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mercoledì 13 luglio 2011

LA DOPPIA IMPOSTURA DELLA RIPRESA


di Serge Latouche*


Introduzione

Che cosa è la «ripresa»? E’ in sostanza quel che è stato proposto al vertice (G8 / G20) di Toronto, un programma che contiene allo stesso tempo sia la ripresa che l’austerità. La cancelliera tedesca Angela Merkel chiedeva una politica vigorosa di rigore e di austerità. Il presidente degli Usa Barak Obama, temendo di colpire la timida ripresa dell’economia mondiale e di quella statunitense con una politica deflazionista, chiedeva un rilancio ragionevole. L’accordo finale è stato raggiunto su una sintesi zoppicante: la ripresa controllata nel rigore e l’austerità moderata dal rilancio. Il ministro dell’economia francese Christine Lagarde, che non era ancora presidente del Fondo monetario internazionale, ha allora azzardato il neologismo «rilance» (contrazione di «rigueur e «rilance»). Con ciò sincronizzando il passo con il consigliere del presidente Sarkozy, Alain Minc, che, interrogato su quel che bisognava fare nella situazione critica provocata dalla destabilizzazione degli Stati da parte di mercati finanziari che i medesimi Stati avevano appena salvato dalla rovina, si è prodotto in questa ammirevole formula: bisogna schiacciare allo stesso tempo il freno e l’acceleratore.

In ogni modo, denunciare la doppia impostura di questo programma costituisce per me una tripla sfida.

Prima di tutto, si tratta parlare in questo luogo, nell’ambito del parlamento europeo a Bruxelles – tempio della religione della crescita – a partire da una posizione iconoclasta, la decrescita, per di più a proposito di una materia di cui non sono uno specialista, la Grecia e la crisi del debito sovrano.

Poi, si tratta di parlare in questo luogo – tempio della politica – a partire da una posizione da «scienziato» e dunque, per riprendere la distinzione e l’analisi di Weber, secondo l’etica della convinzione e non quella della responsabilità.

Infine, si tratta di sostenere un punto di vista paradossale: né rigore, né ripresa.

Rifiutare il rigore o l’austerità è una posizione sulla quale posso almeno trovare degli alleati (benché molto minoritari) sia tra gli economisti, ad esempio Fréderic Lordon, che tra i politici, come J-L Mélanchon secondo il suo attuale programma.

Rifiutare la ripresa della crescita produttivista e uscire dalla religione della crescita è una posizione ammessa da alcuni ecologisti sul lungo termine, ma del tutto esclusa nel breve termine.

E’ dunque a questa tripla sfida che cercherò di rispondere, a cominciare dai due rifiuti: quello del rigore e quello della ripresa.


Rifiutare l’austerità


La crisi greca si inscrive nel contesto più largo di una crisi dell’euro e di una crisi dell’Europa. E naturalmente di una crisi di civilizzazione della società del consumo, vale a dire una crisi che unisce una crisi finanziaria, una crisi economica, una crisi sociale, una crisi culturale e una crisi ecologica. La mia convinzione profonda è che, risolvendo la crisi dell’Europa e dell’euro, se non la crisi della civilizzazione dei consumi, si risolverà la crisi greca, ma che, tenendo la Grecia sotto trasfusione a colpi di prestiti condizionati a iniezioni sempre più massicce di austerità, non si salverà né la Grecia, né l’Europa, e si getteranno i popoli nella disperazione.

Rifiutare l’austerità presuppone prima di tutto cancellare due tabù che sono alla base della costruzione europea: l’inflazione e il protezionismo.

Il progetto della decrescita, ossia la costruzione una società dell’abbondanza frugale o della prosperità senza crescita, implica due fenomeni che hanno potuto essere gli oggetti di politiche sistematiche, nel passato: il protezionismo e l’inflazione. Le politiche tariffarie sistematiche di costruzione e ricostruzione dell’apparato produttivo, di difesa delle attività nazionali e di protezione sociale, e quelle di finanziamento del deficit di bilancio con un ricorso ragionevole all’emissione di moneta che provocasse una «gentle rise of price level» (una inflazione moderata) preconizzata da Keynes, hanno accompagnato l’eccezionale crescita delle economie occidentali nel dopoguerra, gli anni che in Francia sono stati chiamati «i trenta gloriosi». a dire il vero il solo periodo nella storia moderna in cui le classi lavoratrici hanno goduto di un relativo benessere.

Questi due strumenti sono stati banditi dalla controrivoluzione neoliberista, e le politiche che li vorrebbero prevedere sono oggi colpite da anatema, anche se tutti i governi che possono vi hanno fatto ricorso in maniera più o meno surrettizia e insidiosa.

Come tutti gli strumenti, il protezionismo e l’inflazione possono avere degli effetti negativi e perversi – e sono quelli che soprattutto si osservano oggi nel loro utilizzo nascosto (1) – ma è indispensabile farvi ricorso in modo intelligente per risolvere in modo soddisfacente, da un punto di vista sociale, le crisi attuali, ed evitare la catastrofe di una austerità deflattiva, ma anche il disastro certo di una ripresa produttivista.

Per questo oggi bisogna probabilmente uscire dall’euro, non potendo correggerlo. Bisogna riappropriarsi della moneta, che deve ritrovare il suo ruolo: servire e non asservire. Il denaro può essere un buon servitore, ma è sempre un cattivo padrone.

Notiamo per altro che la ripresa della signora Lagarde non è il rilancio produttivista di Joseph Stiglitz: è essenzialmente il rilancio dell’economia del casinò, quella della speculazione di borsa e immobiliare.

In effetti, per i governi in carica, lo slogan «sia ripresa sia austerità» significa la ripresa per il capitale e l’austerità per le popolazioni. In nome della ripresa, per altro largamente illusoria, degli investimenti e quella totalmente fallace dell’occupazione, vengono abbassati o soppressi gli oneri sociali, le imposte sulle professioni e l’imposta sugli utili delle imprese. Si rinuncia ad ogni imposizione sui super-profitti bancari e finanziari, mentre l’austerità colpisce duramente i salariati e i ceti medi e inferiori con tagli degli stipendi, riduzione delle prestazioni sociali, allungamento dell’età legale per la pensione (che significa concretamente la diminuzione del suo ammontare). Per completare il tutto, e preparare la mitica ripresa, si smantellano sempre più i servizi pubblici e si privatizza a tutta velocità ciò che ancora non è stato privatizzato, con una soppressione massiccia di posti di lavoro (nell’istruzione, nella sanità, ecc.).

Assistiamo a una strana corsa masochista all’austerità. Il Paese A annuncia una diminuzione dei salari del 20 per cento, allo stesso tempo il paese B annuncia che farà di meglio, con una diminuzione del 30 per cento, mentre il paese C, per non essere da meno si ingegna di aggiungere misure ancora più rigorose. Annunci per di più sommati alla pubblicità onnipresente, che incita a continuare a consumare sempre di più senza averne i mezzi e a indebitarsi senza la prospettiva di poter rimborsare il debito: bisogna in qualche modo espiare la pseudo festa del consumo pur continuando a sostenerla nella parte dei debitori.

Questa politica di austerità stupida non può che provocare un ciclo deflattivo che farà precipitare la crisi, ciò che la ripresa puramente speculativa non impedirà; e gli Stati dissanguati non potranno più, questa volta, salvare le banche a colpi di miliardi di dollari.

Questa politica non è solo immorale, ma è anche assurda. Otterremo il fallimento dell’euro, se non dell’Europa, e la catastrofe sociale.

In attesa di questa eventualità, se gli obiettori della crescita fossero incaricati di gestire gli affari della Grecia, per esempio, quale sarebbe la loro politica? Il ripudio puro e semplice del debito, ossia la bancarotta dello Stato, sarebbe una medicina da cavallo che risolverebbe il problema sopprimendolo. Tuttavia, questa soluzione radicale, che non è da escludere e avrebbe facilmente il favore dei «decrescitisti», rischierebbe di gettare il paese nel caos. Il problema è che, in effetti, in pratica la crisi dell’indebitamento degli Stati non è che una parte del problema. La risposta teorica alla sola questione del debito degli Stati che, anche per i più indebitati, è dell’ordine dell’ammontare del Pil, è per altri versi più facile a farsi di quella che concerne il trovare una soluzione per la bolla mondiale dei crediti nati dalla speculazione finanziaria (2). La minaccia di un rischio sistemico è lontana dal poter essere scartata.

Per quel che riguarda il debito pubblico, il suo annullamento rischierebbe di colpire non solo le banche e gli speculatori, ma anche direttamente o indirettamente i piccoli risparmiatori che hanno dato fiducia al loro Stato o che si sono fatti rifilare dalla loro banca, a loro insaputa, degli investimenti complessi che comprendono titoli dubbi. Una riconversione negoziata (che equivarrebbe a una bancarotta parziale), come quella che si è fatta in Argentina dopo il crollo del peso, o dopo un compromesso, come propongono Eric Toussaint e una coalizione di Ong per determinare la parte abusiva del debito, è senza dubbio preferibile. Si può anche prevedere di mantenere la quotazione dei titoli per i piccoli investitori e un deprezzamento per il 40 e il 60 per cento degli altri, o ancora ricorrere a un «haircut» fiscale (3). Per onorare il debito residuo, un aumento dei prelievi fiscali grazie a una tassa eccezionale sui profitti finanziari, come fa l’Ungheria, non sarebbe una cattiva idea, oltre che l’avvio di una fiscalità progressiva con, prima di tutto, nel caso francese l’abbandono reale dello scudo fiscale e delle nicchie scandalose.

In una società della crescita senza crescita, ossia più o meno la situazione attuale, lo Stato è condannato ad imporre ai cittadini l’inferno dell’austerità, con prima di tutto la distruzione dei servizi pubblici e la privatizzazione di quel che è ancora possibile vendere dei gioielli di famiglia. Facendo questo, si corre il rischio di creare una deflazione e di entrare nel ciclo infernale di una spirale depressiva. E’ precisamente per evitare questo che bisogna adoperarsi per uscire dalla società della crescita e di costruire una società della decrescita.


Uscire dalla religione della crescita


Di fronte a questa minaccia reale ci sono buoni spiriti, come Joseph Stiglitz, che raccomandano le vecchie ricette keynesiane del rilancio del consumo e dell’investimento per far ripartire la crescita. Questa terapia non è desiderabile. Non lo è perché il pianeta non può più sopportarla, ed è forse impossibile perché, dato l’esaurimento delle risorse naturali (in senso ampio) già dagli anni settanta, i costi della crescita (quando c’è) sono superiori ai suoi benefici. I guadagni di produttività che ci si può aspettare sono nulli o quasi nulli. Bisognerebbe privatizzare ancora e mercificare le ultime riserve di vita sociale e far crescere il valore di una massa immutata – o in diminuzione – dei valori d’uso, per prolungare solo di qualche anno l’illusione della crescita.

Tuttavia, questo programma socialdemocratico, che costituisce la missione dei partiti di opposizione, non è credibile, innanzitutto perché questi partiti non sono in grado di rimettere in questione la gabbia di ferro del quadro neoliberista che essi stessi hanno contribuito a costruire nel corso degli ultimi trent’anni, e che presuppone una sottomissione senza riserve ai dogmi monetaristi. L’esempio della Grecia è in questo abbastanza eloquente.

Si tratta di uscire dall’imperativo della crescita; altrimenti detto, di rifiutare la ricerca ossessiva della crescita. Che non è evidentemente (e non deve essere) uno scopo in sé; essa non rappresenta più il mezzo per abolire la disoccupazione (4). Bisogna tentare di costruire una società dell’abbondanza frugale, o per dirla come Tim Jackson di prosperità senza crescita.

In effetti, il primo obiettivo della transizione dovrebbe essere al ricerca del pieno impiego per rimediare alla miseria di una parte della popolazione. Questo potrebbe essere fatto con una rilocalizzazione sistematica delle attività utili, una riconversione progressiva delle attività parassitarie, come la pubblicità, o nocive, come il nucleare e gli armamenti, e una riduzione programmata e significativa del tempo di lavoro. Per il resto, è il ricorso a una inflazione controllata (diciamo più o meno il 5 per cento l’anno) quel che noi ci augureremmo. Questa soluzione keynesiana, che equivale al ricorso a una moneta complementare per stimolare l’attività economica senza per questo rientrare nella logica della crescita illimitata, faciliterebbe la soluzione dei problemi provocati dall’abbandono della religione della crescita.

Certo, questo bel programma è più facile da enunciare che da realizzare. Nel caso della Grecia, presuppone come minimo di uscire dall’euro e ristabilire la dracma, probabilmente non convertibile, con quel che questo implica: controllo dei cambi e ristabilimento delle dogane. Il necessario protezionismo di questa strategia provocherebbe l’orrore degli esperti di Bruxelles e dell’Omc. Bisognerebbe dunque aspettarsi delle misure di ritorsione e dei tentativi di destabilizzazione dall’estermo collegati al sabotaggio degli interessi lesi all’interno. Questo programma sembra perciò oggi molto utopico, ma quando saremo al fondo del marasma e della vera crisi che ci aspetta al varco sembrerà realistico e desiderabile.


Conclusione


Nella tragedia greca antica la catastrofe è la scrittura della strofa finale. Qui siamo. Un popolo vota massicciamente per un partito socialista il cui programma è classicamente socialdemocratico e, sotto la pressione dei mercati finanziari, si vede imporre una politica di austerità neoliberista da parte di quello stesso partito, che obbedisce alle ingiunzioni congiunte di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale. Rifiutare democraticamente questo diktat, quel che l’Islanda ha potuto fare, è impedito alla Grecia dall’euro. E’ chiaro che il popolo greco non accetterebbe probabilmente più, nella sua maggioranza, e comunque facilmente, le conseguenze delle rotture necessarie a un’altra politica (uscita dall’euro, disconoscimento almeno parziale del debito pubblico, messa al bando probabile da parte dell’Europa e embargo da parte dei paesi «derubati», fuga dei capitali, ecc.). Ma «il sangue e le lacrime», secondo la famosa frase di Churchill, sono già qui, purtroppo senza la speranza della vittoria. Il progetto della decrescita non pretende di fare un’economia di questo sangue e di queste lacrime, ma per lo meno apre la porta alla speranza. La sola maniera di cavarsela, noi ce lo auguriamo ardentemente, sarebbe di riuscire a fare uscire l’Europa dalla dittatura dei mercati e di costruire l’Europa della solidarietà, della convivialità, quel cemento del legame sociale che Aristotele chiamava «philia».

Note

(1) Secondo la Banca mondiale le conseguenze del protezionismo agricolo del Nord equivarrebbe a un mancato guadagno di 50 miliardi di dollari all’anno per i paesi esportatori del Sud. Il deputato verde tedesco Sven Giegold ne ha fornito un altro esempio con la politica fiscale tedesca per forzare le esportazioni.

(2) Secondo la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, in effetti, nel febbraio 2008 la creazione di prodotti derivati arrivava a 600.000 miliardi di dollari, ossia tra 11 e 15 volte il prodotto lordo mondiale! E qui, a parte il crollo, anche un «decrescitista» non ha una medicina miracolosa per un atterraggio morbido…

(3) E’ quel che ha proposto Thomas Piketti in un intervento sul giornale Libération del 28 giugno. Si tratta di far pagare alle banche una parte del rimborso del debito.

(4) Secondo il calcolo di Albert Jacquard («J’accuse l’economie triomphante», Calmann Lévy 1995 / Poche 2004, p. 63), si stima che una crescita del Pil francese del 4 per cento comporterebbe la diminuzione del tasso di disoccupazione del 2 per cento. A un tale ritmo, tra cinquant’anni il Pil sarà stato moltiplicato per sette (più 600 per cento), ma il numero dei disoccupati non si ridurrebbe che del 64 per cento. Dato che la disoccupazione, tutte le categorie incluse, riguardava nel 2010 5 milioni di persone, saremmo ancora molto lontani dal pieno impiego nel 2060, perché rimarrebbero un po’ meno di due milioni di disoccupati.

* Professore emerito di economia all’Université d’Orsay, obiettore della crescita.

Discorso tenuto a Bruxelles, in un seminario del Parlamento europeo

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