Quando Trentin, D’Antoni e Larizza firmarono il famigerato accordo del luglio 1992, che sanciva la “cessazione del sistema di indicizzazione dei salari”, abolendo con ciò gli scatti di contingenza, non potevano non sapere che ne sarebbe conseguita una forte riduzione dei salari reali, anche se, nel Verbale d’intesa si parla di “mantenimento del valore reale delle retribuzioni e dei trattamenti pensionistici”. La verità, di cui negli anni successivi abbiamo avuto mille conferme con l’accertato impoverimento dei lavoratori, a volte trapela persino dal documento, dove si parla della “previsione di una parziale difesa del potere d’acquisto dei salari per i tempi di prolungata discontinuità contrattuale...”. Non solo si avalla la prassi dei datori di lavoro di lucrare speculando sul ritardo dei contratti, ma si stabilisce che la difesa del potere d’acquisto potrà essere solo parziale!
Tutti abbiamo udito le abituali lagnanze dei dirigenti sindacali: troppi capitali impiegati nella speculazione finanziaria, troppo pochi negli investimenti produttivi: nel documento del luglio 1992 si parla di canalizzare il risparmio verso gli investimenti, ma “promuovendo il ricorso al capitale di rischio” e dando “maggiore solidità e respiro alla Borsa” , e con la promozione di investitori istituzionali quali i fondi pensione, fondi chiusi, fondi locali. Quei fondi pensione, dal nome apparentemente così innocuo, che sono stati tra i maggiori protagonisti di spericolate operazioni finanziarie a danno delle industrie – gli Stati uniti insegnano – e che, a volte, hanno lasciato senza pensione chi aveva avuto fiducia in loro.
Capitale finanziario vuol dire imperialismo. Non si punta più alla conquista dei mercati prevalentemente tramite l’esportazione di merci, ma con l’esportazione di capitali, e, spesso e volentieri, col trasferimento delle imprese all’estero. Non sapevano tutto questo i “nostri” dirigenti sindacali?
Il verbale diceva: “per conseguire apprezzabili risultati nell’abbattimento dell’inflazione, rafforzare la competitività dei nostri prodotti sui mercati internazionali e garantire la stabilità del cambio, occorre rendere coerente la dinamica delle retribuzioni unitarie e del costo del lavoro con l’inflazione programmata”. (1) Come fa notare Andrea Fumagalli, c’era la garanzia che la Banca d’Italia non avrebbe svalutato la lira:
“La storia ci racconta che poco più di un mese dopo, il 9 settembre 1992, il Sistema Monetario Europeo (SME) collassa e la lira comincia la più grande svalutazione del dopoguerra: - 30% in un anno (superiore a quella della seconda metà degli anni Settanta). La forte instabilità valutaria e i vincoli posti dallo stesso Trattato di Maastricht portano il governo, guidato ...da Giuliano Amato a decretare una manovra finanziaria dell’ammontare di 90.000 miliardi, la prima di una lunga serie di Leggi finanziarie tese a smantellare lo Stato sociale...”. (2)
Ci sarebbero state tutte le condizioni per denunciare l’accordo, dato che gli impegni dello stato non erano stati rispettati. Invece, il 23 luglio 1993 – si aspettava sempre che si annunciassero le vacanze estive, in modo che l’ira dei lavoratori si diluisse nel tempo - gli incrementi dei salari furono definitivamente vincolati al tasso di inflazione programmato che, essendo una pura invenzione, non aveva niente a che fare con quello reale.
I titolari d’impresa dovevano “contenere i prezzi entro i livelli necessari alla politica dei redditi”, il governo si impegnava a contenere i livelli salariali degli statali e parlava della “costituzione di uno specifico Osservatorio prezzi”. A simili forme di “Astronomia” non abbiamo mai creduto. Si parlava anche della regolamentazione del lavoro interinale, allora “consentito alle aziende del settore industriale e terziario, con esclusione delle qualifiche di esiguo contenuto professionale”.(3)
Ovviamente il lavoro interinale si diffuse a macchia d’olio, i controlli dei prezzi divennero presto lettera morta, quelli sui salari furono efficaci e vincolanti.
Il verbale d’intesa propugnava anche l’uso del rapporto di lavoro flessibile, naturalmente “al fine di contenere al riduzione del personale”.
Tutti abbiamo udito le abituali lagnanze dei dirigenti sindacali: troppi capitali impiegati nella speculazione finanziaria, troppo pochi negli investimenti produttivi: nel documento del luglio 1992 si parla di canalizzare il risparmio verso gli investimenti, ma “promuovendo il ricorso al capitale di rischio” e dando “maggiore solidità e respiro alla Borsa” , e con la promozione di investitori istituzionali quali i fondi pensione, fondi chiusi, fondi locali. Quei fondi pensione, dal nome apparentemente così innocuo, che sono stati tra i maggiori protagonisti di spericolate operazioni finanziarie a danno delle industrie – gli Stati uniti insegnano – e che, a volte, hanno lasciato senza pensione chi aveva avuto fiducia in loro.
Capitale finanziario vuol dire imperialismo. Non si punta più alla conquista dei mercati prevalentemente tramite l’esportazione di merci, ma con l’esportazione di capitali, e, spesso e volentieri, col trasferimento delle imprese all’estero. Non sapevano tutto questo i “nostri” dirigenti sindacali?
Il verbale diceva: “per conseguire apprezzabili risultati nell’abbattimento dell’inflazione, rafforzare la competitività dei nostri prodotti sui mercati internazionali e garantire la stabilità del cambio, occorre rendere coerente la dinamica delle retribuzioni unitarie e del costo del lavoro con l’inflazione programmata”. (1) Come fa notare Andrea Fumagalli, c’era la garanzia che la Banca d’Italia non avrebbe svalutato la lira:
“La storia ci racconta che poco più di un mese dopo, il 9 settembre 1992, il Sistema Monetario Europeo (SME) collassa e la lira comincia la più grande svalutazione del dopoguerra: - 30% in un anno (superiore a quella della seconda metà degli anni Settanta). La forte instabilità valutaria e i vincoli posti dallo stesso Trattato di Maastricht portano il governo, guidato ...da Giuliano Amato a decretare una manovra finanziaria dell’ammontare di 90.000 miliardi, la prima di una lunga serie di Leggi finanziarie tese a smantellare lo Stato sociale...”. (2)
Ci sarebbero state tutte le condizioni per denunciare l’accordo, dato che gli impegni dello stato non erano stati rispettati. Invece, il 23 luglio 1993 – si aspettava sempre che si annunciassero le vacanze estive, in modo che l’ira dei lavoratori si diluisse nel tempo - gli incrementi dei salari furono definitivamente vincolati al tasso di inflazione programmato che, essendo una pura invenzione, non aveva niente a che fare con quello reale.
I titolari d’impresa dovevano “contenere i prezzi entro i livelli necessari alla politica dei redditi”, il governo si impegnava a contenere i livelli salariali degli statali e parlava della “costituzione di uno specifico Osservatorio prezzi”. A simili forme di “Astronomia” non abbiamo mai creduto. Si parlava anche della regolamentazione del lavoro interinale, allora “consentito alle aziende del settore industriale e terziario, con esclusione delle qualifiche di esiguo contenuto professionale”.(3)
Ovviamente il lavoro interinale si diffuse a macchia d’olio, i controlli dei prezzi divennero presto lettera morta, quelli sui salari furono efficaci e vincolanti.
Il verbale d’intesa propugnava anche l’uso del rapporto di lavoro flessibile, naturalmente “al fine di contenere al riduzione del personale”.
Il fascismo, per mantenere la lira a quota novanta rispetto alla sterlina, ridusse drasticamente i salari; ma, a guardar bene, Benito era un dilettante, perché doveva ricorrere a periodici atti di autorità mentre con gli accordi degli anni ’90 si è introdotta la riduzione programmata del salario reale. Nei dieci anni successivi al 1993 i salari, rispetto alla ricchezza complessiva prodotta, hanno perduto più di dieci punti percentuali.
Le condizioni politiche dell’Italia degli anni novanta erano estremamente diverse da quelle del periodo fascista, ma la politica economica restava sempre quella corporativa, di una collaborazione tra stato, industriali e sindacati. E’ vero che la collaborazione di questi ultimi nel fascismo era coatta, mentre negli anni novanta era volontaria, ma la sostanza economica del controllo dei salari era identica.
Da allora, persino il salario differito, cioè quella quota di salario accantonata per le pensioni, il trattamento di fine rapporto, è stato sempre più abbandonato alla speculazione privata.
Questi accordi costituiscono gli atti di resa, che Trentin, D’Antoni e Larizza hanno firmato a nome dei lavoratori italiani. Tutto ciò che è venuto dopo, le sconfitte del movimento operaio, la perdita di posti di lavoro nella grande industria, la crescente precarizzazione, il declino dei salari, l’impoverimento di massa, sono in gran parte conseguenze di questi accordi. Lo stesso governo Berlusconi non è altro che un loro esecutore testamentario.
Particolarmente speciose le giustificazioni che si diedero di questi accordi forcaioli. Si disse:
1) che la scala mobile generava inflazione. Gli scatti della scala non erano la causa, ma l’effetto dell’aumento del prezzo, al quale si adeguavano con un certo ritardo.
2) che la moderazione salariale avrebbe permesso di impiegare gli accresciuti profitti in investimenti, creando nuovi posti di lavoro. In realtà, i maggiori profitti furono impiegati in gigantesche operazioni finanziarie, e, dove ci furono investimenti, servirono solo a sostituire manodopera con macchine, creando nuova disoccupazione.
3) che l’eliminazione degli aumenti automatici avrebbero lasciato maggiore spazio alla contrattazione. Invece i contratti furono utilizzati per ricuperare in parte quegli adeguamenti all’inflazione che un tempo erano garantiti dalla scala.
Le condizioni politiche dell’Italia degli anni novanta erano estremamente diverse da quelle del periodo fascista, ma la politica economica restava sempre quella corporativa, di una collaborazione tra stato, industriali e sindacati. E’ vero che la collaborazione di questi ultimi nel fascismo era coatta, mentre negli anni novanta era volontaria, ma la sostanza economica del controllo dei salari era identica.
Da allora, persino il salario differito, cioè quella quota di salario accantonata per le pensioni, il trattamento di fine rapporto, è stato sempre più abbandonato alla speculazione privata.
Questi accordi costituiscono gli atti di resa, che Trentin, D’Antoni e Larizza hanno firmato a nome dei lavoratori italiani. Tutto ciò che è venuto dopo, le sconfitte del movimento operaio, la perdita di posti di lavoro nella grande industria, la crescente precarizzazione, il declino dei salari, l’impoverimento di massa, sono in gran parte conseguenze di questi accordi. Lo stesso governo Berlusconi non è altro che un loro esecutore testamentario.
Particolarmente speciose le giustificazioni che si diedero di questi accordi forcaioli. Si disse:
1) che la scala mobile generava inflazione. Gli scatti della scala non erano la causa, ma l’effetto dell’aumento del prezzo, al quale si adeguavano con un certo ritardo.
2) che la moderazione salariale avrebbe permesso di impiegare gli accresciuti profitti in investimenti, creando nuovi posti di lavoro. In realtà, i maggiori profitti furono impiegati in gigantesche operazioni finanziarie, e, dove ci furono investimenti, servirono solo a sostituire manodopera con macchine, creando nuova disoccupazione.
3) che l’eliminazione degli aumenti automatici avrebbero lasciato maggiore spazio alla contrattazione. Invece i contratti furono utilizzati per ricuperare in parte quegli adeguamenti all’inflazione che un tempo erano garantiti dalla scala.
Con tutto ciò, non bisogna idealizzare la vecchia scala mobile. Occorre dirlo, soprattutto per chi è entrato nel mondo del lavoro dopo il 1992. La borghesia, anche allora, si serviva largamente di metodi truffaldini per defraudare i lavoratori. I prezzi erano rilevati sulla base di un paniere che escludeva buona parte dei prodotti di largo consumo. Il paniere costituiva quasi un reperto di archeologia dei consumi. Ne facevano parte le candele, i pennini, e anche i non fumatori sapevano che il pacchetto delle nazionali semplici era come l’araba fenice – che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa . Questi prodotti non aumentavano di prezzo, perché pochi li usavano, oppure erano introvabili, e nascondevano l’ascesa degli indici dei prezzi. Antonio Moscato scrive: ”Questo meccanismo è stato perpetuato ancora fino agli anni Novanta: invece di calcolare il gas di città, il gasolio o la bombola, nel “paniere” c’era la fascina da ardere”. Particolarmente sottovalutato, allora e adesso, l’incidenza del costo della casa. “Quando le associazioni dei consumatori (riprese anche dai maggiori giornali) si sono domandate come è possibile che il costo dell’abitazione incida in Italia solo per il 9,3% nel “paniere” su cui si calcola la spesa della famiglia (come è possibile che chi guadagna due milioni al mese paghi solo meno di duecentomila lire d’affitto?) il presidente dell’Istat Luigi Biggeri ha risposto candidamente che ciò dipende dal fatto che viene effettuata una media tra chi paga l’affitto e chi non lo paga perché la casa è di sua proprietà, e per questo la percentuale si abbassa”.(4) Ancora oggi, in tempi di epidemia aviaria, vige la “media del pollo”: io mangio due polli, tu nessuno, statisticamente ne abbiamo mangiato uno a testa.
Non possiamo riporre la garanzia del nostro salario o della nostra pensione nelle mani dello stato borghese e dei suoi esperti di statistica. E’ ormai evidente la caduta in povertà, non solo di disoccupati e sottoccupati, ma anche di buona parte dei lavoratori salariati e pensionati, che non arrivano a fine mese. Si aggiunga la continua perdita delle tutele sociali, delle prestazioni sanitarie e previdenziali, la crescita delle tariffe, delle spese per l’istruzione, per i trasporti e per l’abitazione. Molti figli di lavoratori devono rinunciare agli studi universitari, che stanno ritornando ad essere un privilegio.
Sono benvenute, quindi, le proposte di organizzare la lotta per una nuova edizione della scala mobile, che avrebbe almeno la funzione di stabilizzare i salari. Per aumentarli, sarebbe necessaria una legge che riducesse l’orario di lavoro: questa, diminuendo fortemente il monte ore a disposizione degli imprenditori, porterebbe inevitabilmente ad un aumento del costo del lavoro, in altre parole, alla rivalutazione dei salari. Sarebbe una svolta che favorirebbe l’unificazione delle lotte dei lavoratori, con un impatto, anche politico, enorme.
Non possiamo riporre la garanzia del nostro salario o della nostra pensione nelle mani dello stato borghese e dei suoi esperti di statistica. E’ ormai evidente la caduta in povertà, non solo di disoccupati e sottoccupati, ma anche di buona parte dei lavoratori salariati e pensionati, che non arrivano a fine mese. Si aggiunga la continua perdita delle tutele sociali, delle prestazioni sanitarie e previdenziali, la crescita delle tariffe, delle spese per l’istruzione, per i trasporti e per l’abitazione. Molti figli di lavoratori devono rinunciare agli studi universitari, che stanno ritornando ad essere un privilegio.
Sono benvenute, quindi, le proposte di organizzare la lotta per una nuova edizione della scala mobile, che avrebbe almeno la funzione di stabilizzare i salari. Per aumentarli, sarebbe necessaria una legge che riducesse l’orario di lavoro: questa, diminuendo fortemente il monte ore a disposizione degli imprenditori, porterebbe inevitabilmente ad un aumento del costo del lavoro, in altre parole, alla rivalutazione dei salari. Sarebbe una svolta che favorirebbe l’unificazione delle lotte dei lavoratori, con un impatto, anche politico, enorme.
Michele Basso
22 febbraio 2006
note:
1) Verbale di Intesa dell’accordo del 31 luglio 1992.
2) Andrea Fumagalli: Derive Approdi n. 21, aprile 2002.
3) Verbale di intesa dell’Accordo del 23 luglio 1993.
4) Antonio Moscato, “Il meccanismo truccato della rilevazione dei prezzi”
1) Verbale di Intesa dell’accordo del 31 luglio 1992.
2) Andrea Fumagalli: Derive Approdi n. 21, aprile 2002.
3) Verbale di intesa dell’Accordo del 23 luglio 1993.
4) Antonio Moscato, “Il meccanismo truccato della rilevazione dei prezzi”
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