Il processo di trasformazione sociale ed economica in atto in Venezuela, la c.d. revolución bolivariana guidata da Hugo Chávez, è un argomento che continua a dividere la sinistra radicale e/o comunista, tra chi difende a spada tratta il “comandante” Chávez e chi, all’opposto, liquida l’argomento sbrigativamente considerando il Venezuela un regime militare (il Partito Comunista dei Lavoratori, per dirne uno).
Certo è che con la prima vittoria di Chávez alle elezioni presidenziali del dicembre ’98 è iniziato un processo di risveglio sociale e di ritrovata mobilitazione popolare che ha travolto nel giro di pochi anni gran parte del subcontinente, facendo dell’America a sud del Texas, per citare il linguista Noam Chomsky, il “luogo più progressista al mondo”.
Questa “primavera latinoamericana” è tuttora in corso e, nonostante alcune preoccupanti controtendenze - si veda su questo il recentissimo triste caso di Joaquín Pérez Becerra -, è nella Repubblica Bolivariana di Venezuela che ha trovato la sua espressione più radicale, soprattutto in seguito al fallito colpo di stato dell’opposizione antichavista nel 2002. Altri importanti paesi del radicalismo latinoamericano sono la Bolivia e Cuba, ma entrambi meriterebbero un discorso a parte; mi limito solo a dire che Cuba ha avuto un ruolo determinante nel passaggio del governo bolivariano verso posizioni socialiste e antimperialiste: Castro ha assunto di frequente un atteggiamento di “affettuosità paterna” nei confronti del giovane colonnello venezuelano.
La rinata visibilità internazionale, la ritrovata passione politica della popolazione e le numerose e importanti misure prese dal governo per ridurre povertà e diseguaglianza - finanziate grazie ai proventi derivanti dalla nazionalizzazione del petrolio - bastano a documentare come il Venezuela di oggi si presenti profondamente diverso da quello dei primi anni novanta.
Ma sono le riforme economiche l’aspetto più interessante del bolivarismo, soprattutto oggi dove per trovare esperienze di economia pianificata siamo costretti a rivolgerci verso totalitarismi ereditari come la Corea del Nord.
Chávez in questi anni ha rotto con il passato neoliberale: ha realizzato una vasta riforma agraria che ha intaccato i grandi latifondi, incentivato la nascita di cooperative, nazionalizzato varie industrie e compagnie, una parte del sistema bancario e finanziario (con la recente nascita di una borsa valori pubblica), qualche struttura turistica e alcuni settori in passato appartenenti allo stato, come la telefonia, l’elettricità e l’acqua, quasi sempre con ampi indennizzi. Come spiega Erik Toussaint, il ricorso all’indennizzo serve ad evitare condanne per il mancato rispetto dei trattati bilaterali sugli investimenti sottoscritti dal Venezuela. Il diritto internazionale, infatti, consente agli Stati di procedere a nazionalizzazioni se indennizzano correttamente i proprietari.
Si stanno inoltre sperimentando forme embrionali di controllo operaio delle industrie nazionalizzate, in seguito alla pressione di diverse organizzazioni operaie. Il movimento operaio venezuelano, infatti, va assumendo una coscienza di classe sempre più marcata e proprio in questi giorni a Ciudad Guayana si sta realizzando l’Encuentro Nacional por el Control Obrero y los Consejos de Trabajadores y Trabajadoras il cui motto è ¡Ni capitalistas ni Burócratas! Todo el Poder para los Trabajadores y Trabajadoras.
Difficile dire se queste nazionalizzazioni vanno realmente verso un progetto socialista di economia pianificata, come Chávez sostiene, rifacendosi in parte alle teorie sul Socialismo del XXI secolo di Heinz Dieterich. Sicuramente non c’è stata quella dissoluzione dei meccanismi e degli apparati tipici dello stato borghese di cui più volte ha parlato lo stesso Chávez e purtroppo il Venezuela continua, nonostante vaghi proclami internazionalisti e il genuino antimperialismo, ad avere una politica estera “classica” in cui ragion di stato (“spaventoso cancro che tutto divora” la definisce il marxista argentino Néstor Kohan) e meri interessi geopolitici spesso prevalgono sui principi.
Queste pesanti contraddizioni esprimono, in ultima analisi, il fragile compromesso fra retorica e pragmatismo presente fin dall’inizio della rivoluzione e sono forse un retaggio del caudillismo e del populismo tipici della storia latinoamericana. Ma la presenza di queste gravi contraddizioni non ha portato, almeno fino ad ora, ad un arresto o ad una stabilizzazione del processo bolivariano; in parte, e questa è un’opinione tutta mia, anche grazie alla sostanziale ignoranza culturale di Chávez che, soprattutto nella prima fase, ha impedito una fossilizzazione dogmatica della rivoluzione dando così spazio, all’interno del movimento, a voci diverse e eterogenee.
Per una rapida conclusione, si potrebbe dire che la rivoluzione bolivariana è una rivoluzione sociale a metà che rischia di rimanere tale e, come disse Louis de Saint-Just, “coloro che fanno una rivoluzione a metà non hanno fatto altro che scavarsi una tomba”. E’ compito dei rivoluzionari di tutto il mondo far sì che questo non accada e che la rivoluzione si completi.
Certo è che con la prima vittoria di Chávez alle elezioni presidenziali del dicembre ’98 è iniziato un processo di risveglio sociale e di ritrovata mobilitazione popolare che ha travolto nel giro di pochi anni gran parte del subcontinente, facendo dell’America a sud del Texas, per citare il linguista Noam Chomsky, il “luogo più progressista al mondo”.
Questa “primavera latinoamericana” è tuttora in corso e, nonostante alcune preoccupanti controtendenze - si veda su questo il recentissimo triste caso di Joaquín Pérez Becerra -, è nella Repubblica Bolivariana di Venezuela che ha trovato la sua espressione più radicale, soprattutto in seguito al fallito colpo di stato dell’opposizione antichavista nel 2002. Altri importanti paesi del radicalismo latinoamericano sono la Bolivia e Cuba, ma entrambi meriterebbero un discorso a parte; mi limito solo a dire che Cuba ha avuto un ruolo determinante nel passaggio del governo bolivariano verso posizioni socialiste e antimperialiste: Castro ha assunto di frequente un atteggiamento di “affettuosità paterna” nei confronti del giovane colonnello venezuelano.
La rinata visibilità internazionale, la ritrovata passione politica della popolazione e le numerose e importanti misure prese dal governo per ridurre povertà e diseguaglianza - finanziate grazie ai proventi derivanti dalla nazionalizzazione del petrolio - bastano a documentare come il Venezuela di oggi si presenti profondamente diverso da quello dei primi anni novanta.
Ma sono le riforme economiche l’aspetto più interessante del bolivarismo, soprattutto oggi dove per trovare esperienze di economia pianificata siamo costretti a rivolgerci verso totalitarismi ereditari come la Corea del Nord.
Chávez in questi anni ha rotto con il passato neoliberale: ha realizzato una vasta riforma agraria che ha intaccato i grandi latifondi, incentivato la nascita di cooperative, nazionalizzato varie industrie e compagnie, una parte del sistema bancario e finanziario (con la recente nascita di una borsa valori pubblica), qualche struttura turistica e alcuni settori in passato appartenenti allo stato, come la telefonia, l’elettricità e l’acqua, quasi sempre con ampi indennizzi. Come spiega Erik Toussaint, il ricorso all’indennizzo serve ad evitare condanne per il mancato rispetto dei trattati bilaterali sugli investimenti sottoscritti dal Venezuela. Il diritto internazionale, infatti, consente agli Stati di procedere a nazionalizzazioni se indennizzano correttamente i proprietari.
Si stanno inoltre sperimentando forme embrionali di controllo operaio delle industrie nazionalizzate, in seguito alla pressione di diverse organizzazioni operaie. Il movimento operaio venezuelano, infatti, va assumendo una coscienza di classe sempre più marcata e proprio in questi giorni a Ciudad Guayana si sta realizzando l’Encuentro Nacional por el Control Obrero y los Consejos de Trabajadores y Trabajadoras il cui motto è ¡Ni capitalistas ni Burócratas! Todo el Poder para los Trabajadores y Trabajadoras.
Difficile dire se queste nazionalizzazioni vanno realmente verso un progetto socialista di economia pianificata, come Chávez sostiene, rifacendosi in parte alle teorie sul Socialismo del XXI secolo di Heinz Dieterich. Sicuramente non c’è stata quella dissoluzione dei meccanismi e degli apparati tipici dello stato borghese di cui più volte ha parlato lo stesso Chávez e purtroppo il Venezuela continua, nonostante vaghi proclami internazionalisti e il genuino antimperialismo, ad avere una politica estera “classica” in cui ragion di stato (“spaventoso cancro che tutto divora” la definisce il marxista argentino Néstor Kohan) e meri interessi geopolitici spesso prevalgono sui principi.
Queste pesanti contraddizioni esprimono, in ultima analisi, il fragile compromesso fra retorica e pragmatismo presente fin dall’inizio della rivoluzione e sono forse un retaggio del caudillismo e del populismo tipici della storia latinoamericana. Ma la presenza di queste gravi contraddizioni non ha portato, almeno fino ad ora, ad un arresto o ad una stabilizzazione del processo bolivariano; in parte, e questa è un’opinione tutta mia, anche grazie alla sostanziale ignoranza culturale di Chávez che, soprattutto nella prima fase, ha impedito una fossilizzazione dogmatica della rivoluzione dando così spazio, all’interno del movimento, a voci diverse e eterogenee.
Per una rapida conclusione, si potrebbe dire che la rivoluzione bolivariana è una rivoluzione sociale a metà che rischia di rimanere tale e, come disse Louis de Saint-Just, “coloro che fanno una rivoluzione a metà non hanno fatto altro che scavarsi una tomba”. E’ compito dei rivoluzionari di tutto il mondo far sì che questo non accada e che la rivoluzione si completi.
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