caratteristici possono essere desunte dal seguente passo di Svetonio: “soggetto ad attacchi di epilessia durante la sua infanzia, divenuto adolescente, era abbastanza resistente alle fatiche, ma qualche volta, colto da un'improvvisa debolezza, poteva a mala pena camminare, stare in piedi, riprendersi e sostenersi”. Tuttavia, in genere, l’epilessia non grave tende a scomparire dopo l’adolescenza, per cui non si può dimostrare con certezza che soffrisse di tale disturbo anche in età adulta. Certamente emerge l’immagine di un uomo tormentato dalla sua psiche: sempre secondo Svetonio, era affetto da insonnia, e quando dormiva aveva incubi. Un elemento che può forse essere indicativo di una psicosi, però sempre dando credito alle poco credibili affermazioni di Svetonio, è l’incubo ricorrente secondo cui Caligola si vedeva a colloquio con lo “spettro del mare”. Si sa che il mare è un potente simbolo dell’inconscio, e il suo “spettro” potrebbe essere rappresentativo di episodi di “invasione psicotica”, quando cioè elementi archetipici dell’inconscio invadono la coscienza dell’Io, sommergendola e devastandola. Naturalmente, però, occorre fidarsi di Svetonio, per fare simili affermazioni.

L'imperatore Tiberio


La prima fase del principato: l’idillio
E’ altresì possibile che la follia, se di follia si possa parlare, sia intervenuta soltanto in un secondo momento. In effetti, l’inizio del principato di Caligola è eccellente, assolutamente brillante. Tiberio muore nel 37, indicando nel suo testamento come successori al trono lo stesso Caligola ed il nipote Tiberio Gemello, di cinque anni più giovane del Nostro. Ma Caligola, stando alla corte di Tiberio, e grazie agli incarichi che lo zio gli aveva conferito (pontefice, successivamente questore, nonché console) si era fatto una cerchia di amici molto potenti, fra cui diversi re tributari di Roma, come Erode Agrippa, re di Giudea, ed i principi Traci Polemone II, Rhoimetalkes e Kotys III, che gli garantivano il controllo della periferia dell’impero. Inoltre, seducendone la moglie, era riuscito ad entrare nella cerchia di Macrone, uomo potentissimo, nominato prefetto del Pretorio da Tiberio, che di fatto era il comandante della guardia pretoriana ed il plenipotenziario, a Roma, di Tiberio, che risiedeva stabilmente a Capri. Questa amicizia fu fondamentale per Caligola, poiché Macrone impose al Senato, con la forza della spada dei suoi pretoriani, l’annullamento del testamento di Tiberio, e la nomina del solo Caligola come suo successore. In pratica, a soli due giorni dalla morte di Tiberio, il Senato ne straccia le ultime volontà e nomina Caligola princeps. Contestualmente, al fine di togliergli ogni legittimità a richiedere la successione, Caligola adotta come figlio il giovane Tiberio Gemello, per poi condannarlo a morte, l’anno dopo, accusandolo di una presunta congiura contro di lui.
Certamente in tale fulminea ascesa al trono gioca molto il fatto che Caligola sia figlio dell’amatissimo Germanico, e che quindi la plebe proietti su di lui l’adorazione che provava per Germanico stesso, così come il fatto che le legioni abbiano fiducia di un uomo cresciuto fra loro, però la fulminea ascesa di Caligola è il frutto, evidentemente, di una mente politica sottile, che ha saputo sopravvivere nell’ambiente del vecchio Tiberio, che ha saputo tessere le relazioni giuste con le persone giuste, che ha saputo muoversi al momento giusto e con i tempi giusti.
L’inizio del governo di Caligola è in effetti eccellente: si produce in generose elargizioni alla plebe, all’esercito ed ai pretoriani, abbassa la pressione fiscale, abolendo alcune imposte, come la tassa sulle compravendite, ripristina l’elezione popolare dei magistrati, ridando quindi voce alla plebe, abolisce il reato di lesa maestà, di fatto riconsegnando quindi al Senato una autonomia rispetto alle proposte di legge formulate dal princeps (che, come si è detto, veniva di fatto soffocata dal rischio di essere accusati, se dissenzienti rispetto all’imperatore, di lesa maestà). Irrobustisce il suo controllo sulle province periferiche, nominando a capo di Stati clienti di Roma i giovani principi traci conosciuti in gioventù (Polemone II, Rhoimetalkes, Polys) e l’amico Erode Agrippa, nonché Antioco IV, mentre esilia o manda a morte alcuni re, di Stati alleati, considerati inaffidabili. Procede alla riabilitazione di tutti i condannati e gli esiliati del periodo di Tiberio. Riabilita gli scritti di Tito Labieno, Cremuzio Cordo e Cassio Severo, in precedenza proibiti dal Senato, ripristina la pubblicazione delle statistiche imperiali, abbandonate da Tiberio, concede ai magistrati la facoltà di giudicare inappellabilmente, privandosi del suo ruolo di giudice di seconda istanza, risarcisce le vittime di incendi, organizza giochi gladiatori e corse di carri (la sua vera passione personale), epura dall’ordine equestre personaggi notoriamente macchiatisi di crimini infamanti. Investe in alcune opere pubbliche di immediato sollievo per la qualità della vita della plebe (acquedotto di Tivoli, che sarà poi completato da Claudio) e realizza o porta a termine alcuni monumenti, teatri e templi, nonché una sontuosa villa all’Esquilino.
Ad un certo punto, però, dopo il primo anno di regno, la musica cambia completamente, ed in modo assolutamente repentino ed imprevedibile. A gennaio del 38, manda a morte il suo ex alleato Macrone, con la moglie, dopo averlo accusato di un complotto, ed al contempo manda a morte anche l’ex aspirante al regno Tiberio Gemello, che inizialmente aveva adottato come figlio. Reagisce in maniera eccessiva alla morte della sorella Drusilla, divinizzandola. Ripristina il reato di lesa maestà ed accusa il Senato di complotto ai suoi danni. Inizia così una lunghissima fase di vera e propria guerra contro la classe patrizia e senatoria, con decine di senatori, consoli e funzionari imperiali condannati e passati per le armi, e continui atti di umiliazione nei confronti del Senato, che rivelano una natura sarcastica, dall’umorismo feroce, cupo. Nomina senatore il suo cavallo da corsa preferito, per dimostrare il suo disprezzo nei confronti dei senatori, li costringe a seguirlo a piedi mentre attraversa la città con la sua lettiga, li minaccia apertamente di morte quando li invita presso il suo desco, per banchetti o pasti ufficiali. E’ chiaro che è in atto un conflitto di potere: il giovane princeps vuole diventare imperator, cancellando ogni residua autonomia del Senato, e l’abitudine che assume di presentarsi in pubblico vestito di sontuosi abiti orientaleggianti, o la pretesa di essere divinizzato (Nel 38 fece introdurre una propria statua nei luoghi di culto di tutte le religioni dell'impero, comprese le sinagoghe), non sono necessariamente sintomi di follia, quanto piuttosto abili mosse politiche per imporsi alle masse con l’immagine di un imperatore orientale, dotato quindi di potere assoluto, considerando il fatto che nell’immaginario collettivo dei popoli antichi l’imperatore era dotato di attributi divini.

L'adorata sorella Drusilla

C’è chi vede nell’improvvisa svolta del principato, da una prima fase liberale e idilliaca alla seconda fase, repressiva ed autoritaria, il segno del definitivo impazzimento di Caligola. Alcuni storici, addirittura, mettono in relazione tale svolta con la misteriosa malattia che colpisce Caligola nei primissimi mesi del suo regno: fra settembre ed ottobre del 37, infatti, egli cade malato, e poiché è ancora nella fase di idillio con il popolo romano, Svetonio racconta di grandi manifestazioni pubbliche per la sua guarigione. Secondo alcuni storici, infatti, la misteriosa malattia di Caligola sarebbe il saturnismo, una intossicazione da piombo attribuibile al rivestimento plumbeo con cui venivano realizzati gli otri in cui, a quei tempi, si custodiva il vino. Tale malattia provocherebbe infatti anche effetti neurologici e psichiatrici, come l’eccessiva irritabilità e disturbi nella coordinazione dei movimenti. Tale teoria è però altamente improbabile. Intanto, dopo la guarigione dalla malattia, Caligola prosegue ancora per altri 3-4 mesi mesi nelle sue politiche liberali e popolari (l’abolizione della tassa sulle compravendite avviene dopo la guarigione). Inoltre, il saturnismo conduce quasi sempre all’impotenza sessuale, ma i racconti di Svetonio ci dipingono un principe piuttosto attivo sessualmente, con mogli di senatori ed amanti varie. E’ invece molto più probabile che la svolta di Caligola derivi dallo smascheramento di un complotto ai suoi danni. Occorre ricordare che l’altro pretendente al trono, Tiberio Gemello, è ancora vivo, e potrebbe covare qualche ambizione. Il Senato sicuramente non ha apprezzato l’idea di restituire alla plebe la possibilità di eleggere i magistrati, e le frange più reazionarie del patriziato non vedono di buon occhio la spesa profusa da Caligola per elargizioni alla plebe, che rischia di tradursi in un esaurimento delle casse dello Stato ed in una conseguente maggiore pressione fiscale sui possidenti ed i ricchi. A sostegno della tesi di una reazione ad un complotto, vi è che Macrone, Flacco e Tiberio Gemello vengono accusati e fatti uccidere praticamente quasi contemporaneamente, e che la reintroduzione del reato di lesa maestà, per rimettere il morso al Senato, viene approvata, insieme ad una denuncia formale di un tentativo di complotto, proprio nello stesso periodo in cui i tre vengono giustiziati.

Tiberio Gemello


La seconda fase del principato: la repressione politica e le avventure militari
Vedendo il suo potere pericolante per i complotti di una classe patrizia troppo reazionaria per apprezzare le politiche liberali e popolari che cerca di mettere in campo, Caligola imprime quindi una svolta autoritaria e repressiva al suo principato. Consapevole del fatto che un imperatore deriva la sua autorità soprattutto dall’effettuazione di campagne militari vincenti, si lancia in una avventura militare, con il proposito di conquistare la Britannia, allora abitata da combattive tribù celtiche, al solo fine di accrescere il suo prestigio e potere personale nei confronti del Senato. Inoltre, Caligola ha l’esigenza, come prestigio, di mantenersi all’altezza del padre Germanico, e dei suoi incredibili successi militari. Prepara la campagna, molto utile dal punto di vista strettamente economico, poiché, benché la campagna di Giulio Cesare, oltre 90 anni prima, avesse assoggettato numerose tribù britanne all’influenza di Roma, non aveva ottenuto un dominio territoriale stabile, che era peraltro costantemente minacciato da altre tribù, più settentrionali e non controllate da Roma. La Britannia è importante economicamente per Roma, poiché fornisce metalli, gioielli, carbone, e già Ottaviano, 12 anni prima della campagna di Caligola, aveva tentato di invadere stabilmente tale terra, ma la sua campagna era abortita. Caligola, quindi, desideroso di procurarsi metalli preziosi e gioielli, per rimpolpare le casse imperiali prosciugate dal suo stile di vita sontuoso e stravagante (fa costruire, per il suo cavallo da corsa preferito, una stalla in marmo ed oro, costruisce nel lago di Nemi due navi enormi, sontuosamente rivestite di marmo, porfido, oro, e decorate riccamente, da utilizzare esclusivamente per feste e ricevimenti) dagli enormi spettacoli circensi che offre al popolo (egli stesso, appassionatissimo delle corse dei carri, si esibisce spesso come auriga nel Circo Massimo, ma inventa anche divertimenti stravaganti, come la volta in cui fa costruire un ponte di barche fra Baia e Pozzuoli, al solo scopo di attraversarlo con i suoi pretoriani e la sua corte, bardato come un imperatore orientale, per farsi ammirare dal popolo all’apice del suo splendore) e dai progetti di opere pubbliche messi in atto, decide di pareggiare i conti con il padre Germanico, e superare Giulio Cesare, conquistando definitivamente la Britannia.

Ricostruzione di una nave di Nemi


La campagna viene preparata in modo meticolosissimo, raccogliendo vettovaglie da tutto l’impero, e mettendo su un esercito enorme, fra 200 e 250 mila uomini. Marciando verso la costa settentrionale della Francia, nel 39 passa dal confine germanico, reprimendo duramente una rivolta di legioni. Ma, giunto sulle coste della Manica, rinuncia all’improvviso all’impresa, limitandosi a ricevere la sottomissione di Adminio, il figlio di Cinobellino, re dei Britanni, che, scacciato dal padre, si era rifugiato presso di lui con un'esile scorta, in modo da far passare la rinuncia a realizzare l’impresa militare come una vittoria. Raccolti infatti alcuni poveracci per farli passare come schiavi di guerra, scrive a Roma che la sua impresa è stata coronata da trionfo, pretendendo che al suo ritorno gli fossero tributati gli onori di guerra.
Proprio a conclusione di questa campagna abortita, Svetonio racconta una famosa storia che dovrebbe avallare l’ipotesi della follia di Caligola. Arrivato davanti alle coste galle, infatti, anziché ordinare ai suoi soldati di approntare navi per attraversare la Manica, dice loro di raccogliere le conchiglie da terra, riempiendosene gli elmi. In realtà, è molto probabile che tale fatto, se mai si è realmente svolto, sia da attribuire ad una forma originale di punizione per soldati ritenuti troppo poco fedeli e poco combattivi. Svetonio, infatti, ci narra di episodi (ufficiali congedati o degradati, premi ridotti) che ci lasciano credere che, molto probabilmente, l’impresa di Caligola abortisce perché il suo esercito gli si ribella contro. L’ordine dato ai soldati di raccogliere conchiglie potrebbe quindi essere, in linea con l’umorismo sarcastico di tale personaggio, un modo per sbeffeggiarli ed umiliarli. Un altro motivo per abbandonare la campagna militare è che in sua assenza, a Roma, il Senato monta una cospirazione contro di lui, e peraltro si rifiuta di tributargli gli onori, come da lui richiesto. Venuto a sapere della cosa, decide infatti di tornare, ma proclamando, tetro, “verrò, verrò, ma questa verrà con me”, mentre tocca con la mano l’elsa della sua spada. Nell’accingersi a tornare a Roma, proclama anche quella che è una vera e propria dichiarazione di guerra contro il patriziato e il Senato. Dirà infatti “torno, ma soltanto per coloro che lo desiderano, per l'ordine equestre e per il popolo, giacché ormai per il Senato non sarò più né un cittadino né un principe”.

Moneta coniata durante il principato di Caligola, con suo volto su una faccia, e l'effigie della dea Vesta sull'altra

Il declino e la fine
Purtroppo per lui, però, Caligola sbaglia i suoi conti. Non è più, come nei primi giorni del suo principato, il paladino della plebe e degli equites contro la prepotenza dei senatori. Il suo fallimento come generale lo pone crudelmente in un confronto perdente con la memoria dell’illustre padre, ed evidentemente, come dimostra il misero fallimento della sua tentata campagna britannica, l’esercito non lo rispetta più. L’impossibilità di raddrizzare l’erario dello Stato con nuove conquiste militari lo costringe ad innalzare la pressione fiscale, che inizialmente aveva ridotto. Istituisce infatti tasse di ogni sorta, attirandosi l’odio del popolo. Secondo Svetonio, nell’ultima parte del regno di Caligola, “sui commestibili venduti in tutte le città venivano riscossi diritti rigorosamente determinati; sui processi e sulle cause, in qualsiasi luogo intentati, si prelevava la quarantesima parte della somma in questione e si comminava una sanzione contro chiunque, prove alla mano, avesse concluso un affare o vi avesse rinunciato. I facchini dovevano versare l'ottava parte dei guadagni giornalieri, le prostitute ciò che guadagnavano da una visita e al relativo articolo della legge si aggiunse un emendamento per il quale erano tenuti a pagare la tassa sia le prostitute, sia i lenoni e anche chi aveva contratto matrimonio”. Inizia a rifiutare la concessione della cittadinanza romana agli italici che la richiedono, violando quindi le leggi che, in tarda epoca repubblicana, concedevano la cittadinanza a tutti i popoli italici e della Gallia Cisalpina, perché la cittadinanza romana comporta notevoli benefici fiscali.
Quando rientra a Roma, il 31 agosto del 41, rinuncia a farsi tributare un ingiustificato trionfo, probabilmente come esito della negoziazione che intrattiene, durante il viaggio di ritorno, con numerose delegazioni senatoriali. Viene quindi accolto con una semplice ovazione, un tributo molto meno prestigioso del trionfo, e significativamente, a testimonianza dell’aria che tira, non vuole che nessuno dei senatori gli venga incontro. E’ oramai un sovrano in declino, odiato dall’intero arco sociale. Non basta a raddrizzare la sua sorte l’abile manovra politica con cui, durante il viaggio di ritorno dal Nord Europa, riesce a sedare una ribellione in Mauritania, facendo giustiziare il re Tolomeo e proclamando tale territorio provincia romana (eliminandone quindi lo status di autonomia), ed a assicurarsi la fedeltà dell’inquieto territorio di Galilea, esiliandone il re, Erode Antipa, a favore del suo fedele amico, Erode Agrippa. Gli rimarranno soltanto poco meno di cinque mesi da vivere, cinque mesi segnati da una scia di sangue spaventosa, con la quale cerca di eliminare i suoi nemici in Senato. Conscio del fatto che Roma non è più un luogo sicuro per lui, cerca di imitare lo zio Tiberio, e medita di trasferirsi stabilmente nella sua città natale, Anzio, o addirittura ad Alessandria d’Egitto, facendone la nuova capitale imperiale. Questo è troppo per i cittadini romani, che si vedrebbero privati dei loro privilegi.
Il complotto finale viene ordito il 24 gennaio del 41. I senatori ed i cavalieri si affidano a due tribuni della guardia pretoriana di origine patrizia, Cassio Cherea e Cornelio Sabino, che proprio per la loro origine patrizia vengono continuamente derisi da un imperatore in guerra contro tale classe sociale (Svetonio afferma che Caligola trattasse Cassio Cherea come un effeminato, affibbiandogli il soprannome di “Venere”). Viene scelto, come luogo dell’agguato, il circo in cui si tengono i giochi palatini, presieduti da Caligola stesso. Ecco il racconto degli ultimi istanti di vita di Caligola, fatto da Svetonio: “poiché esitava a lasciare il suo posto per andare a mangiare, in quanto il suo stomaco era ancora appesantito dal pasto del giorno precedente, alcuni amici, con i loro consigli, gli fecero prendere la decisione di uscire. In un ridotto, per il quale doveva passare, si stavano preparando alcuni ragazzi nobili che erano stati fatti venire dall'Asia per esibirsi sulla scena. Egli si fermò per vederli e per incoraggiarli e se il capo della compagnia non si fosse lamentato di aver freddo sarebbe tornato indietro e li avrebbe fatti esibire subito. A questo punto si hanno due versioni. Secondo alcuni, mentre egli si intratteneva con questi ragazzi, Cherea lo ferì gravemente al collo, colpendolo alle spalle con il taglio della spada e gridando: «Fa' questo!» poi il tribuno Cornelio Sabino, un altro congiurato, assalendolo di fronte, gli trafisse il petto; secondo altri Sabino, fatta allontanare la folla dei centurioni che erano al corrente del complotto, domandò a Caligola la parola d'ordine, secondo l'usanza militare, e questi rispose «Giove»; allora Cherea gridò: «Prendilo per valido!» e mentre l'imperatore si voltava verso di lui, con un colpo gli fracassò la mascella. Steso per terra, le membra raccolte su se stesso, egli continuava a gridare che viveva ancora, ma gli altri congiurati lo finirono con trenta colpi, giacché il grido di tutti era: «Insisti!» Alcuni gli immersero il ferro anche negli organi genitali”. Anche la moglie Milonia Cesonia viene uccisa e, a testimonianza della inutile crudeltà dei congiurati, sua figlia, di appena due anni, Giulia Drusilla, viene uccisa schiacciandole la testa contro il muro, benché fosse improbabile che, lasciata vivere, una donna avrebbe avuto la possibilità futura di vendicarsi.
Ho voluto riportare l’episodio dell’uccisione di Caligola per intero, nella sua crudeltà anche inutile, per evidenziare come non vi fosse alcuna superiorità morale da parte dei suoi assassini. Caligola è stato un dittatore sanguinario e repressivo, ma il patriziato, ed i cavalieri, non erano in nessun modo migliori di lui, e non si fecero scrupoli a versare sangue innocente per preservare il proprio declinante potere.

Conclusione
Caligola fu un principe molto autoritario, certamente un carattere duro, sferzante, crudele, persino nel suo cupo e sarcastico umorismo, un uomo cresciuto nel sangue e nella durezza di una famiglia celebre e sventurata e di premature esperienze di violenza e di intrigo politico. Tutto sommato non fu un grande statista e certamente nemmeno un buon comandante militare, ma quasi sicuramente non il folle delirante che gli storici patrizi dipinsero. Dimostrò anzi abilità relazionale ed astuzia nel sopravvivere alle dipendenze di uno zio come Tiberio, che gli massacrò tutta la famiglia, ed a farsi nominare principe. Fu molto probabilmente anche un abilissimo “comunicatore”: i suoi giochi stravaganti, le sue pretese di divinizzazione, le iniziali liberalità con la plebe, erano evidentemente abili manovre politiche per rafforzare il suo prestigio. Le informazioni e gli aneddoti che vorrebbero dipingerlo come un folle, in realtà, trovano quasi sempre una spiegazione razionale nel quadro di una dura lotta politica o di un carattere duro e sarcastico.
Il suo regno, per quanto breve, è di importanza storica assoluta, perché segna la rottura della tregua fra nascenti istituzioni imperiali (il principato) e morenti istituzioni repubblicane (il Senato) voluta da Ottaviano e proseguita da Tiberio. Sebbene i senatori fossero riusciti ad eliminare fisicamente Caligola, che evidentemente stava tentando di trasformarsi in un imperatore dai poteri assoluti, il suo successore Claudio, creando una nuova classe sociale di burocrati ed amministratori pubblici non provenienti dal patriziato e dalla classe equestre, e direttamente sotto il controllo del princeps, elimina definitivamente ogni residuo di potere senatoriale sull’apparato dello Stato. Vespasiano, alla fine di una lunghissima fase di instabilità politica, 32 anni dopo la morte di Caligola, riforma il Senato, eliminandone la residua autonomia, e di fatto diviene il primo imperatore romano a tutti gli effetti, superando per sempre il compromesso del principato.