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giovedì 28 luglio 2011

LO SPETTRO DEL LEGIONARIO di Olympe de Gouges

di Olympe de Gouges


È passato solo qualche lustro da quando i soliti funzionari ebbri di buona coscienza liberale avevano dichiarato la fine delle ideologie, tranne la loro ovviamente. Era accaduto in coincidenza con gli avvenimenti del 1989 e dintorni, cioè nel momento in cui il sistema economico occidentale, convinto che l’astuzia della merce avesse vinto definitivamente, celebrava i suoi fasti anche sul piano politico-ideologico. Ora la borghesia, preso atto che si trattava di un miraggio, è costretta ad una nuova e lacerante consapevolezza, la stessa che sotto la sferza della crisi s’intrufola negli strati più profondi della coscienza di ciascuno, e cioè l’evidenza del tramonto del vecchio mondo.


E allora, in tempi di turbolenza montante, la borghesia è decisa a giocare d’anticipo, prima che alla fiaba dello “spettro rosso” subentri un movimento di rivolta reale che mandi tutto all’aria. Perciò arruola nuovi liquidatori del marxismo, i più impavidi legionari travisati da recuperatori dell’autentico Marx, in effetti i più fedeli revisionisti del suo pensiero. Da un lato essi rivelano con fluenti perifrasi che il rapporto capitale-lavoro e la poetica dell’alienazione sono esattamente quelle cose che qualunque salariato sperimenta da sempre; dall’altro si compiacciono nel sostenere che il Vecchio ineguagliabile critico dell’economia capitalistica in definitiva è uno spettro che non mette più paura, anzi, non fu poi così pessimista nella sua diagnosi del capitalismo. L’importante infine è stabilire con disincanto che questo sistema non ha alternative, e cioè rassicurare la maggioranza operosa che esso si mantiene stabile, quindi rafforzare i programmi di comportamento ritualizzato e riproduttivo.


Perché il recupero di un certo stereotipo di Marx alla causa borghese possa aver successo presso le platee acculturate al giusto prezzo, è necessario mettere in atto un’operazione di una qualche sofisticazione, che è poi quello che fa Diego Fusaro nel suo libro Bentornato Marx :


1) esaltare l’eccezionalità della rivoluzione epistemologica marxiana, presentando Marx come “fondatore di una scienza filosofica assai vicina alla Wissenschaft di Fichte e Hegel”; di contro, disconoscere qualsiasi rapporto fondativo di Marx col marxismo, ascrivendo invece l’ispirazione di tale movimento teorico-politico ai cattivoni Engels e Kautsky; in tal modo si butta via qualsiasi teoria e azione rivoluzionaria con l’acqua sporca dell’ideologia e si salva il buon nome del filosofo fichtiano-hegeliano accettandone il suo uso critico possibile;


2) rimarcare come il pluslavoro risulti “nella sua sostanza schiavistica” comune alle diverse epoche storiche, occultando per quanto possibile come invece esso solo nel modo di produzione capitalistico assuma la forma storica e determinata di appropriazione di lavoro non pagato e cioè di plusvalore; sorvolare disinvoltamente sulla contraddizione fondamentale che da ciò deriva e quindi sancire una damnatio memorie sulla teoria della crisi e della legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, intesa come mera “inferenza” smentita dai “fatti”;


3) infine, a coronamento, denunciare, sia pure senza nessun presupposto “filologico”, non solo la presunta perdita di fiducia da parte di Marx in “un’imminente crollo del capitalismo”, ma adombrare anche il suo pessimismo circa la possibilità stessa di un cambiamento radicale (tanto che per tale motivo avrebbe rinunciato a pubblicare il II e III Libro de Il Capitale), in tal modo facendo di Marx un critico del capitalismo senza prospettiva.


Sul primo punto è facile osservare che il marxismo, di qualsiasi tendenza, s’innesta senz’altro sui capisaldi irrinunciabili della critica e delle scoperte marxiane, e cioè: 1) sulla concezione materialistico-dialettica della storia che, nel superare l’idealismo e il vecchio materialismo, costituisce la legge dello sviluppo della storia umana e con essa la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata; 2) sulla scoperta del plusvalore e con essa del meccanismo dell’accumulazione e della legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, gettando con ciò un fascio di luce nell’oscurità in cui brancolavano, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti borghesi che i critici socialisti.


È fuori discussione che fu Marx, per primo, a dare coscienza al proletariato delle condizioni oggettive e specifiche in cui avviene lo sfruttamento della forza-lavoro, rafforzandone quindi anche in termini teorico-scientifici le ragioni dell’antagonismo. Allo stesso modo non v’è dubbio che il marxismo, nelle sue determinazioni contingenti, costituisce il movimento che, sulla base dei risultati della critica marxiana, ha come scopo l’organizzazione politica rivoluzionaria per l’emancipazione e la liberazione del proletariato moderno (che non deve diventare un tirocinio passivo). Pertanto che Marx sia il fondatore del marxismo è un dato entrato nella coscienza comune e un portato della storia che non può essere seriamente revocato in dubbio (*). Se una critica al marxismo del Novecento andava fatta e della quale né Marx e né Engels hanno parte, è quella che riguarda l’identificazione del progetto proletario in un’organizzazione gerarchica dove l’ideologia sopravvive incrollabilmente all’esperienza e al fallimento dei suoi risultati (**).


Per quanto riguarda la teoria marxiana della crisi, Fusaro la liquida con una battuta in riferimento alla legge sulla caduta tendenziale del saggio del profitto, sostenendo che essa sarebbe stata smentita della storia del Novecento (***). Tale affermazione è forse la più comica tra le tante presenti nel libro e conferma come l’autore sembri non avere la minima idea del fatto che ciascuna categoria dell’economia capitalista, essendo un rapporto, un’unità di opposti, contiene in sé la possibilità della crisi. È il movimento delle categorie economiche, considerate nella loro interdipendenza, a tradurre questa possibilità in necessità, dimostrando che il modo in cui s’iscrive lo sviluppo capitalistico, potendo avvenire solo attraverso successivi momenti di crisi, ha un carattere storico, transeunte, come storico e transeunte è il carattere dei concetti che ne definiscono le leggi e le proprietà.


Le crisi cicliche rappresentano momenti solo temporanei di risanamento del sistema. Nel momento in cui ristabiliscono (anche se in modo violento e con perdite di ricchezza) le condizioni della valorizzazione, il processo di accumulazione capitalistica riprende, benché con sempre maggiore difficoltà. Questo fatto di cogenza solare, indica di per sé che il modo di produzione capitalistico ha raggiunto il culmine della fase espansiva ed è entrato nella sua crisi generale-storica, laddove le sue insanabili contraddizioni minacciano non solo le sue stesse capacità di riprodursi, ma anche quella della società umana. D’altra parte, la discrasia tra l’enorme capacità e potenzialità delle forze produttive sociali e la sempre più miserabile prospettiva delle condizioni di vita delle masse minacciate dalla crisi, così come l’esaurirsi delle risorse, evince sempre più l’assurdità di questo sistema.


Resta inteso però che allo stesso modo in cui si debbono respingere le teorie del “crollo”, a cui incidentalmente si richiama anche Fusaro, vanno anche disattese le concezioni che deducono la necessità del comunismo dall’ingiustizia e dalla malvagità del capitalismo così come dalla pura volontà rivoluzionaria del proletariato. Come si può desumere da quanto detto nel paragrafo precedente, nella misura in cui la crisi nega la possibilità di uno sviluppo illimitato ed equilibrato dell’accumulazione capitalistica, allo stesso modo nasce la necessità e possibilità della rivoluzione per il superamento del sistema.


Nel movimento all’interno delle contraddizioni capitalistiche non c’è alcun automatismo ma processo dialettico. Pertanto, è assolutamente vero quanto scrive Fusaro, e cioè che Marx non rinunciò mai alla convinzione “che il modo di produzione capitalistico trapassasse dialetticamente in una nuova forma di vita e di produzione”, ma è assolutamente falso che Marx pensasse che “il movimento operaio non deve fare nient’altro che assecondare la storia, accompagnandola per mano attraverso il suo traguardo”. Non si tratta né di assecondare e nemmeno di accompagnare, cioè di disconoscere il fatto che il pensiero unitario della storia, per Marx e il proletariato rivoluzionario, non è affatto distino da una posizione pratica da adottare, tanto è vero che sia la I Internazionale che i soviet non sono una scoperta della teoria ma precisamente l’elemento pratico ove la teoria s’invera.


Tanto la crisi è una tendenza necessaria del modo di produzione capitalistico giunto alla sua piena maturazione, quanto la rivoluzione sociale diviene una tendenza cosciente che gli scava la fossa e, come ormai anche gli scolaretti sanno, «la violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica (Il Capitale, I, 24-6)» (****).


Ed è perciò che Fusaro quasi si duole perché nel Capitale, in cui “è l’istanza scientifica a prevalere”, non vi sia quasi più “spazio alcuno per la speranza e la filosofia della storia” e ciò sembri avvalorare l’idea di una “personalità scissa tra l’utopista e lo scienziato”. Frase questa, posta tra virgolette, tratta – come segnala lo stesso Fusaro – da un certo Carandini, il quale in uno sforzo immane di fantasia immagina che sia lo stesso Marx a pronunciarla. Intanto l’effetto voluto, la traccia, resta nella memoria del lettore. È un esempio dell’insistita operazione furba dell’autore, il quale non manca, riferendosi al Capitale, di scrivere che si tratta di un’opera “scientifica”, mettendo debitamente il termine tra virgolette, scrivendo poi “che esso è colmo di esortazioni morali e di prese di posizione ‘ideologiche’ e si configura essenzialmente come un’arma di battaglia propria di chi si schiera fin da principio con una parte (gli operai) contro l’altra (i capitalisti)”. Un altro esempio, questo, di come sia difficile trovare nel libro di Fusaro un’affermazione univoca, ovvero una tesi che non sia seguita subito dopo, oppure in un altro contesto, da un’altra di segno esattamente opposto. Non è casuale, è una tattica che punta a fare della dialettica un mero espediente espositivo. Del resto, l’autore ha come scopo quello di rendere Marx presentabile in una sala da tè.


È inoltre opportuno osservare che ci vorrebbe un bel coraggio scrivere, come fa Marx nel Capitale, del lavoro diurno e notturno di donne e bambini, delle leggi coercitive per il prolungamento della giornata lavorativa, della crisi dell’industria cotoniera, della condizione della classe operaia nel suo complesso o dell’espropriazione-espulsione della classe rurale dalle proprie terre, senza un minimo di considerazione morale, di quel sentimento d’umanità e di vicinanza per le vittime dello sfruttamento bestiale e del sopruso che Fusaro liquida come “posizione ideologica”. Del resto Fusaro, un pasticcione che umilia Marx, non sa dire nulla di suo a riferimento di una società dove è proibito invecchiare e non essere sempre efficienti, dove si è solo, quando va bene, mediocramente impiegati. Quindi di un sistema che falsifica lo scopo della produttività e dove la separazione della propria attività è anzitutto separazione dal proprio tempo, dove la confisca di questo costituisce la privazione della propria vita in un futile pseudo-ciclo che è solo discesa lineare verso l’inferno della schiavitù salariata, dell’anomia consumistica e dell’ipnosi spettacolare.


E veniamo brevemente alla questione della “sfiducia” che Marx, secondo le intuizioni di Fusaro, avrebbe dimostrato sia a riferimento del “crollo immediato”, sia a riferimento del suo più generale pessimismo sulla fine del capitalismo, tanto da farlo desistere dal pubblicare – congettura Diego – il seguito del primo Libro de Il Capitale, e cioè, precisa sempre Diego, i lavori i cui “cardini teorici sono la teoria della crisi e quella della circolazione”. Questa ipotesi andrebbe corroborata con dati di fatto, ma già Fusaro dice che non vi sono elementi “filologici” per farlo. A supporto la pubblica accusa cita che negli ultimi anni Marx avrebbe abbandonato i lavori di economia per dedicarsi agli studi antropologici sulle società precapitalistiche (che comunque non è lo studio dei microsporidi). Naturalmente Fusaro non prende in considerazione gli elementi “filologici” e di contesto storico che invece smentiscono questa sua gratuita illazione.


Marx scrisse il grosso della sua critica economica nel decennio 1850 e nei primi anni di quello successivo. Quindi passò, tra alti e bassi di ogni tipo testimoniati dalla sua corrispondenza con Engels, alla stesura definitiva per la stampa del I Libro de Il Capitale. Negli anni che seguirono, fu molto preso dalle questioni che travagliarono la I Internazionale e il movimento rivoluzionario europeo più in generale, per non parlare poi del periodo della Comune parigina. Egli si rendeva conto a quel punto che una fase della rivoluzione in Francia e in Europa s’era conclusa, come già era avvenuto nel 1848-’49. Che sia quindi sopraggiunta anche una certa stanchezza è normale, e andava ad aggiungersi all’aggravarsi del suo stato di salute e delle condizioni dei propri famigliari. Negli ultimi anni venne a mancargli la moglie ed egli trascorse gli ultimi periodi all’estero per cure (le lettere degli ultimi tempi confermano quale fosse, fatto umanamente comprensibile, la sua preoccupazione per il suo stato di salute già in forte declino). Senza togliere che il Moro era noto per essere un perfezionista esasperante, ma ciò nondimeno lasciò disposizioni precise sul suo lascito letterario alla figlia Tussy (Eleanor) e all’amico fraterno Engels (*****).



(*) Alla stessa stregua, cioè senza che alcuno se ne adonti, sono accomunati al darwinismo tutti coloro che si richiamano alla teoria dell’evoluzione delle specie, nonostante Richard Dawkins non condivida le posizioni di Niles Eldredge e Stephen Jay Gould andasse per un’altra strada ancora. Per i marxisti si alzano alti lai poiché essi non si occupano di fossili ma di materia viva. Come osservò più tardi lo stesso Lenin, se gli assiomi della geometria urtassero gli interessi degli uomini, si cercherebbe in ogni modo di confutarli. La bubola di Fusaro tendente a negare la paternità di Marx sul marxismo trova antecedenti storici già nell’epoca in cui viveva il Moro. Vale forse la pena riportare come il tentativo maldestro di addebitare il marxismo (ideologia cattiva) a Engels, abbia una lunga storia, fin dagli albori della collaborazione tra Marx ed Engels. Scrive quest’ultimo in una lettera a E. Bernstein del 20 aprile 1883: «La commedia del cattivo Engels che ha traviato il buon Marx è stata recitata innumerevoli volte dal 1844 in poi, alternandosi con l’altra su Marx-Arimane, che ha allontanato Engels-Oromaze dalla via della virtù». Un altro episodio ha per oggetto Franz Mehring, il quale verso la fine degli anni 1870 si era avvicinato alla socialdemocrazia e poi se ne era allontanato. Mehring aveva sottolineato, in un articolo pubblicato nel 1882 sul Weser-Zeitung, come dopo la promulgazione della legge contro i socialisti, Marx non avesse avuto più nulla a che fare con la socialdemocrazia, e che non c’era più nessun collegamento tra Marx ed Engels e il Sozialdemokrat, che Mehring definiva come l’organo di stampa del banchiere Karl Höchberg. In seguito a questo articolo la redazione del Sozialdemokrat pubblicò una tagliente dichiarazione contro Mehring. Sulla reazione di Marx ed Engels vedi lettera del 3 agosto 1882.

Sulla vexata quaestio del «Tutto quello che so è di non essere marxista», ho già detto qui. Interessante è anche la lettera di Marx a Sogre del 5 nov. 1880 che si può leggere in questo link. Essa dimostra l’attività e l’impegno profuso da Marx fin verso la fine della sua vita nel sostenere e consigliare il movimento operaio; del programma di fondazione del Parti Ouvrier, nella parte redatta da Marx, si dimostra come questi non disconosca la forma individuale della piccola proprietà, accanto alla proprietà collettiva, come caratteristica della società libera. Già nel Manifesto tale concetto era chiaro: «Quel che contraddistingue il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese».


(**) Le condizioni di arretratezza e di accerchiamento nelle quali si trovò costretta l’organizzazione del proletariato sul modello bolscevico favorì la conquista del monopolio statale di una classe di funzionari e burocrati di partito (intellettuali divenuti “rivoluzionari di professione”) che si troveranno ad essere i veri proprietari del proletariato, la direzione assoluta della società.


(***) «Le frasi apologetiche per negare le crisi intanto sono importanti in quanto esse dimostrano sempre il contrario di ciò che vogliono dimostrare. Esse – per negare la crisi –, affermano l'unità là dove esiste antitesi e contraddizione. Dunque, intanto sono importanti in quanto si può dire: esse dimostrano che se di fatto le contraddizioni da esse eliminate con la fantasia non esistessero, non esisterebbe neanche la crisi. Ma in realtà la crisi esiste, perché queste contraddizioni esistono. Ogni ragione che essi sostengono contro la crisi è una contraddizione eliminata con la fantasia, quindi una contraddizione reale, quindi un motivo della crisi. Questo desiderio fantasioso di negare le contraddizioni non fa che confermare le contraddizioni reali di cui ci si augura proprio l'inesistenza” (Teorie del plusvalore, II, parte IV, “Le crisi”).


(****) Scrive Engels nel II cap. dell’Anti-Dühring: «è chiaro che tutti i fenomeni economici si devono spiegare partendo da cause politiche, cioè dalla violenza. E colui al quale ciò non basta è un reazionario travestito».

(*****) Per chi ne avesse interesse rinvio la questione alla Prefazione di Engels del III Libro de Il Capitale, laddove tra l’altro si legge: «Dai primi giorni della nostra attività pubblica, una buona parte del lavoro di contatto fra i movimenti nazionali dei socialisti e degli operai nei diversi paesi ricadde su Marx e su di me: questo lavoro aumentò col rafforzarsi del movimento nel suo complesso. Mentre però, anche in questo settore, Marx si era assunto, fino alla sua morte, l’onere maggiore, da allora in poi il lavoro sempre crescente ricadde solo su di me.

[…] Fra il 1863 e il 1867 Marx aveva non solo preparato in abbozzo i due ultimi libri del Capitale e in stesura definitiva il primo, ma anche svolto il lavoro gigantesco inerente alla fondazione e allo, sviluppo dell’Associazione internazionale degli operai. In conseguenza però già nel 1864 e ‘65 apparvero sintomi molto seri di quei disturbi cui si deve se Marx non ha potuto provvedere lui stesso alla stesura definitiva del II e del III Libro».

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