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sabato 11 giugno 2011

Processi di crescita dimensionale e concentrazione oligopolistica nell'economia italiana, di Riccardo Achilli



Come è noto, il meccanismo di riproduzione allargata, presentato nel Capitale di Marx come la base stessa del funzionamento dell'economia capitalistica, richiede che, tramite l'estrazione di plusvalore, si generi una accumulazione di capitale costante e variabile, al netto della quota di plusvalore utilizzata per spese di consumo personale da parte dei capitalisti. Tanto per fare aritmetica elementare, suddividendo l'economia in due macro comparti (quello che si occupa della produzione dei beni di produzione – beni intermedi, macchine utensili, capannoni industriali, attrezzature di produzione, ecc., e quello che produce i beni di consumo finale) le condizioni di funzionamento della riproduzione allargata possono così riassumersi (utilizzando la notazione di Bucharin):

P1 = c1 + v1 + ac1 + av1 + b1

P2 = c2 + v2 + ac2 + av2 + b2

dove:
P è il valore della produzione finale;
c è il valore del capitale costante (macchinari, attrezzature e beni di produzione);
v è il valore del capitale variabile (sommatoria dei salari erogati alla forza-lavoro);
ac ed av sono gli incrementi di valore del capitale costante e variabile ottenuti dal reinvestimento del plusvalore estratto nella fase produttiva precedente;
b è la parte di plusvalore che esce dal ciclo di accumulazione, perché utilizzata per le spesucce personali del capitalista (yacht, Ferrari, amanti, ecc.);
1 e 2 sono rispettivamente il comparto dei beni di produzione e il comparto dei beni di consumo;
come è ovvio, il plusvalore s, prodotto al tempo (t-1), al tempo t è s = ac + av + b.
Questo meccanismo fondamentale di funzionamento del capitalismo ha, come è intuibile, rilevanti implicazioni. L'accumulazione costante di capitale aggiuntivo potrebbe implicare, da un lato, una tendenza alla concentrazione ed al gigantismo produttivo, poiché man mano che si stratifica nuovo capitale, la crescente complessità di gestione dello stesso, ed il crescente costo di riproduzione tenderebbero a favorire organizzazioni produttive sempre più grandi ed articolate. D'altro canto, l'accumulazione porterebbe ad una tendenza alla riduzione del saggio di profitto, sia perché con la stessa accumulazione si incrementa il valore del capitale costante, sia perché l'incremento del saggio di sfruttamento connesso all'esigenza di mantenere stabili i livelli di profitto porterebbe a non incrementare il capitale variabile, conducendo a crisi di sovrapproduzione, derivanti dalla compressione della domanda e dall'impossibilità di incrementare la produzione oltre i limiti fisiologici derivanti dall'estrazione di plusvalore assoluto e relativo (che, come è bene ricordare, è in realtà pluslavoro, perché Marx misura il valore in termini di lavoro occorrente per produrre la merce).
La tendenza del capitalismo al gigantismo ed alla concentrazione oligopolistica è l'oggetto principale di studio dell'economia neo-marxista, e si basa sul fondamentale lavoro di Sweezy e Baran, “Il capitale monopolistico”, nel quale si analizza, anche empiricamente, la tendenza dei mercati capitalistici verso la concentrazione oligopolistica tramite l'incremento della dimensione produttiva e patrimoniale delle imprese, la riduzione del tasso di concorrenzialità sui mercati e la conseguente creazione di una rendita oligopolistica a favore dei pochi players rimasti in piedi dopo i processi di concentrazione (rendita oligopolistica che, ovviamente, viene pagata dai consumatori finali, costretti a pagare un prezzo superiore a quello che si sarebbe determinato in una situazione di concorrenzialità elevata). La tendenza alla concentrazione oligopolistica è il frutto di due elementi.
il tentativo di contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto proprio tramite le creazione di una rendita oligopolistica;
l'esigenza di creare agglomerazioni produttive e societarie che abbiano la dimensione organizzativa e di mercato adatta per gestire efficientemente una massa di capitale sempre più grande, e per sostenerne il costo crescente di riproduzione (si pensi soltanto al peso crescente che gli ammortamenti hanno sul conto economico, man mano che il valore del capitale aziendale aumenta);
Tale tendenza è riscontrabile anche nell'economia italiana? La vulgata corrente considera l'economia italiana come il paradiso della piccola e piccolissima impresa. Una intera letteratura, da Becattini e Foà in poi, si è sviluppata attorno alle forme peculiari di organizzazione produttiva distrettuale e per sistemi produttivi locali del nostro Paese. Gli economisti più incompetenti, così come anche i politici, generalmente tendono a cercare di dimostrare l'assenza di rilevanti fenomeni di concentrazione produttiva e di valore aggiunto nella nostra economica sulla base dell'incremento costante del numero di imprese che si creano ogni anno, e di una dimensione media di impresa che è inferiore a quella degli altri Paesi capitalisti.
Con il breve esercizio che segue, cercherò di dimostrare che l'economia italiana, come ogni brava economia capitalista, è in realtà anch'essa caratterizzata da un processo di concentrazione, che procede ad un ritmo più lento rispetto alle altre economie capitaliste sviluppate (il che peraltro spiega la competitività strutturale decrescente che caratterizza il sistema produttivo italiano nello scenario globale) e con modalità e specificità diverse rispetto alel altre ecoomie capitalistiche sviluppate.

I processi di concentrazione in atto nell'economia italiana

In primo luogo, la banalità secondo cui l'economia italiana va verso una dimensione media sempre più piccola, e quindi sarebbe nel pieno di un processo di de-concentrazione, va meglio qualificata. In realtà, se si misura la dimensione media, in termini di addetti, delle imprese dell'industria e dei servizi, utilizzando la media entropica, tale processo di polverizzazione del sistema produttivo italiano può riscontrarsi negli anni 1971-2001, in coincidenza con processi strutturali di deverticalizzazione delle filiere produttive e di outsourcing, indotti da criteri manageriali basati sulla concentrazione sul core business, sull'outsourcing delle funzioni non strategiche, sulla riduzione dei costi fissi di struttura. Dal 2001 in poi, però, tale processo si inverte. Si assiste ad una reinternalizzazione di molte funzioni di servizio precedentemente espulse dai perimetri aziendali, ad un rafforzamento finanziario e patrimoniale delle imprese (che si manifesta anche tramite un incremento delle imprese aventi natura giuridica di società di capitali, ovvero la modalità giuridica più capitalizzata e robusta finanziariamente ed organizzativamente, che passano dal 10,8% del totale delle imprese attive nel 2001, al 17,8% a Marzo 2011, fonte: Infocamere) ed a una rapida crescita dimensionale.

Fig. 1 – Dimensione media, in termini di addetti, nel comparto dell'industria e dei servizi


Fonte:elaborazione su dati Istat

Quindi, negli ultimi dieci anni è in corso un rapido processo di concentrazione e crescita dimensionale, patrimoniale e finanziaria all'interno del nostro tessuto produttivo. Processo di concentrazione finanziaria che va di pari passo con una concentrazione in termini di redditività. Calcolando la concentrazione settoriale del valore aggiunto generato nell'industria e nei servizi mediante l'indice di Herfindahl1, infatti, si nota, nel periodo 1971-2007, una crescente concentrazione del valore aggiunto su un numero sempre minore di settori produttivi.
In altri termini, la generazione di ricchezza si concentra sempre più su un numero ridotto di settori, dove sono in corso processi di concentrazione dimensionale finanziaria. Vi è quindi un rallentamento della crescita del valore aggiunto nei settori in cui non si verificano processi di crescita dimensionale e finanziaria sufficientemente sostenuti, mentre accelera la creazione di ricchezza nei settori dove è in atto un processo di concentrazione e crescita dimensionale più rapido.

Fig. 2 – Andamento dell'indice di Herfindahl applicato al valore aggiunto nei settori dell'industria e dei servizi – anni 1971-2007

Quali sono i settori dove è in corso un processo di concentrazione, e quali invece quelli che sono ancora caratterizzati da una crescente dispersione? Per rispondere a questa domanda, si è proceduto a combinare, per ogni settore produttivo, due indicatori misuranti, rispettivamente:
- la crescita della dimensione produttiva, tramite l'andamento storico, fra 1981 e 2009, del numero medio di addetti per impresa;
- la crescita della dimensione finanziaria e patrimoniale, andando a calolare, per ogni settore produttivo, la percentuale di imprese aventi natura giuridica di società di capitali sul totale.
In questo modo, si è potuto ricavare che i settori produttivi che hanno sperimentato una crescita dimensionale e processi di concentrazione sono i seguenti
- fabbricazione di autoveicoli e loro parti;
- banche;
- fabbricazione di prodotti in gomma/plastica;
- produzione e distribuzione di acqua, gas ed elettricità (il cosiddetto settore delle utilities);
- raffinerie di petrolio e petrolchimica;
- metallurgia e prodotti in metallo;
- servizi di trasporto, logistica, magazzinaggio;
- fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici;
- fabbricazione di macchine ed apparecchi elettrici;
- commercio (investito dagli anni novanta dall'impetuosa crescita della grande - distribuzione organizzata, che ha spiazzato i piccol iesercizi al dettaglio),
- in misura minore, l'industria chimica.

Quali meccanismi alla base del processo di concentrazione?

Ho voluto infine testare l'ipotesi neo marxista secondo la quale i processi di concentrazione sono legati all'esigenza di creare rendite oligopolistiche che spingono verso l'alto il sagigo di profitto. Non esistendo una vera e propria misura del saggio di profitto, ho utilizzato una proxy, ovvero la remunerazione del capitale investito (fonte: Istat). Si ottengono i seguenti, a mio avviso interessanti, risultati:
- i settori con la più elevata remunerazione del capitale (ovvero con un valore di remunerazione del capitale per impresa superiore alla mediana) sono quelli che hanno sperimentato i più rapidi processi di crescita dimensionale, concentrazione e riduzione oligopolistica del grado di concorrenzialità, ovvero le banche (indice di remunerazione del capitale per impresa pari a 17,3 Meuro); le raffinerie di petrolio e petrolchimica (7,9 Meuro per impresa); le utilities idriche, energetiche e ambientali (3,2 Meuro); il settore automotive (0,7 Meuro); la chimica (0,7); le macchine ed apparecchi meccanici ed elettrici (0,2), i servizi di trasporto, logistica e magazzinaggio (0,2);
- negli altri settori sottoposti a processi di concentrazione e crescita dimensionale, dove invece il livello di remunerazione del capitale è più basso, si riscontrano, in serie storica (ovvero fra 1971 e 2007), i più elevati tassi di crescita dello stesso, e quindi stanno velocemente recuperando il gap di profittabilità rispetto agli altri settori concentrati. Ci si riferisce, in particolare, al commercio ed alla fabbricazione di articoli in gomma e plastica.


Quali conseguenze trarne?


- A mio avviso, in primo luogo, si conferma il legame fra tasso di profittabilità e concentrazione oligopolistica illustrato dall'economia politica neo marxista. I settori più concentrati sono quelli in cui si fanno i profitti più alti, o dove la profittabilità è in più rapida ascesa, in corrispondenza con i processi di concentrazione: si genera quindi un extra profitto da oligopolio, naturalmente alle spese del consumatore finale, oppure, qualora la pressione competitiva proveniente dal ocntesto globale o l'azione antitrust impediscano di traslare l'extraprofitto sui consumatori, ai danni dei lavoratori di tali settori. E' di tutta evidenza che se cresce la quota di valore aggiunto destinata a remunerazione del capitale, quella destinata a remunerazione del lavoro non può crescere allo stesso modo, oppure deve decrescere. Per usare termini marxisti, se cresce la quota di plusvalore destinata a capitale fisso, non può crescere allo stesso modo quella destinata a capitale variabile;
- i settori produttivi dove non si verifica crescita dimensionale o di tipo finanziario/patrimoniale sono sempre più emarginati dalla produzione di valore aggiunto, che si concentra sempre più nei settori oligopolistici. Pertanto, la polverizzazione di piccole e piccolissime imprese che caraterizza la nostra economia è un “velo di maia”, che nasconde una realtà di progressiva emarginazione dei settori produttivi maggiormente basati sulla piccola dimensione. Non di rado, poi, tali settori operano, nelle filiere produttive, in una posizione di sub fornitori o contoterzisti rispetto alle imprese dei settori oligopolistici, rivestendo quindi un ruolo marginale nella catena del valore;
- il discorso è però anche più complesso, perché non di rado in tali settori si verifica una crescita dimensionale, organizzativa e una riduzione del grado di concorrenzialità, perlomeno sui mercati locali, tramite le organizzazioni in rete di tipo distrettuale (o proprio di rete di impresa, uno strumento che st sperimentando un rapido successo), al cui interno si creano legami di collaborazione/collusione oligopolistica fra le imprese partecipanti. Quindi anche in questo caso si conferma l'ipotesi neo marxista di “oligopolizzazione” e concentrazione delle strutture produttive capitalistiche, solo che si realizza con una modalità molto particolare, e peculiare al nostro Paese;
- se l'ipotesi neo marxista è quindi accertata, non possiamo che, con un filo forse di ottimismo e presunzione, sperare che anche le conclusioni sul destino del capitalismo che il marxismo ed il neo marsxismo formulano, saranno, un giorno, verificate. Mi riferisco al fatto che, sempre secondo Sweezy e Baran, i crescenti extra profitti da oligopolizzazione dei mercati, non potendo trovare ulteriori sbocchi produttivi, vengono reinvestiti in spese improduttive (p. es. nella tenuta di elefantiache burocrazie aziendali, nel marketing, nel lobbyismo politico) ma anche nelle spesa militare ed imperialistica, con conseguenze di lungo periodo fatali al capitalismo stesso.

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