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venerdì 29 aprile 2011
Socialismo o capitalismo neo-malthusiano, di Riccardo Achilli
In questo articolo, viene prima commentato e poi presentato uno scritto di Paul Mattick del 1980, che profeticamente analizza lo sbocco finale del capitalismo dopo una recessione globale quale quella che stiamo vivendo. A giudizio dell'autore, le recessioni globali di lunga durata generano squilibri distributivi, che spingono verso l'impoverimento i lavoratori, e d'altro canto porta ad una crescita incontrollabile delle tensioni geopolitiche. Pertanto, l'unica alternativa, a giudizio di Mattick, è fra un progressivo degrado del capitalismo globale verso forme di autoritarismo, bellicismo e neo-malthusianesimo, in grado di minacciare l'esistenza stessa dell'umanità, ed una rivoluzione socialista. Analizziamo in dettaglio le sue argomentazioni, commentandole ed ampliandole.
I Una crescente pressione sul lavoro e sulle risorse ambientali
Secondo Mattick, in una fase di recessione strutturale il conseguente assottigliamento del tasso di profitto richiederà una compressione dei salari, ovvero un incremento del saggio di sfruttamento. I dati sono chiari, e confermano quanto afferma Mattick: nell'attuale recessione, fra 2007 e 2010, nell'area Ocse (quindi nell'area che raggruppa le economie capitaliste più sviluppate) il PIL in termini reali (quindi depurato dall'inflazione) è diminuito dello 0,22%, mentre il costo unitario del lavoro, sempre in termini reali, è diminuito più rapidamente (-0,58%). Poiché il PIL, in termini distributivi, deve remunerare i fattori della produzione, è chiaro che i profitti e la remunerazione del capitale finanziario, pur in un contesto recessivo, sono rimasti stabili, se non leggermente cresciuti. La recessione ha quindi generato un ampliamento del plusvalore estratto dai capitalisti ai danni dei lavoratori, al fine di mantenere stabili sui livelli pre-crisi i livelli dei profitti. Si può quindi dire che la recessione è stata pagata dal lavoro dipendente.
D'altro lato, la crescente anarchia della produzione capitalistica, aggravata proprio dagli effetti della recessione e dalla conseguente necessità di aumentare la pressione competitiva sulle risorse, comporta una accelerazione distruttiva dello sfruttamento dell'ambiente e della propensione guerrafondaia tipica del capitalismo, fino a minacciare, secondo Mattick, la sopravvivenza stessa del mondo. Esempi recenti di questa insopprimibile tedenza del capitalismo ad aggredire il lavoro e l'ambiente, che si accelera nelle fasi recessive, al fine di recuperare tassi di profitto soddisfacenti, si notano ovunque. Si spiega così la rinnovata corsa al nucleare in Paesi, come l'Italia, che ne sono ancora privi. A fronte della progressiva scarsità delle fonti fossili (che divengono così sempre più costose, provocando peraltro una redistribuzione del reddito mondiale sfavorevole alle economie capitaliste sviluppate) l'energia nucleare, per quanto pericolosissima per l'uomo e per l'ambiente, consente di mobilitare un ricco indotto nella ricerca e sviluppo, nell'industria mineraria, nel trattamento dell'uranio grezzo, nella costruzione e gestione di centrali e siti di stoccaggio di scorie, nel riprocessamento delle scorie, nello smantellamento delle centrali obsolete, nella bonifica dei siti, ecc. Un business che coinvolge l'industria in vari settori (estrattivo, elettronico, informatico, ecc. ecc.), l'edilizia, il settore dei trasporti, i servizi assicurativi, oltre che, ovviamente, le grandi imprese di utilities energetiche.
Mattick quindi prevede la possibilità che il capitalismo termini in una catastrofe in grado di minacciare la stessa esistenza dell'umanità. Identifica questo rischio in una possibile guerra nucleare globale (e se pensiamo che tutte le guerre “umanitarie”, da quella del Golfo del 1990 in poi, sono state combattute con munizioni a base di uranio impoverito,che hanno lasciato irreversibili problemi di radioattività nei luoghi dove sono state usate, non stiamo molto lontani dall'idea di “guerra nucleare”) anche se ovviamente potremmo estendere il suo ragionamento al declino ambientale legato alla crescita dell'intensità dello sfruttamento capitalistico. Prescindendo dalle questioni energetiche, secondo l'Unep, entro il 2020 il 40% della popolazione mondiale sarà in condizioni di carenza di acqua, principalmente a causa del riscaldamento globale (indotto dall'accumulazione capitalistica, oggi estesa anche ad economie, come Cina, India o Brasile, poco sensibili alle questioni energetiche ed affamate di sviluppo industriale, per migliorare le condizioni di vita delle loro enormi e rapidamente crescenti popolazioni).
Inoltre, secondo Lester Brown, a fronte della continua crescita della popolazione, un terzo delle terre coltivate del mondo sta perdendo terreno arabile più velocemente di quanto si formi nuovo suolo attraverso i processi naturali. Le riserve idriche a fini agricoli in tutto il mondo si stanno esaurendo a un ritmo allarmante a causa dell’eccessivo pompaggio, mentre la progressiva estensione delle coltivazioni destinate al business dei biocombustibili nelle zone cerealicole più fertili del mondo (negli USA la quota di cerali da destinare alla produzione di bioetanolo è quasi raddoppiata in soli due anni, coltivazioni analoghe si stanno diffondendo rapidamente anche in altri granai del mondo, come Argentina e Australia; nella sola UE 25 la produzione di bioetanolo crescerà del 69% fra 2006 e 2016; quella di biodiesel del 33%) priva l'umanità di superfici agricole da destinare a riserve alimentari fondamentali. Di conseguenza, la produzione globale di cereali è risultata inferiore alla domanda in sette degli ultimi otto anni, facendo scendere il livello mondiale delle scorte cerealicole al livello più basso degli ultimi 34 anni. Tra la fine del 2005 e la fine del 2007 il prezzo del mais è quasi raddoppiato e quello del frumento quasi triplicato. Le proiezioni ufficiali della FAO non sono incoraggianti: a partire dal 2009, e per gli anni a venire (le proiezioni arrivano fiano al 2016) la produzione mondiale di grano e di semi oleosi sarà sistematicamente inferiore ai consumi, soprattutto a causa del boom della domanda che si verificherà nelle economie emergenti.
Di fronte a questi fenomeni, il prezzo mondiale del grano sta allineandosi al valore del petrolio. Il prezzo mondiale del mais ha raggiunto il suo massimo storico, di oltre 190 dollari/tonnellata nel 2007, e secondo le proiezioni FAPRI, dovrebbe rimanere più o meno costante almeno per i prossimi 6 anni. Il prezzo del frumento è quasi triplicato fra 2005 e 2007, e rimarrà stabilmente elevato per i prossimi anni. Con questi andamenti di mercato, è chiaro che gran parte dell'umanità, quella più povera, rimarrà tagliata fuori dalla possibilità di acquistare materie prime alimentari fondamentali per la propria sussistenza.
Secondo Pimentel e Nielsen (2006), si è già superata la soglia demografica che consentirebbe all'umanità di vivere confortevolmente, e che ci sono chiare evidenze di una catastrofe imminente, fra cui una ripresa della crescita della mortalità infantile per patologie curabili su scala globale negli ultimi dieci anni.
E' utile ricordare anche che, secondo il rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma, le cui previsioni, fra1972 e 2002, si sono rivelate pressoché esatte (come documenta un accurato lavoro di verifica fra proiezioni e dati reali condotto nel 2008 da Turner), l'unica possibilità di evitare un disastro ecologico nella seconda metà del XXI secolo è una combinazione di stringente controllo sulle nascite, in cui tutte le coppie del mondo decidano di non avere più di due figli, di introduzione di tecnologie di risparmio delle risorse naturali, e di riduzione dei consumi pro capite mondiali al livello medio raggiunto nel 2000 (in altri termini, tutti dovrebbero avere lo stesso livello di consumi, che peraltro è molto più basso di quello già raggiunto dai Paesi più sviluppati). Tale ipotesi è ovviamente incompatibile con l'esistenza di un sistema capitliastico, che presuppone la persistenza nel tempo del processo di accumulazione, resa possibile soltanto da una crescita continua della produzione e dei consumi. Quindi per evitare la catastrofe ambientale ed umanitaria, gli esponenti del club di Roma implicitamente ritengono necessario il superamento del modo di produzione capitalistico (e quindi, come insegna il marxismo, il superamento dei relativi rapporti sociali, intimamente dipendenti da un determinato modo di produzione).
II . Il rischio del degrado autoritario e neo-malthusiano del capitalismo in crisi
A tal proposito, la sopravvivenza del capitalismo non potrà che passare tramite l'imposizione di sistemi neo-malthusiani, che andranno di pari passo con la riduzione degli involucri democratici puramente formali che ad oggi ne nascondono la natura sfruttatrice, e quindi con un crescente smascheramento dei reali mecanismi autoritari che lo caratterizzano. Ci dice a tal proposito Mattick che la svolta autoritaria del capitalismo (in realtà il disvelarsi completo di un sistema già di per sé autoritario, come ben spiegano Marx ed Engels già nel 1842, e come specifica ulteriormente Lenin in Stato e Rivoluzione) passerà per il tramite di una cancellazione del pluralismo di facciata delle forze politiche e sindacali, con una convergenza verso un pensiero unico, che servirà come paravento ideologicoper offrire collaborazione al capitalismo in difficoltà, garantendo il mantenimento della disciplina fra i lavoratori. Lo stesso Trotsky, in un suo scritto denominato “I sindacati nell’epoca della decadenza imperialista” ha previsto la progressiva integrazione delle organizzazioni sindacali nei poteri dello Stato. Dice infatti Trostsky che i sindacati “devono affrontare un avversario capitalista centralizzato, intimamente legato al potere statale. Da ciò deriva per i sindacati, nella misura in cui hanno posizioni riformiste, la necessità di adattarsi allo stato capitalista e di tentare di cooperare con lui. Agli occhi della burocrazia del movimento sindacale, il compito essenziale consiste nel “liberare” lo stato dall’impresa capitalista indebolendone la sua dipendenza dai trust per attrarlo verso di lei. Questa attitudine è in piena armonia con la posizione sociale dell’aristocrazia e della burocrazia operaia che combattono per ottenere alcune briciole nella divisione dei sovrapprofitti del capitalismo imperialista”.
Come non vedere in tali considerazioni la tendenza attuale del sindacalismo, che da un lato, nei capitalismi anglosassoni, si lega alle strategie del padronato tramite meccanismi di compartecipazione agli utili d'impresa, che svendono il conflitto sociale in cambio di qualche briciola (eventuale, che viene erogata solo se l'impresa fa profitti ed il cda decide di distribuirli), e d'altro lato, nel modello renano, partecipa direttamente all'elaborazione delle strategie delle imprese capitaliste, tramite i propri rappresentanti nei comitati di sorveglianza aziendali. In entrambi i casi, la lotta per i diritti dei lavoratori viene svenduta per piccoli ed aleatori benefici economici, e per favorire la visibilità ed il potere delle gerarchie sindacali (con ciò creando un modello oligarchico di gestione aziendale che taglia fuori i lavoratori dalla possibilità di esprimersi). Il declino del modello sindacale italiano è ancora più tragico, con le due confederazioni “moderate” che stipulano una riforma del modello contrattuale in cui, in cambio di una piccola revisione del paniere del tasso di inflazione programmato, si accetta una sostanziale riduzione del ruolo del contratto collettivo di lavoro, nonché accordi, come quelli di Pomigliano e Mirafiori, nei quali rinunciano al diritto di sciopero ed accettano una revisione delle modalità di lavoro estremamente penalizzante, in cambio di una garanzia che in realtà è una menzogna (ovvero il mantenimento dei livelli occupazionali, quando in realtà Marchionne era il primo interessato a mantere quegli stabilimenti, altrimenti non avrebbenemmeno intavolato una lunga e complessa trattativa ed avrebbe investito in Serbia). E con la CGIL che, dopo le resistenze di Epifani, con la nuova segreteria tende a segurie a ruota tale modello.
La svolta autoritaria del capitalismo in crisi si avverte anche sul piano politico. Fenomeni come quello di Viktor Orban in Ungheria, o di Berlusconi, sono chiaramente esemplificativi di una svolta della vecchia destra liberale in direzione di forme autoritarie, populiste, teocratiche e nazionaliste, non molto lontane dal peronismo e dal fascismo. Si tratta, per ora, di fenomeni che coinvolgono Paesi relativamente periferici, ma la svolta xenofoba in materia di politiche migratorie operata dalla Francia di Sarkozy, ed il rinnovato slancio imperialistico e neocoloniale che Gran Bretagna e Francia hanno dato alle loro politiche estere segnalano una estensione di tale modelo di destra autoritaria e nazionalistica anche in grandi e determinanti Paesi. Senza citare le preoccupanti tendenze reazionarie e teocratiche dei Tea Party, che stanno imprimendo una svolta inquietante alla base ideologica del partito repubblicano statunitense.
La svolta autoritaria, in presenza di una crescente scarsità di risorse ambientali ed alimentari, andrà di pari passo con un recupero delle più trite idee neo-malthusiane. Già nel 1974, l'allora Segretario di Stato Kissinger, in un memorandum segreto reso noto solo nel 1989 (denominato NSSM 200), delinea i primi passi verso un neo-malthusianesimo. In tale documento, che analizza i rischi della sovrappopolazione nei Paesi del Terzo Mondo per gli interessi economici globali degli USA, si afferma che l’assegnazione degli aiuti alimentari ai Paesi del Terzo Mondo dovrebbe tener conto dei passi che un Paese fa per il controllo della popolazione e per la produzione alimentare, e viene presentata l’idea di imporre “programmi obbligatori di controllo della crescita della popolazione” utilizzando il cibo come “strumento di potere nazionale”. Per cui secondo Mattick la rivoluzione proletaria non è soltanto indirizzata verso il comunismo, ma anche verso la stessa salvezza dell'umanità, la cui fine il capitalismo recessivo sta accelerando. Ma ecco il testo di Mattick:
In periodi di relativa stabilità economica la lotta di classe stessa accelera l’accumulazione di capitale, forzando la borghesia a adottare modi più efficienti per incrementare la produttività del lavoro. Salari e profitto potrebbero salire assieme senza disturbare l’espansione del capitale. Una depressione, tuttavia, porta il simultaneo (benché ineguale) aumento del profitto e dei salari ad una fine. La profittabilità del capitale deve essere restaurata prima che il processo di accumulazione possa essere ricominciato. La lotta tra lavoro e capitale ora coinvolge l’esistenza vera e propria del sistema, legata com’è alla continua espansione (...)
Di certo, i lavoratori potrebbero essere pronti ad accettare, entro certi limiti, una riduzione della quota del prodotto sociale, magari per evitare le miserie di protratti confronti con la borghesia e il suo Stato. (...) Ma il supporto politico delle grandi organizzazioni lavoratrici è egualmente necessario per prevenire le agitazioni sociali su larga scala. Siccome una lunga depressione minaccia il sistema capitalista, è essenziale per le organizzazioni riformiste aiutare la borghesia a superare le sue condizioni di crisi. La loro politica opportunista assume apertamente un carattere controrivoluzionario immediatamente quando il sistema si trova in pericolo di rivendicazioni della classe lavoratrice che non possono essere soddisfatte all’interno di un capitalismo dominato dalla crisi (...) Dovrebbe essere chiaro a questo punto, che le forme assunte dalla lotta di classe durante la crescita del capitalismo (ovvero la socialdemocrazia, ndr) non sono adeguate al suo periodo di declino, il quale permette solo il suo sovvertimento rivoluzionario. (...)
Ecco perché il Marxismo non può morire ma durerà fin quando il capitalismo esisterà. Siccome tutti i rapporti economici sono rapporti sociali, il continuare dei rapporti sociali in questi sistemi implica il continuare della lotta di classe, anche se, di primo acchito, solo nell’unilaterale forma di dominio autoritario. L’inevitabile e crescente integrazione dell’economia mondiale affligge tutte le nazioni senza dar conto alla loro particolare struttura socio-economica e tende ad internazionalizzare la lotta di classe e quindi a indebolire i tentativi per trovare soluzioni nazionali ai problemi sociali. (...) Il declino del capitalismo – reso visibile da un lato dalla continua concentrazione di capitale e dalla centralizzazione del potere politico, e dall’altro lato dalla crescente anarchia del sistema, malgrado, e a causa, di tutti i tentativi di realizzare una più efficiente organizzazione sociale – potrebbe essere una faccenda tirata per le lunghe. (...)
Inoltre, non è da escludere che la perseveranza del capitalismo porterà alla distruzione della società stessa. Poiché il capitalismo rimane suscettibile a crisi catastrofiche, le nazioni tenderanno, come hanno fatto in passato, a ricorrere alla guerra, per districarsi dalle difficoltà e a spese di altre potenze capitaliste. Questa tendenza include la possibilità di una guerra nucleare, e come stanno le cose oggi, la guerra sembra persino più probabile di una rivoluzione socialista internazionale. Benché le classi dominanti siano a completa conoscenza delle conseguenze, siccome hanno solo un limitatissimo controllo sulle loro economie, esse non hanno neanche un reale controllo sui loro interessi politici, e qualsiasi intenzione esse abbiano per evitare la mutua distruzione non influisce eccessivamente sulla probabilità del suo avvenire.
Il socialismo ora sembra non solo l’obbiettivo del movimento rivoluzionario dei lavoratori ma anche l’unica alternativa alla parziale o totale distruzione del mondo. Questo richiede, sicuramente, l’emergere di movimenti socialisti che riconoscano i rapporti di produzione capitalisti come l’origine della crescente miseria sociale e della minacciosa caduta in uno stato di barbarie. Comunque, dopo più di cent’anni di agitazioni sociali, questa sembra essere un’impresa disperata. Le contraddizioni del capitalismo, come un sistema d’interesse privato determinato da necessità sociali, sono riflesse non solo nella mente capitalista ma anche nella coscienza del proletariato (...) Le condizioni capitalistiche della produzione sociale forzano la classe lavoratrice ad accettare il suo sfruttamento come unico modo per assicurarsi il suo sostentamento. I bisogni immediati dei lavoratori possono essere soddisfatti solo sottomettendosi a queste condizioni e al loro riflesso nell’ideologia dominate. (...) Essi sono completamente consapevoli del loro status di classe, anche quando lo negano o lo ignorano, ma riconoscono anche i poteri enormi schierati contro di loro, i quali minacciano la loro distruzione nel caso in cui si permettessero di sfidare i rapporti della classe capitalista. È anche per questa ragione che essi scelgono una modalità d’azione riformista piuttosto che rivoluzionaria quando provano a strappare concessioni alla borghesia (...)
Il Marxismo rivoluzionario non è una teoria di lotta di classe come tale, ma una teoria di lotta di classe sotto specifiche condizioni di declino del capitalismo. Non può operare efficacemente in condizioni “normali” di produzione capitalistica ma deve attender la loro disfatta. Solo quando il cauto “realismo” dei lavoratori si tramuterà in irrealismo, e il riformismo in utopismo – cioè, quando la borghesia non sarà più capace di mantenersi eccetto che attraverso il continuo peggiorare delle condizioni di vita del proletariato – spontanee ribellioni evolveranno in azioni rivoluzionarie abbastanza potenti da sovvertire il regime capitalista.
È chiaro che il Marxismo originale non solo sottostimava la resilienza del capitalismo, ma anche facendo in tal mondo sovrastimava il potere dell’ideologia marxista di influenzare la coscienza di classe del proletariato (...). Ma una storia di fallimento è anche una di illusioni diffuse e di esperienze acquisite, se non per gli individui, almeno per la classe (...). A parte queste considerazioni, il proletariato sarà in ogni caso forzato dalle circostanze a trovare una via per assicurare la sua esistenza fuori dal capitalismo, quando questa non sarà più possibile all’interno. Benché la particolarità di tale situazione non può essere stabilita in anticipo, una cosa è chiara: ossia, che la liberazione della classe lavoratrice dalla dominazione capitalista può essere raggiunta solo attraverso la sola iniziativa dei lavoratori, e che il socialismo può essere realizzato solo attraverso l’abolizione della società classista tramite la fine dei rapporti di produzione capitalisti. La realizzazione di questo obbiettivo sarà il subitaneo verificarsi della teoria marxista e la fine del Marxismo.
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