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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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venerdì 16 agosto 2013

Rifondazione verso il Congresso : documento degli "autoconvocati" di Roma

Riceviamo e volentieri pubblichiamo nell'ottica di favorire il dibattito nella Sinistra ...


“Aqui no se rinde nadie!”.
Proposta di discussione dei gruppi di lavoro autoconvocati dei comunisti e delle comuniste di Roma
(Roma, 14-30 giugno 2013)      

Minima moralia
di Bertolt Brecht

L’ingiustizia oggi cammina con passo sicuro.
Gli oppressori si fondano su diecimila anni.
La violenza garantisce: com’è, resterà.
Nessuna voce risuona tranne la voce
di chi comanda,
e sui mercati lo sfruttamento dice alto:
solo ora io comincio.
Ma fra gli oppressi molti dicono ora:
quel che vogliamo non verrà mai.

Chi è ancora vivo non dica: mai!
Quel che è sicuro non è sicuro.
Com’è, così non resterà.
Quando chi comanda avrà parlato
parleranno i comandati.
Chi osa dire: mai?
A chi si deve se dura l’oppressione? A noi.
A chi si deve se sarà spezzata? Sempre a noi.
Chi viene abbattuto, si alzi!
Chi è perduto, combatta!
Chi ha conosciuta la sua condizione,
come lo si potrà fermare?

Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani
E il mai diventa: oggi!


Indice:

1. Le elezioni e noi comunisti/e.................................................................................................... 2
2. Un Partito nuovo parte e avanguardia della classe: rifondare la coscienza di classe mentre rifondiamo anche il Partito........................................................................................................................................... 2
3. La democrazia comunista come pre-condizione necessaria..................................................... 3
4. La crisi del capitalismo............................................................................................................. 5
5. La gestione capitalistica (non la soluzione!) della crisi............................................................ 6
6. I nostri rapporti con il “centrosinistra” (ovvero: la fine di un antico problema, spazzato via dai fatti della crisi capitalistica)................................................................................................................................. 7
7. La fine del modello di Partito “istituzionale-burocratico”....................................................... 9
8. I “tre cerchi” concentrici: la costruzione del Partito comunista, la costruzione del fronte anticapitalista-antiliberista, la costruzione del fronte popolare a difesa della Costituzione.............................. 10
10. Conclusioni.......................................................................................................................... 12


1. Le elezioni e noi comunisti/e

La sconfitta dei/lle comunisti/e e della sinistra di opposizione nelle elezioni del 2013 rappresenta evidentemente un punto critico e di svolta che richiede ancora una volta la mobilitazione di tutte le energie positive di cui disponiamo.
            Diciamo “ancora una volta”, perché fu solo la mobilitazione generosa e intelligente del popolo dei/lle militanti comunisti/e che ci permise di tenere aperta la prospettiva del comunismo critico nel lungo inverno degli anni ’80, che nei primi anni Novanta ci permise di reagire allo sciagurato scioglimento del PCI rilanciando il processo della rifondazione comunista, che successivamente ci permise di resistere sempre alle ricorrenti scissioni, le quali (e non per caso) sono sempre provenute “dall’alto”, cioè da frazioni significative dei gruppi dirigenti istituzionali, fino all’ultima scissione di Vendola e di SEL, e quasi sempre sullo stesso tema: il rapporto con il centrosinistra e la prospettiva della governabilità.
            Non ci deve spaventare dunque la sconfitta elettorale in sé, meno che mai essa deve condurci alla demoralizzazione o all’abbandono: “Aqui no se rinde nadie!”.
            Anche in altre fasi della loro grande storia i comunisti e le comuniste hanno conosciuto gravi sconfitte, ancora più drammatiche della nostra, nonché fasi di emarginazione e isolamento; da queste però sono sempre riusciti a riemergere rilanciando la loro proposta e la loro presenza nella società italiana sulla base di una rinnovata analisi del capitalismo e dei compiti dei rivoluzionari: è quanto, ad esempio, i/le comunisti/e seppero fare, lungo la strada indicata da Gramsci, a fronte della più grave sconfitta della nostra storia, il fascismo, da cui uscimmo vittoriosamente, appunto grazie a una nuova analisi della società italiana e a una nuova linea politica: fu questo che ci permise prima di tenere duro, poi di dare vita alla Resistenza e di conquistare la Costituzione.
            Una rinnovata analisi del capitalismo e dei nostri compiti di rivoluzionari/ie, una nuova analisi della società italiana e una nuova linea politica: ecco quello che dobbiamo fare anche noi oggi che siamo solo dei nani rispetto ai giganti della tradizione comunista, il cui apporto dobbiamo saper valorizzare e riattualizzare senza gettarlo nella pattumiera della storia.
            Ciò che ci deve spaventare è dunque soltanto che, per inerzia o rassegnazione, si confermino nei Partiti comunisti, nella sinistra anticapitalista, fra i/le comunisti/e senza Partito gli errori teorici e politici e i comportamenti sbagliati che ci hanno portato prima al lungo declino degli anni 2000 e poi alla sconfitta del 2013. Ciò che ci deve spaventare è la chiusura in sé stessi dei nostri gruppi dirigenti e la loro tendenza all’autoconservazione, anche dopo che essi hanno purtroppo dimostrato coi fatti la loro totale inadeguatezza. Ciò che ci deve spaventare è la rassegnazione e il silenzio della base militante comunista. Ciò che ci deve spaventare è la dispersione dei/lle comunisti/e.
            Ciò che ci deve spaventare è che tutto resti come prima.

2. Un Partito nuovo parte e avanguardia della classe: rifondare la coscienza di casse mentre rifondiamo anche il Partito.

Un Partito parte integrante  e trainante della classe, e non solo suo idealistico “organo”, è dunque quello che ci serve. Un tale Partito nuovo, che dobbiamo costruire, è assolutamente necessario affinché noi possiamo mettere mano al nostro vero compito storico che è rifondare la coscienza di classe del proletariato (cioè: trasformare i lavoratori dipendenti, ridotti dal capitalismo a essere solo merce fra le merci, in una classe sociale cosciente di sé e capace di lottare per l’egemonia sull’intera società), e ciò va fatto nella attuale e inedita situazione produttiva: occorre rifondare il proletariato nello stesso tempo in cui rifondiamo anche il Partito.
            L’attuale frammentazione della nostra classe, indotta intenzionalmente e con successo dal dominio capitalistico, può essere contrastata e rovesciata solo da un Partito capace di vivere e lottare innanzitutto nei posti di lavoro, di costruire a partire dallo sfruttamento la coscienza delle contraddizioni, la coscienza anticapitalistica, la coscienza politica e, dunque, l’organizzazione politica autonoma del nuovo proletariato: il nuovo Partito Comunista.
            Tutto ciò si deve riferire, evidentemente, all’attuale riconfigurazione della nostra classe di riferimento. Senza mai trascurare o abbandonare (come il pensiero radicale ci invita da decenni a fare) la classe operaia delle fabbriche o quella ancora concentrata nei trasporti, nei servizi, nel pubblico impiego, nel terziario, nella scuola, nell’università e nella ricerca, si tratta però adesso di riconnettere questi spezzoni di classe in una nuova presenza diffusa e organizzata dei comunisti nei luoghi del lavoro precario e precarizzato, nel lavoro part-time e a (false) partite IVA, nelle catene infinite del sub-appalto e delle “esternalizzazioni”, nelle cooperative più o meno vere e “sociali”, insomma nelle mille e mille forme in cui sembra realizzarsi attualmente l’antico e reazionario sogno padronale di serializzare, parcellizzare e isolare da sé stesso il lavoro dipendente, per dominarlo. In questo sforzo una delle priorità è rappresentata per noi dal lavoro dei/delle immigrati/e: è questo un volto nuovo di tanta parte del proletariato con cui non abbiamo attualmente nessun rapporto e che deve invece diventare già nell’immediato futuro non solo parte cospicua del Partito nuovo, ma possibilmente parte del suo nuovo gruppo dirigente. L’inchiesta sul lavoro a Roma, che come autoconvocati/e abbiamo avviato con l’assemblea operaia di Casal Bertone del 25 maggio, è l’inizio concreto di questo progetto.
            Ma per poter far questo, l’organizzazione del Partito deve poter aderire plasticamente alle nuove forme di organizzazione del lavoro, e a tal fine sembrano necessarie delle forme organizzative nuove e antiche al tempo stesso, cioè cellule o collettivi o nuclei comunisti (decidiamo insieme come chiamarli) in ogni luogo di lavoro e anche in ogni “ambiente” in cui vive la nostra classe. Ovunque ci sono almeno tre comunisti/e, lì sorga una cellula!
            I Circoli e le Sezioni territoriali, oltre a svolgere una funzione peculiare e preziosa di “Case del popolo” per favorire ogni forma di aggregazione popolare e di classe, dovranno fungere da luogo che annoda e coordina queste nuove, necessarie, istanze di base nelle quali rifonderemo una presenza comunista organizzata interna alla società capitalistica attuale. Questi luoghi popolari debbono, in questo senso, anche “fare cultura”: la gramsciana “riforma intellettuale” deve essere organica alla “riforma morale”.
            Una revisione razionale dei luoghi e delle forme del nostro insediamento organizzativo dunque si impone, assieme a una politica di “cura” attenta della vita dei nostri Circoli/Sezioni e del loro tesseramento (una cura che è totalmente, e colpevolmente, mancata i questi ultimi anni). Non può permettersi più che a Roma alcuni Circoli o Sezioni vivacchino senza alcun vero impatto sociale, magari a pochi metri da altri Circoli o Sezioni altrettanto deboli, mentre interi quadranti della città sono del tutto privi di un qualsiasi insediamento comunista. Si chiuda con coraggio dove si deve chiudere, si unifichi con coraggio la esigua forza organizzativa dei comunisti (cominciando dal PRC e dal PdCI ma aprendo anche alla vastissima diaspora dei senza tessera), e si aprano con coraggio ancora maggiore nuove sedi comuniste dove non siamo presenti! E diamoci come obiettivo di fase di breve periodo non la “conferma” del tesseramento (che permetterebbe ancora di vivacchiare, gestendo antiche situazioni sclerotizzate) bensì l’incremento delle tessere attuali, per costringere tutti noi a uscire finalmente dalle nostri sedi a vivere e a far vivere il nuovo Partito – come deve essere – “fuori di sé”.
            E già che osiamo parlare di obiettivi da perseguire urgentemente, una riflessione si impone sul nostro giornale: le recenti sconfitte elettorali ci hanno anche dimostrato (una volta di più!) la centralità dell’informazione, cioè la decisione spudorata dei nostri avversari di classe di usare il monopolio che essi hanno conseguito in questo campo come una micidiale arma contro di noi e dunque la necessità da parte nostra di dotarci di un autonomo sistema di informazione e di comunicazione: “Liberaroma” non può più essere abbandonato a se stesso e chiuso, e lo sforzo di “Liberazione” non può continuare ad essere ignorato dal grosso del nostro Partito: diamoci subito l’obiettivo di almeno 500 abbonamenti a Roma per la nuova “Liberazione” on line entro l’estate 2013.

3. La democrazia comunista come pre-condizione necessaria

In questa prospettiva il problema della democrazia non è un problema come tutti gli altri ma è la pre-condizione necessaria per poter affrontare qualsiasi problema di ricostruzione del Partito: la democrazia comunista è infatti il nome che prende la questione del rapporto contraddittorio che esiste fra classe e Partito e fra la base militante del Partito e i suoi vertici, a tutti i livelli di responsabilità.
            Un Partito verticale e verticistico, retto di fatto da anni da una immobile alleanza fra i piccoli (in tutti i sensi) ceti burocratici e istituzionali (o aspiranti tali) che si difendono a vicenda “lottizzando” gli incarichi col “manuale Cencelli” (come all’ultimo Congresso), un Partito che non verifica mai le effettive capacità di lavoro e i risultati ottenuti (sostituendo tale criterio comunista con le appartenenze correntizie o la “fedeltà” alle lobbies), un Partito che non discute mai e che vota (spesso sotto ricatto) solo in occasione dei Congressi, è anzitutto un Partito del tutto incapace di capire la società e di vivere dentro il conflitto di classe e, naturalmente, è anche un Partito del tutto incapace di rinnovarsi e radicarsi nel tessuto sociale. Va da sé quindi che un tale Partito non sia stato in grado di capire prima e di contrastare poi la terribile nuova frammentazione determinata dalle attuali forme dell’organizzazione capitalistica (toyotismo, filiere internazionali, estrenalizzazioni, delocalizzazioni, flessibilizzazione, etc.).
            Fra le principali sciagure delle attuali correnti (ormai degenerate in piccoli gruppi di potere personale) c’è anche il fatto di aver imposto al Partito compagni/e manifestamente incapaci di svolgere i loro incarichi dirigenti, senza che fosse possibile rimuoverli/e perché “designati” dai loro capi-corrente. Noi autoconvocati/e ci impegniamo a non ripercorrere questo errore, a non costituirci in corrente fra le correnti, ma al contrario a combattere con decisione e senza fare sconti a nessuno l’attuale struttura correntizia che ha ridotto le correnti a lobbies, a consorterie che tanto male ha fatto al Partito.
            Tutti i maggiori partiti comunisti della storia, in Russia come in Italia, erano costituiti da diverse frazioni che però funzionavano da centri di elaborazione del dibattito che poi era svolto e sintetizzato nelle istanze centrali, con mandati revocabili e verifiche costanti tra i militanti. Le attuali correnti però non sono nulla di tutto questo. Fuori dal garantire una auspicabile dialettica di impostazioni nel dibattito, hanno assunto le caratteristiche di cordate funzionali solo ad autopromuovere un proprio mini-gruppo dirigente senza nessuna connessione con l’autocritica e la verifica del lavoro e delle capacità, ma basate unicamente sulla cooptazione e promozione dall’alto dei fedelissimi al proprio apparato.
Per questi motivi la nostra battaglia contro le correnti è da intendersi unicamente per promuovere una rinnovata democrazia comunista, cioè basata sulla più ampia partecipazione e discussione e su sntesi politiche comuni per tutti (il centralismo democratico). Oggi come al tempo della Comune di Parigi e come nei momenti più alti del movimento comunista, questi sono i principii da mettere in atto fino da ora:
- pratica convinta e abituale del principio “una testa un voto” in ogni istanza decisionale e in ogni momento delle vita del Partito;
- scelta nominativa degli incarichi su scheda bianca e con voto segreto;
- verifica del lavoro svolto, dell’impegno e delle capacità dimostrate da ciascuno/a;
- revocabilità dei dirigenti a tutti i livelli da parte dell’organo che li ha eletti (anche fra un Congresso e l’altro);
- ragionevole rotazione degli incarichi (specie istituzionali) e assoluta incompatibilità fra incarichi diversi;
- democrazia “di genere”;
- pubblicità dei principali atti politici del Partito, e libero accesso di tutti/e le compagne e i compagni ai luoghi pubblici di discussione politica e ai media che il Partito si viene costruendo e a quelli di cui fin d’ora dispone (blog, mailing list, etc.);
- formazione politica continua e ricorrente in ogni momento della vita di ciascun/a militante, anche per giungere presto alla promozione di una nuova leva di quadri dirigenti comunisti.
            Per quanto ci riguarda, questi principi elementari di democrazia saranno da noi praticati fin da subito nel nostro lavoro politico. E non perderemo un solo istante a partecipare a “lotte interne” o a cercare ridicole “cariche” di qualsiasi tipo, perché tutte le nostre (ancora troppo scarse) energie debbono essere oggi rivolte a costruire il Partito nuovo e radicarlo nella classe, insieme a tutti/e quelli/e che vorranno partecipare a questo processo unitario e dal basso, quale che sia stata in passato la loro eventuale appartenenza partitica o correntizia. La situazione è troppo grave per perdere tempo ed energie con sciocchezze personalistiche: le burocrazie autoreferenziali vanno combattute e non riprodotte.
            Le cariche di Parito e i ruoli dirigenti, politici e sindacali, sono funzioni troppo importanti rri comunisti per ridurli a questa macchietta. Per questo motivo per il lavoro che ci proponiamo non ci servono infatti né cariche né riconoscimenti o medagliette frutto di queste logiche: ci basta la nostra voglia di combattere il capitalismo per il comunismo e un percorso cristallino di ricostruzione di un partito comunista all’altezza dello scontro di classe oggi e per il socialismo nel XXI secolo.

4. La crisi del capitalismo

Da sempre per i comunisti l’analisi della fase che attraversa il capitalismo e le conseguenze sui rapporti di forza tra le classi sono il punto di partenza per comprendere da dove ripartire e in che direzione muoversi. È ormai, anche per gli economisti classici, un fatto acclarato che la fase attuale è caratterizzata da una pesantissima crisi di sovrapproduzione che da anni scava nel tessuto produttivo dei paesi a capitalismo maturo con la tendenza all’espansione in tutte le economie di mercato.
Questo ha prodotto cinque fattori di risposta alla crisi e al progressivo restringimento dei margini di profitto per i capitalisti:
1) Un aumento della concorrenza internazionale tra i poli e le potenze capitaliste per la spartizione delle aree geo-strategiche e delle risorse del pianeta allo scopo di mantenere, o conquistare, posizioni di supremazia sul mercato globale internazionale. Questa concorrenza, dopo la dissoluzione del blocco socialista dell’Est europeo, è diventata competizione sempre più aperta con una scalata di posizioni dell’asse franco-renano sostenuto dai vincoli della moneta unica gravanti sui paesi alleati della UE, una perdita progressiva di posizioni del polo a guida USA compensata da una forte spinta alla militarizzazione di questa competizione e, sul versante asiatico, da un declino della potenza giapponese e una fortissima ascesa dell’economia della Repubblica Popolare cinese. In questo quadro, soprattutto in Italia e nei paesi capitalisti più colpiti per la propria debolezza economica (i cosiddetti PIIGS), l’euro ed i trattati europei si sono rivelati unicamente uno strumento per applicare nel nostro continente le politiche liberiste, cancellare i diritti e schiacciare i salari mantenendo così competitiva la “locomotiva tedesca”. Oltretutto anche quest’ultima vedrà presto la ruggine dei suoi binari come conseguenza delle stesse politiche di austerità e impoverimento che impone ai paesi europei che rappresentano il suo principale sbocco di mercato.
2) L’affermarsi di un modello produttivo flessibile in tutti i paesi capitalisti, basato sulle caratteristiche di una filiera produttiva distribuita ormai a livello internazionale (e non più concentrata solo su base nazionale), su forti incentivi alle delocalizzazioni delle strutture produttive e alla deregolamentazione del mercato del lavoro. In ogni singolo paese, ovviamente, questo processo avviene con caratteristiche peculiari e tempi differenti dettati dalla posizione nella gerarchia internazionale e dalle politiche neo-liberiste adottate. Nel nostro paese si produce una frammentazione estrema sia della produzione che della composizione interna alla classe lavoratrice salariata, frammentazione che assume una connotazione più marcata con i processi di precarizzazione dispiegati dalla seconda metà degli anni ‘90.
3) Un aumento smisurato del capitale speculativo rispetto a quello produttivo. Con la saturazione dei mercati, le imprese monopoliste rispondono al restringimento dei margini di profitto nell’economia reale spostando capitali sempre più ingenti verso quella speculativa. In Italia questo processo è stato accompagnato da una politica di forte privatizzazione svendita delle risorse e del patrimonio pubblico. Al capitalista non importa se l’accumulazione avvenga attraverso la realizzazione di profitti per investimenti produttivi o attraverso semplici scambi in borsa di azioni e futures. Così avanza per anni l’illusione di poter generare denaro dal denaro senza passare per l’economia reale. Il volume degli affari delle Borse diventa in ogni paese 5-10-20 volte quello che si realizza nell’economia produttiva. Finché questa bolla non esplode nel 2007 negli USA con la crisi dei “titoli tossici” e la crisi deflagra in tutti i paesi del mondo investendo l’Europa.
4) La crescente polarizzazione di classe per mezzo del trasferimento di ricchezza dai salari ai profitti e della centralizzazione del capitale con le cosiddette fusioni e acquisizioni, vale a dire attraverso l’espropriazione da parte delle grandi holding finanziarie non solo delle masse popolari ma anche di settori della stessa borghesia, compiuta sulla base dei prezzi monopolistici e del massiccio e organico intervento statale a sostegno del capitale attraverso la socializzazione dei costi – si pensi ai salvataggi di banche e imprese in crisi, con ricchi guadagni per i proprietari – e, quando necessario, attraverso il ricorso a terrorismo e guerra.
5) La modifica dei rapporti sociali dentro e fuori i luoghi di lavoro, con un’imperante tendenza alla reazione che si configura nella ristrutturazione neocorporativa e autoritaria dei rapporti sui luoghi di lavoro (la FIAT è un esempio come tanti altri), nel ricorso alla criminalizzazione e alla repressione violenta della povertà oltre che del malcontento e del dissenso sociale (dalla Grecia, dove si organizzano carceri per i debitori, all’Italia, dove si approvano regolamenti per punire l’accattonaggio e i lavori di strada) e nell’invasione della sfera privata, finanche alla dimensione biologica, da parte del potere (dal controllo sui luoghi di lavoro, alle assicurazioni sulla morte dei dipendenti fino ai brevetti biotecnologici su flora e fauna).

5. La gestione capitalistica (non la soluzione!) della crisi

L’unica via di uscita da una crisi di questa portata che i capitalisti conoscono è lo schiacciamento dei salari ai livelli di sussistenza e la disoccupazione di massa, a livello interno, e l’aumento delle ingerenze neocoloniali e degli interventi militari sul piano esterno. Ma ben lungi dal risolvere la crisi, questi fattori stanno ridisegnando gli equilibri internazionali e interni dei singoli paesi  capitalismo colpiti dalla crisi in chiave regressiva senza poter dare più alcuna prospettiva di miglioramento delle proprie condizioni di vita alla stragrande maggioranza della popolazione.
            Questa crisi organica del capitalismo non è risolvibile con semplici palliativi di sostegno al consumo o nuove regole per contenere la competizione tra poli e interessi capitalistici concorrenti.
Le ipotesi socialdemocratiche e neomoderate non sono in crisi perché siamo in presenza di una situazione soggettivamente pre-rivoluzionaria ma, al contrario, perché il capitale non ha oggi il “surplus” da redistribuire ed è anzi in preda di una feroce guerra internazionale tra potenze e frazioni della borghesia per accaparrarsi fette dei profitti una a danno delle altre.
Nei paesi come l’Italia il debito pubblico viene utilizzato come arma di ricatto sui lavoratori dipendenti e precari per imporre ulteriori restrizioni salariali, cancellazione del cosiddetto welfare (le conquiste sociali di decenni di lotte del movimento operaio e comunista) e la svendita dei settori strategici e la svendita dei settori strategici. Nel nostro continente le politiche di austerity vengono imposte dalla Troika (UE-BCE-FMI), attraverso misure come il Fiscal Compact, riducendo la sovranità popolare residua alla scelta di quale boia insaponi la corda per il collo del moderno proletariato.
Con il ricatto dello spread e dei rigidi vincoli della UE si sta procedendo a un ulteriore gigantesco spostamento coatto di ricchezza dalla forza lavoro al capitale per tamponare gli effetti della crisi e il restringimento dei profitti. Quello di Monti prima e quello Letta-Alfano ora non sono governi meramente “tecnici” né provvisori, ma sono esecutivi apertamente “politici” funzionali agli interessi del capitalismo monopolistico e finanziario nostrano ed internazionale. Stanno ponendo le basi costituenti quindi di una nuova fase, dettando la linea programmatica (anticipata dalla lettera Draghi-Trichet dell’agosto 2011) per i governi futuri e di cui il PD è uno dei puntelli strutturali e non accidentali. Tutto questo avviene con un tentativo di alimentare la passivizzazione, la sfiducia e la guerra tra poveri nei diversi settori del complesso corpo sociale salariato per renderlo “informe” e docile alle esigenze del capitalismo.
            A causa di queste politiche draconiane, tuttavia, la classe dominante nel nostro paese si trova nel pieno di una crisi di consenso verso la sua funzione dirigente senza che questo produca però forme di rivolta sociale contro il capitalismo, anche per la marginalità e gli errori compiuti dai comunisti negli ultimi venti anni. Ci troviamo insomma anche noi nella situazione drammatica (e pericolosa) che Gramsci descriveva con le parole: “Il vecchio è morto e il nuovo non può nascere”.
            La delegittimazione del sistema politico favorisce così lo sviluppo di differenti forme di antipolitica e populismo che si scagliano contro la degenerazione e la corruzione del sistema politico dominante, sorvolando sulle questioni sociali e di classe che sono alla base delle sofferenze delle masse salariate che pagano i costi della crisi.
            Le classi dominanti ridisegnano allora anche la geografia politica imponendo le ricette della BCE attraverso governi di eccezione permanente realizzando appieno quel modello di “monopartitismo competitivo” che sembra caratterizzare l’ingresso in questa sorta di Terza Repubblica. La crisi economica del capitalismo, il basso livello di credibilità dell’attuale sistema economico-sociale e gli attuali stravolgimenti politici possono essere un’occasione per i comunisti per invertire il processo di marginalizzazione in cui sono costretti. La subalternità alle compatibilità capitalistiche e al progetto “euro-atlantico” del PD, la coazione a ripetere di formule già sperimentate e fallimentari rischia invece di portare i comunisti a un’autoconsunzione.

6. I nostri rapporti con il “centrosinistra” (ovvero: la fine di un antico problema, spazzato via dai fatti della crisi capitalistica)

Questa situazione politica generale è tale da spazzare via anche la tradizionale discussione sul problema delle alleanze politico-elettorali, che ha diviso la sinistra di opposizione e i comunisti e che è stata spesso alla base delle scissioni.
            Tale problema si pone (si poneva) nei termini seguenti: i/le comunisti/e debbono fare parte dello schieramento del centrosinistra, sia pure in posizione critica, oppure no dato che essi debbono costruire un polo di vera opposizione di sinistra anche rispetto al centrosinistra e alle sue politiche?
            Chi optava per la prima soluzione (“i/le comunisti/e debbono fare parte dello schieramento del centrosinistra”) era spinto da considerazioni politiche talvolta serie ma molte altre volte da considerazioni meno nobili (il posto al caldo delle istituzioni); ma, volendoci limitare qui a quelle di ordine più genuinamente politico, ricordiamo: l’idea di dover rinnovare una politica di alleanze “tipo CLN” contro Berlusconi, la priorità della lotta “antifascista” e per la Costituzione, la volontà di non perdere contatti con settori popolari e di classe ancora presenti nel PD e nella CGIL, il Sindacato che quel Partito di fatto egemonizza e, non ultima, la considerazione che – dati gli infami sistemi elettorali vigenti – stare fuori dal centrosinistra comportava per noi un prezzo altissimo, cioè il rischio (e, sempre più, la certezza) di restare esclusi dalle istituzioni rappresentative a tutti i livelli, con gravi conseguenze sulla visibilità e sul finanziamento del Partito comunista.
            Ma ora bisogna fare i conti con un serio bilancio  autocritico non eludendo la risposta alla domanda se questi obiettivi sono stati raggiunti con quella tattica delle alleanze col centrosinistra o se quei problemi (giustamente individuati) si sono ulteriormente aggravati.
E ancora va detto che senza nessun dubbio possibile almeno a partire dal Governo Monti, (e secondo alcuni di noi anche da prima), questo quadro di ragionamento è comunque completamente saltato e nessuno può più fare riferimento ad esso senza rischiare di far ridere: il PD prima ha sostenuto lo stesso Governo “tecnico” appoggiato da Berlusconi votando in Parlamento, senza colpo ferire, le peggiori politiche antipopolari (non esclusa la liquidazione dell’art.18 dello Statuto!) e addirittura la modifica della Costituzione per adeguarla ai diktat della BCE e del pensiero unico neo-liberista più estremista. Infine, dalle ultime elezioni, prima ha rinunciato a eleggere un Presidente della Repubblica anti-berlusconiano e fedele alla Costituzione (pure avendo il PD, non dimentichiamolo mai, poco meno della maggioranza assoluta dei “grandi elettori” a Camere riunite!), poi ha dato addirittura vita ad un Governo insieme a Berlusconi, ai fascisti, agli uomini di Monti. Questo Governo presieduto da Letta-nipote si è distinto subito per la continuità della sua politica rispetto a quella antipopolare del precedente (una continuità che rivendica apertamente), e comincia a pagare anche vergognosi prezzi direttamente al suo partner di Arcore e, ciò che è più grave, è fortemente impegnato a vibrare il colpo di grazia alla Costituzione (già violentata con la modifica dell’art.81) lavorando alacremente, con il concorso diretto e la regia (già di per sé anti-costituzionale) di Giorgio Napolitano, all’istaurazione della repubblica presidenziale che liquidi il carattere parlamentare, cioè democratico, della Repubblica, mettendo così l’ultimo tassello che mancava all’attuazione integrale del “Piano” di Licio Gelli. C’è oggi qualcuno che può proporre seriamente di “allearsi” contro Berlusconi con queste forze alleate di Berlusconi? C’è oggi qualcuno che può proporre seriamente di difendere la Costituzione alleandosi con chi la sta distruggendo? C’è oggi qualcuno che può proporre seriamente di difendere il lavoro assieme ai Marchionne e ai Colaninno, la pace e l’autonomia dagli USA assieme alla Bonino, la legalità assieme ad Alfano, l’autonomia dalla BCE assieme agli uomini della Banca d’Italia, e così via? E soprattutto: l’aver avallato il centro-sinistra in che cosa ha reso più sopportabile per le classi lavoratrici questo scenario?
            In altre parole è del tutto evidente come un schieramento di “sinistra moderata” (cioè una sinistra non comunista ma tuttavia seriamente intenzionata a difendere il lavoro dipendente e dunque la democrazia e la pace) semplicemente in Italia non esiste più. Esiste invece, o è in via di accelerata costruzione, un P.U.B. (un Partito Unico della Borghesia); è un partito virtuale ma già al potere, che ha un suo preciso programma economico-sociale (l’obbedienza al capitale finanziario e alla troika UE-BCE-FMI), una sua precisa ideologia (il liberismo oltranzista e antioperaio), dei suoi efficaci strumenti di formazione dell’opinione (“Repubblica” primo fra tutti, ma praticamente tutto il sistema radio-televisivo), dei suoi luoghi decisionali mondiali e nazionali più o meno occulti, e ora ha anche un suo capo e garante dell’alleanza in Giorgio Napolitano. E non per caso – riflettiamo anche su questo punto davvero non trascurabile! – ogni proposta della sinistra di opposizione di trovare una qualche forma di alleanza elettorale (per ultimo il tentativo fatto da Ingroia nei confronti di Bersani) è stato respinto dal centrosinistra con atteggiamenti assolutamente sprezzanti (come è successo anche a noi a Roma, con Zingaretti prima e con Marino poi). Prima noi comunisti/e capiamo questo fatto e meglio sarà per noi.
            Ciò che si deve capire approfonditamente (per uscire definitivamente dalla subalternità politica e dalle oscillazioni tatticistiche che portano solo alla sconfitta) è però il fatto seguente: tale riposizionamento strategico del centrosinistra non solo ha antiche radici, ma non avviene affatto per caso, bensì per la necessaria obbedienza che – proprio di fronte all’aggravarsi della crisi capitalistica - le forze del centrosinistra debbono ai “poteri forti” del capitalismo italiano ed europeo (ma anche internazionali) a cui esse rispondono e di cui esse fanno anzi parte organicamente.
            Quindi è in base a una precisa analisi di classe, e non a un pregiudizio settario, che la scelta di campo delle comuniste e dei comunisti deve porsi fuori dall’orizzonte del centrosinistra e in opposizione alle sue politiche. Tanto più oggi che tali alleanze sono impossibili anche a livello locale (dove un tempo si poteva forse “incidere” diversamente) per via dell’imposizione del patto di stabilità e delle nuove leggi dell’ultimo governo monti che obbligano le amministrazioni locali, pena sanzioni e ulteriori tagli dei fondi destinati ai servizi, a rispettare i vincoli di bilancio del fiscal compact e dei trattati europei. Chi non svende e non privatizza il patrimonio pubblico, chi non taglia i servizi e l’assistenza sociale non può governare nemmeno a livello locale.
Capire tutto questo (lo ripetiamo: prima noi comunisti/e lo capiamo, meglio sarà per noi) non significa affatto rassegnarsi a subire; al contrario, capire come stanno effettivamente le cose è la prima condizione necessaria per combattere con speranza di vittoria. Non c’è dubbio che la battaglia per l’egemonia sui larghi settori popolari ancora influenzati dal centrosinistra sia il primo dei nostri compiti. E non c’è dubbio che andranno di fronte a difficoltà crescenti quelle forze, come SEL, che si sono posizionate strategicamente all’interno del centrosinistra, ottenendone in cambio visibilità e parlamentari e consiglieri e assessori, ma che vedranno presto svelata la propria doppiezza. Così come non c’è dubbio che le contraddizioni fra quelle politiche del centrosinistra e gli interessi più profondi delle larghe masse lavoratrici siano di carattere esplosivo, e che dunque l’egemonia del centrosinistra e dello stesso PD sul suo elettorato sia assai più fragile di quanto i recenti risultati elettorali potrebbero far credere (d’altra parte anche su quel terreno l’aumento dell’astensione, il fenomeno Grillo ma anche la clamorosa perdita di voti del P.U.B. in valori assoluti parlano molto chiaro).          
            La battaglia per costruire un’alternativa credibile ai disastri del centrosinistra, visti i risultati fin qui ottenuti, non può essere condotta dall’interno del centrosinistra stesso; essa necessita invece che sia costruito, prima nei fatti e poi anche nella coscienza delle masse, un vero polo di opposizione politica e sociale alternativo al monopartitismo competitivo e alle sue politiche. La consistenza di questo polo e anche la rapidità con cui il malcontento sociale (oggi del tutto privo di riferimenti politici: cos’altro è Grillo se non questo vuoto?) riuscirà a connettersi ad esso sono variabili che dipendono anche da noi comunisti/e e dalla nostra capacità di lavoro politico. E una posizione di forte coerenza politica e di proposta programmatica organicamente alternativa alla crisi capitalistica può anche determinare repentini orientamenti di massa a sinistra che oggi ci paiono quasi impossibili, ma che invece si sono già verificati più volte nella storia (si pensi al caso recente di Syriza in Grecia, passata in pochi mesi, in virtù della sua opposizione al Governo BCE del Pasok, da pochi punti percentuali alla probabile imminente maggioranza dei voti).
            Su questa strada difficile e necessaria almeno il posizionamento politico strategico, di autonomia e conflitto nei confronti dell’alleanza PD-PdL-BCE, dovrebbe però essere finalmente chiaro e non provocare più divisioni nel nostro campo.
Su queste basi di avvicinamento è possibile lavorare alla più ampia ricomposizione dei comunisti in un partito all’altezza dello scontro di classe oggi e di una vasta rete anticapitalista e antiliberista contro le politiche di austerity, come due campi distinti e connessi utilmente.

7. La fine del modello di Partito “istituzionale-burocratico”

Se questo è il quadro politico entro cui si svolgerà il nostro agire di comunisti/e in una fase storica non breve (quella segnata dalla crisi capitalistica e dalla impossibilità delle forze borghesi, comprese quelle ex-riformiste, di porvi rimedio), occorre allora prendere atto di alcune condizioni nuove in cui necessariamente dovremo operare.
            La prima fra queste è la fine di un modello di partito che definiamo “istituzionale-burocratico” che molti/e avevano, più o meno inconsapevolmente, introiettato negli anni: secondo quel modello il Partito serve per andare nelle istituzioni (ad ogni livello), giacché dalle istituzioni, e solo da queste, il Partito trarrebbe finanziamento e in sostanza vita. Questo schema fondamentale (e questo errore fondamentale) determinava una pericolosissima alleanza organica fra gli istituzionali e i burocrati del Partito: i primi dirigevano di fatto il Partito e lo rappresentavano, i secondi li servivano, garantendo loro il consenso del Partito e, in cambio, ricavandone i finanziamenti necessari per i propri stipendi, in attesa magari, un giorno, di accedere anch’essi a qualche ruolo istituzionale. Questo modello causa poi “a cascata” conseguenze assai negative sulla vita democratica del Partito e perfino sulla sua etica comunista: personalismi, carrierismi, cooptazioni “dall’alto”, trascuratezza nel tesseramento e nell’autofinanziamento, immeritata promozione di elementi borghesi e piccolo-borghesi senza lavoro nei posti di maggiore responsabilità, disprezzo costante e radicale per la democrazia nel Partito e le sue decisioni politiche, e in alcuni casi perfino comportamenti non comunisti che non vogliamo qui neppure rievocare; ebbene: tutto ciò oggi non esiste più e noi osiamo perfino dire, correndo il rischio di essere accusati di estremismo infantile, che non è affatto detto che – almeno sotto questo aspetto – la nostra esclusione dalle istituzioni sia nell’immediato un male. Noi dobbiamo essere coscienti che non sempre i comunisti sono stati nelle istituzioni, né sempre hanno ricevuto da lì i soldi necessari per fare politica; e soprattutto dobbiamo capire che oggi e nel futuro (un futuro che non sappiamo dire quanto lungo sarà) il Partito comunista dovrà necessariamente vivere fuori delle istituzioni (le leggi elettorali servivano, e sono servite, esattamente a ottenere questo!), ma ciò significa tornare a vivere nella società e fra le masse, traendo dai propri rapporti con la propria classe anche le risorse necessarie per le proprie attività. Certo, noi ci batteremo con forza per rientrare nelle istituzioni, ma non ad ogni costo, perché la priorità è per noi il Partito e la sua politica, non la presenza nelle istituzioni. Certo, perderemo per strada (come abbiamo già perso in passato), qualche altro piccolo pezzo che non concepisce se stesso se non in una prospettiva di carriera istituzionale, ma - diciamo la verità - non sarà una gran perdita; soprattutto se sarà compensata dall’afflusso di nuove energie proletarie e dal recupero di uno stile di lavoro e di vita degno della nostra tradizione.

8. I cerchi concentrici dell’azione dei comunisti: la costruzione del Partito comunista, la costruzione del fronte anticapitalista-antiliberista, la costruzione del fronte progressista a difesa della Costituzione.


Lottare per la caduta dei governi di “eccezione” voluti dalla BCE è un passaggio indispensabile e ineludibile in questa fase. Ma proprio per il loro carattere “costituente” di cui parlavamo prima, l’opposizione a questo tipo di esecutivi rischia di non essere sufficiente se non si prova a spezzare il quadro politico e ad affrontare la questione dei rapporti di forza nei confronti del padronato. A nostro avviso l’opposizione a questi governi va legata, quindi, in maniera altrettanto “costituente” a una battaglia serrata contro tutte le forze politiche e le ideologie liberiste che li sostengono (PD-PDL-montiani), per costruire un polo di classe alternativo ad essi e per sostenere la ricomposizione un blocco sociale antagonista agli interessi del capitalismo come obiettivo fondamentale.
Un programma minimo di classe per un fronte anticapitalista
Per rompere definitivamente con la subalternità all’ideologia dominante bisogna quindi riportare al centro della proposta un “programma minimo anticapitalista” attorno al quale definire quali alleanze sono utili per rilanciare un punto di vista di classe nella crisi del capitalismo.
Ovviamente, come già ai tempi di Marx, non si tratta di un semplice programma elettorale o di obiettivi “minimali”. Si tratta di un programma di lotta contro il capitalismo attuale che sappia individuare dei punti di rottura incompatibili con l’attuale dominio capitalistico sebbene non immediatamente rivoluzionari. Il nodo politico della fase attuale lo si può sintetizzare nella necessità di modificare gli attuali rapporti di forza tra le classi (sfavorevoli a quelle subalterne) e di rilanciare l’accumulazione delle forze dei comunisti in settori consistenti della classe legandoli a un progetto di trasformazione sociale. Sulla base di questi obiettivi, e non sulla necessità di sopravvivenza di questo o quel gruppo dirigente, si stabiliscono rapporti di “alleanze” sociali, politiche e anche elettorali. Questo spazio politico oggi è fuori dalle compatibilità con i vincoli imposti dalla UE e della carta di intenti filo-BCE del PD.
Nello stesso spazio politico e sociale il partito comunista, con la sua autonomia ed i propri simboli, deve essere al centro della costruzione di una più vasta rete delle forze della sinistra anticapitalista e antiliberista, così come sta avvenendo in tutti i paesi della UE in cui lavoratori ed i popoli lottano contro i diktat della Troika e per la difesa della propria sovranità popolare espropriata dal capitale finanziario. Questo significherebbe non porre più al centro dell’iniziativa politica le trattative per quanti parlamentari ci verranno garantiti in questa o quella coalizione, ma basarsi su un vasto movimento di lotta su battaglie come la riduzione d’orario a parità di salario, la patrimoniale sulle grandi ricchezze e rendite, la democrazia sui luoghi di lavoro,  la reindicizzazione dei salari e delle pensioni, la cancellazione del vincolo del pareggio di bilancio, il ritiro immediato delle truppe e per l’impiego delle spese militari per il rilancio dell’istruzione e dei servizi pubblici, la ripubblicizzazione dei beni comuni e dei settori strategici privatizzati, il ritorno a una legge proporzionale integrale, ecc…Solo a mò d’esempio.
Indipendenza politica e sindacalismo di classe
Per essere realmente anticapitalista un polo di questo tipo deve definirsi strettamente, pur con una necessaria duttilità tattica, attorno a questo programma che a livello interno rilanci la centralità di un punto di vista di classe (su lavoro, salario, diritti e welfare) “indisponibile” alle compatibilità tanto politiche che sindacali (quindi fissando punti discriminanti e non trattabili con qualsiasi ipotesi di governo e in qualsiasi accordo con Confindustria). Una battaglia che sul piano sindacale si snoda contro il nuovo patto sociale neo-corporativo tra vertici dei sindacati confederali e padronato (accordi 28 giugno 2011 e 31 maggio 2013) che faccia il paio con quella sul terreno politico e istituzionale contro il presindenzialismo e la blindatura della democrazia da parte dei governi filo-BCE.
Sul piano del conflitto tra capitale e lavoro salariato bisogna puntare alla ricomposizione di un indirizzo sindacale di classe per le comuniste ed i comunisti trasversale alle attuali appartenenze organizzative che attraversi lo scontro capitale-lavoro nelle sue componenti conflittuali (Fiom e sinistra Cgil, sindacati di base, movimenti). Contendendo la rappresentanza di lavoratori dipendenti e precari al sindacalismo neo-corporativo di Cisl e Uil e alla linea di cedimento da vertici della Cgil tenuti a briglia dal PD, anche attraverso esperienze autoconvocate e di collegamento delle mille vertenze contro le crisi e le ristrutturazioni aziendali sparse sul territorio nazionale e incomunicanti tra loro. Un’unità delle lotte contrapposta all’unità delle burocrazie.
Fuori dai diktat della Troika. Fuori dalla Nato 
Sul terreno internazionale la linea di demarcazione per la ricostruzione di una linea di classe per i comunisti, deve passare per una rottura coi vincoli imposti dalla UE e dalla BCE (Fiscal Compact, Trattati di Maastricht e di Lisbona), dai ricatti del FMI e per la fuoriuscita dalle guerre e dalle alleanze militari imperialiste (ritiro delle truppe, fuori dalla Nato e fuori le basi ecc…). L’Unione Europea dimostra ormai la sua natura di mera integrazione monetaria tra le potenze capitaliste dell’area, funzionale solo agli interessi dei maggiori gruppi monopolisti. Un’istituzione antidemocratica necessaria per tentare di limitare la concorrenza interna (a favore dei paesi più forti come la Germania) ed essere competitivi nei confronti delle altre potenze mondiali. Sostanzialmente un’alleanza traballante tra imperialismi e sub-imperialismi per i quali una vera confederazione sovra-statuale risulta oggi “impossibile”, perché non possono unirsi del tutto politicamente, per lo meno senza l’imposizione di un dominio delle potenze più forti, ma anche “reazionaria”, perché le uniche due cose su cui riescono a trovare sintonia è nell’attacco alle masse salariate al proprio interno e nel sostegno alle politiche di ingerenza e guerrafondaie verso l’esterno. Il Parlamento Europeo è uno strumento di facciata non decisionale ed il potere reale è nelle mani di organismi non eletti come le Commissioni e la BCE. Quindi parlare seriamente di Europa dei popoli e dei lavoratori significa prospettare nuove relazioni internazionali solidali e integrate con altre aree geopolitiche (ad esempio il Mediterraneo), rompere i vincoli e le regole dei Trattati e non “democratizzarli”. Ancor di più vale questo discorso nei confronti delle alleanze militari imperialiste come la NATO o la UEO e la PESD.

9. La battaglia delle idee CONTRO L’IDEOLOGIA DOMINANTE

 In questa prospettiva di scontro col capitalismo e di costruzione di un’alternativa di sistema (il socialismo nel XXI secolo), è chiaro come diventi imprescindibile ricominciare anche a ragionare su un lavoro di ricostruzione e rilancio dell’approfondimento teorico e culturale, della formazione dei quadri e del rilancio della battaglia delle idee contro l’ideologia dominante. Un terreno fondamentale il cui abbandono ha provocato anche nelle nostre fila crisi di militanza, impoverimento teorico-culturale, sfiducia nella possibilità della trasformazione sociale, svilimento del nostro patrimonio storico e in ultima analisi subalternità e minoritarismo.
La perdurante assenza di una rivista teorica comunista e la mancanza (forse ancora più grave) di una casa editrice organicamente vicina al partito, sono fatti che parlano da soli.
Molti esempi si potrebbero fare a proposito di questa subalternità politico-culturale, derivata anche da una trascuratezza e una superficialità che occorre superare: dalla scarsa attenzione dedicata dal partito al grande patrimonio della teoria marxista, leninista e gramsciana alla sottovalutazione della battaglia per difendere la memoria e la storia dell’antifascismo e della resistenza, per non dire dell’incapacità di mettere seriamente a tema l’esperienza sovietica o quella cinese, elaborando una nostra critica comunista su basi storiche e scientifiche serie e non debitrici delle banalità del  “pensiero unico” borghese.
Ma fra tutti i temi possibili vogliamo richiamare l’attenzione su una questione: l’internazionalismo. Da sempre i comunisti si sono caratterizzati per la loro capacità di sentirsi parte integrante della lotta di liberazione dei popoli di tutto il mondo, ma fino ad oggi, al di la’ di lodevoli eccezioni, poco o nulla è stato fatto dal partito per sostegno aperto alla rivoluzione socialista cubana, contro il criminale bloqueo, per la liberazione dei 5 cubani incarcerati da 15 anni negli usa perché colpevoli di aver combattuto il terrorismo. Analoga trascuratezza e analoghi silenzi ci hanno caratterizzato in questi anni a proposito del venezuela o dell’equador, della palestina o della turchia, delle ingerenze neocoloniali in siria e così via.
Oggi è per noi urgente e necessario far vivere nel nostro popolo un nuovo internazionalismo che non solo rappresenta (come diceva che guevara) “la tenerezza fra i popoli” ma che dà forza e concretezza anche alla nostra prospettiva rivoluzionaria in italia.

10. CONCLUSIONI


Dobbiamo salvare e rilanciare il PRC. Ma non basta semplicemente “rifondare rifondazione”.
A noi interessa rifondare un partito comunista degno di questo nome. Per ricostruirlo il PRC è un pezzo indispensabile e che dobbiamo salvaguardare da ogni liquidazione o tentativo di scioglierlo in contenitori genericamente di sinistra e geneticamente subalterno. Ma dobbiamo essere consapevoli che nel difficile e urgente compito di ricostruire il partito comunista nessuna forza è autosufficiente. Non servono fusioni a freddo o la mera unità di gruppi dirigenti, bisogna innanzitutto cominciare a unire le linee e le strategie prima dei contenitori. Né improvvisare scioglimenti e fusioni, quindi, senza aver sciolto i nodi di fondo come la subalternità alle prospettive filo-capitaliste del centrosinistra, la rottura delle compatibilità col capitale finanziario europeo, un indirizzo sindacale minimo per tutti i comunisti/le comuniste indipendente dalle sigle di appartenenza, un investimento “nei” movimenti e non “sui” movimenti, una nuova democrazia operaia e comunista, ecc...
Per fare questo con tutte le altre forze di sinistra anticapitaliste e antiliberiste non serve inventare un ennesimo soggetto politico in cui tutti convergono sperando di superare mezzo sbarramento elettorale o di unire delle debolezze salvo poi dividersi alla prima elezione perchè abbiamo prospettive diverse. I fallimenti di Arcobaleno, FdS, Rivoluzione Civile devono insegnarci qualcosa. Basta con gli errori del passato. Facciamone di nuovi, ma quelli vecchi no.
Con tutte le forze della sinistra anticapitaliste e antiliberiste costruiamo un programma di lotte contro i diktat della BCE che, anche a causa del Fiscal Compact e dei governi voluti da Napolitano, caratterizzeranno i prossimi decenni e non mesi. Attorno a questo programma minimo facciamo un fronte più ampio possibile contro i governi che sostengono le politiche della Troika. Quindi sia che siano a guida PDL (ovviamente) che a guida PD. Senza più subalternità al centrosinistra. A maggior ragione oggi che queste politiche sono governate insieme da PD e PDL. 
Dobbiamo essere incompatibili con la gestione capitalistica della crisi. Solo così torneremo ad essere utili alle classi subalterne che la crisi la stanno interamente pagando. Non continuando a ondeggiare se fare o no la stampella ai governi del PD. Per quello ci sono già le forze riformiste che lo fanno.
Un partito comunista degno di questo nome e uno schieramento anticapitalista che sappia allargare le lotte a livello di massa in cui organizzazioni, movimenti, sindacati convergano senza annullare ciascuno le proprie identità e aprano alla società sana. 
Di queste due cose abbiamo bisogno, non di una sola.

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