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giovedì 1 settembre 2011

Per una riconciliazione fra marxismo e psicoanalisi, di Riccardo Achilli


Introduzione

La storia del marxismo e della psicoanalisi hanno numerosi punti di contatto, e veri e propri tentativi di realizzazione di costruzioni teoriche comuni, anche tramite esperimenti pratici in cui si utilizzarono i metodi della psicoanalisi in un quadro di obiettivi marxisti. Tuttavia, questa storia è, per utilizzare una metafora, come quella di due amanti che sono fortemente infatuati, ma che non arrivano a comprendersi vicendevolmente in modo soddisfacente, anche e soprattutto rispetto alle reciproche e notevoli differenze, per cui dall'infatuazione non riescono a costruire un rapporto stabile e pienamente appagante, e finiscono per abbandonarsi.
La finalità di questo articolo è quella di proporre una ricostruzione del rapporto fra marxismo e psicoanalisi, ovviamente partendo da basi diverse rispetto al passato, e riconoscendo i fallimenti, ma anche gli avanzamenti, sul terreno della loro ricerca di un campo comune di analisi e prassi. Per fare ciò, si analizzerà in modo molto sintetico la nascita della scienza psicoanalitica, per poi evidenziare gli approcci che, sia in campo psicoanalitico che marxista, hanno tentato di costruire un campo comune fra le due discipline, mettendo in luce gli errori che hanno spesso condotto al fallimento tali tentativi, ed infine riproporre la necessità, ed urgenza, di una “ricostruzione” del rapporto perduto fra marxismo e psicoanalisi.
Non si prenderà in considerazione il tentativo di sviluppare una rifondazione radicale della psicoanalisi in chiave rivoluzionaria effettuato da Deleuze e Guattari, e che come noto portò alla elaborazione dell'ipotesi di “schizoanalisi” (che rimase pura ipotesi di lavoro). Infatti, chi scrive ritiene che lo sviluppo di tale ipotesi conduca ad esiti non rivoluzionari, perché l'idea di un desiderio che precede le forme fisiche, e che in qualche modo le prefigura e produce una soggettività di per sé inesistente, ovvero di una “grande macchina desiderante” con finalità produttive delle stesse forme soggettive, che la schizofrenia (intesa, ovviamente, non in senso clinico, ma in senso idealistico o “romantico”, come ebbe a dire Guattari) dovrebbe liberare dalla gabbia della repressione familistica e borghese, in realtà conduce al capitalismo stesso. Tale sistema, infatti, vive proprio generando continuamente flussi di desideri, in larga parte manipolati, tramite i quali compensare gli effetti psicologici dell'alienazione e dell'isolamento dell'individuo dai suoi simili e da sé stesso, sviandone continuamente l'autorealizzazione personale, in nome del soddisfacimento di desideri artificiali (volendo, la “macchina del desiderio” capitalista è alla base di quella civiltà dell'avere che, secondo Fromm, è la base della “malattia collettiva” generata dal capitalismo). Delle intuizioni di Deleuze e Guattari rimangono comunque alcuni aspetti di grande interesse, come la critica al sistema freudiano classico, ma anche l'idea di rivoluzione “molecolare” basata sulla “micropolitica” di liberazione del desiderio dalle gabbie repressive create dal capitalismo (in collaborazione con il sistema freudiano tradizionale) e che scompone l'unitarietà di un corpo “totalitario” (sia questo anche un corpo rivoluzionario). Queste idee rappresentano intuizioni importanti, in chiave di organizzazione di una rivoluzione futura. Su questi singoli aspetti delle idee di Deleuze e Guattari si tornerà.
Chi scrive ringrazia il compagno Lorenzo Mortara ed il compagno Stefano Zecchinelli per gli spunti interessanti che gli hanno fornito, e che hanno arricchito il quadro, pur rimanendo ovviamente totalmente responsabile di ciò che è scritto nel presente articolo.

La nascita della psicoanalisi: un terremoto scientifico e filosofico

La psicoanalisi ha una gestazione lunghissima, le cui radici coincidono con quelle del pensiero filosofico. Il primo scritto che abborda temi psicologici è infatti il De Anima di Aristotele, in cui si definisce l'anima come sostanza (non materia, che in Aristotele è cosa ben diversa) del corpo umano, e si analizzano ruoli e funzioni dei sensi. Ma è solo con il fiorire del positivismo ottocentesco, e con la sua fiducia nella possibilità di conquistare la conoscenza totale tramite il metodo scientifico (quindi l'enunciazione di principi, effettuata partendo dall'osservazione del reale, da confermare o rigettare tramite il metodo sperimentale ed empirico) che la psicologia esce dalla speculazione filosofica, e si struttura autonomamente come scienza vera e propria, connotata dal suo sistema di principi, dalle sue scuole di pensiero, dal suo metodo di indagine e dalle sue tecniche terapeutiche.
Non è qui il caso di riassumere, nemmeno per sommi capi, le diverse teorie che contribuirono alla formazione della prima dottrina psicoanalitica vera e propria, ovvero quella freudiana. Si può, in modo estremamente sintetico e semplicistico, differenziare fra teorie che indagano la base organica e sensoriale del disturbo psichico (che daranno nascita alle teorie del riflesso, ammirevolmente sviluppate, nella stessa Urss, da Pavlov, nonché alla psichiatria moderna) da quelle che, pur riconoscendo l'importanza della base fisiologica, indagano i disturbi psichici con una lente idonea a curare l'anima (mi si perdonerà l'utilizzo del termine anima, non del tutto corretto sotto il profilo psicoanalitico), partendo dal linguaggio stesso dell'anima, ovvero la simbologia del mito e della leggenda. Si può anche differenziare quel filone che si focalizza sulla cura del comportamento esterno, studiando in modo principale le relazioni funzionali fra il paziente ed il suo ambiente (scuola comportamentista) ed il filone che analizza la psiche nei suoi legami strutturali profondi, che sfuggono al condizionamento sociale immediato, e che sfocerà in quell'enorme progresso scientifico, ed a mio avviso anche filosofico, che è la scuola junghiana.
L'emergere della psicoanalisi in forma strutturata, negli ultimi anni del XIX secolo, è da attribuirsi a Sigmund Freud. La sua più grande scoperta, che per molti versi ribalta lo stesso positivismo, che tanta spinta aveva dato alla formazione della scienza psicologica, è quella dell'inconscio (o meglio, più che di scoperta si dovrebbe parlare di riutilizzo del concetto, già trattato in ambito poetico e filosofico, in ambito scientifico e medico) ovvero del luogo psichico nel quale si agitano impulsi, istinti e pulsioni, non di rado primordiali, del tutto sconosciuti alla coscienza, ma che tramite i sogni, i lapsus, gli atti mancati, se non addirittura le esplosioni psicotiche, manifestano la loro esistenza, e cercano di condizionare il comportamento cosciente. In estrema sintesi, il sistema freudiano contempla una suddivisione della mente per strati, dove all'inconscio si contrappone il Super Io, ovvero l'istanza psichica che contiene i precetti morali, valoriali e comportamentali prodotti dalla civiltà nella quale il soggetto vive, e la cui funzione è di consentire l'adattamento sociale dell'individuo, rimuovendo gli impulsi inconsci contrari ai precetti accettati dalal morale sociale. Infine, l'Io è la funzione mediatrice, che cerca di adattare le esigenze impulsive ed istintuali provenienti dall'inconscio con le esigenze di relazionalità sociale espresse dal Super Io.
Secondo Freud, i due impulsi inconsci principali sono costituiti dal principio di piacere, che in termini di energia psichica si identifica nella libido, che si esprime fondamentalmente sotto la forma di desiderio sessuale, nonché il principio di morte, ovvero una spinta verso la calma e la staticità della non-esistenza, e che in termini di energia psichica si traduce nella destrudo, ovvero nel desiderio di distruzione ed autodistruzione. E' chiaro che la sessualità assume una funzione primaria, pressoché esclusiva rispetto a tutte le energie creative dell'individuo, all'interno del pensiero di Freud. Egli afferma che la sessualità esiste sin dalla nascita (nasciamo “poliformicamente perversi”, e già l'espressione “perversi” indica chiaramente, come un evidente esempio di lapsus freudiano, i limiti piccolo borghesi e reazionari del sistema freudiano, sui quali torneremo nel prosieguo) che la maturità sessuale passa per il tramite del superamento di complessi infantili di natura incestuosa (complessi di Edipo e di Elettra) e che l'eziologia delle nevrosi è essenzialmente basata sulla repressione dei desideri sessuali attuata dal Super Io (e quindi, in ultima analisi, dal sistema culturale e morale della società).
Cosa propone però la tecnica psicoanalitica freudiana per guarire questo mondo così malato di sessualità repressa? Certo, in parte, anche una sessualità più sana e libera, ma soltanto ed esclusivamente nei limiti consentiti dalla morale attuale della società in cui si vive (e nel caso della fase del capitalismo in cui viveva Freud, stiamo parlando di limiti molto ristretti), poiché il fine ultimo, e quindi fondamentalmente la natura reazionaria e piccolo-borghese del freudianesimo, consiste nel miglioramento dell'adattabilità sociale del soggetto. La parte di sessualità non liberabile in quanto tale va “sublimata”, ovvero orientata verso altre finalità, di tipo creativo (lavoro intellettuale, culturale o artistico). In altri termini, lasciando parlare Freud, “la pulsione sessuale mette a disposizione del lavoro culturale delle quantità di energia estremamente grandi; e ciò è dovuto alla peculiarità particolarmente accentuata in essa di poter spostare la sua meta senza ridurre sensibilmente la propria intensità. Questa capacità di scambiare la meta sessuale originaria con un'altra meta che non è più sessuale, ma è psichicamente imparentata con la prima, viene chiamata capacità di sublimazione”.
Quindi, di fatto, il metodo freudiano è teso alla conservazione degli assetti borghesi esistenti. Limita l'analisi delle nevrosi a mere distorsioni nella sfera sessuale; cura tali distorsioni incanalando l'energia sessuale inaccettabile dagli assetti sovrastrutturali esistenti, e quindi potenzialmente sovversiva, verso un lavoro intellettuale, culturale o creativo che ovviamente solo una piccolissima frazione della società, di norma la più istruita e quella con maggiore tempo libero e migliori strumenti culturali (e quindi di norma quella appartenente alle classi sociali più ricche, o dominanti) può svolgere (ed un lavoro creativo svolto di norma da esponenti delle classi dominanti ha ben poco potenziale rivoluzionario). Una espressione efficace ci dice che Freud stesso, da piccolo-borghese qual'era, si spaventò delle enormi potenzialità del calderone inconscio che aveva appena scoperchiato, e si premurò di richiuderlo ermeticamente, prima che l'enorme energia di impulsi inconsci e irrazionali distruggesse il suo stesso mondo.

Wilhelm Reich gli esperimenti di coalizione fra psicoanalisi e marxismo

Contro la natura reazionaria del sistema freudiano si erse uno dei più brillanti allievi di Freud stesso, ovvero l'austriaco Wilhelm Reich (1897-1957). Rampollo di una ricca famiglia borghese nell'impero austro-ungarico, ebrea ma non praticante, fu segnato per sempre dalle tragedie che la distrussero (a 13 anni perse la madre, che si suicidò dopo che il piccolo Wilhelm, innocente come tutti i bimbi, raccontò al padre della sua relazione segreta con il tutore, a soli 17 anni dovette farsi carico del patrimonio di famiglia, dopo la morte del padre. Con l'inglobamento in territorio polacco di tutte le sue proprietà, dopo la grande guerra, cadde in estrema miseria e dovette trasferirsi a Vienna, vivendo di piccoli lavori). Questi avvenimenti estremi modellarono la personalità di Reich, rendendola estremamente anticonformista, soprattutto in materia di libertà sessuale e di relazioni, ma anche in campo politico e sociale.
Dal 1922 psicoanalista freudiano, fin da subito si discostò dal suo maestro, insoddisfatto per la gabbia reazionaria e piccolo-borghese dentro la quale Freud aveva costretto l'analisi dell'inconscio. Nel “Carattere Pulsionale” del 1925, confrontava un panel di nevrotici con inibizioni pulsionali con uno composto da soggetti pulsionalmente disinibiti (affetti cioè da disturbi borderline). Fu qui che per la prima volta si accorse che alcuni problemi potevano avere una relazione con la condizione sociale dei pazienti, e non semplicisticamente con repressioni sessuali, come affermava Freud. In particolare, le nevrosi sembravano essere un fenomeno di massa, e quindi andavano studiate anche sotto il profilo sociologico, cosa che cozzava contro l'ostinata neutralità politica di Freud stesso. Nel 1927, si consuma la rottura definitiva con Freud. Nel suo libro “La Funzione dell'Orgasmo”, di quell'anno, Reich asserì infatti che “la salute mentale di una persona può misurarsi dal suo potenziale orgasmatico”, spingendo all'estremo le teorie sessuali di Freud, oltre quanto lo stesso Freud fosse disposto ad andare, e quindi rigettando i metodi di sublimazione, sostenendo che questi fossero in realtà un modo per bloccare la libera espressione sessuale della personalità.
La primazia dell'energia sessuale porta anche Reich a confutare il ruolo della pulsione di morte, cui Freud, invece, nella sua ultima fase, annetteva una importanza crescente, e che Reich finì per considerare soltanto come una energia secondaria, derivata dall'insoddisfazione dell'appetito sessuale. Inoltre, abbandonò le tecniche terapeutiche freudiane, spostando il focus delle sedute dal lettino all'osservazione diretta dei movimenti muscolari (infatti, sempre secondo Reich, “la psiche e la struttura muscolare volontaria sono funzionalmente equivalenti”) ed al contatto fisico con il paziente, effettuato mediante tecniche di rilassamento delle contrazioni muscolari o dei tic cronici.
Ulteriore elemento di rottura con Freud: nel 1927, Reich aderisce al partito comunista austriaco. Scrive due testi fondamentali, “La rivoluzione Sessuale” e la “Psicologia di Massa del Fascismo” (1933), che focalizzano le sue idee politiche. Riprendendo anche il testo di Engels “Le Origini della Famiglia, della Proprietà Privata e dello Stato”, in cui lo studioso di Barmen evidenzia come il passaggio storico dalla famiglia matriarcale a quella patriarcale sia stato un elemento di segregazione della donna, e di incremento delle caratteristiche autoritarie e repressive nell'ambito delle relazioni familiari, Reich sostiene che la maggior parte della popolazione vive in condizioni di repressione sessuale, volute e create dal potere dominante, poiché questo consente di disporre di individui passivi, disposti a obbedire al capo di turno. La struttura familiare patriarcale ed autoritaria nella quale viviamo consente facilmente di trasporre tale modello sulla sfera politica, creando adesione cieca ad una figura di capo-padre della Patria. La teoria nazista della razza superiore è quindi una compensazione psicologica della repressione sessuale attuata già all'interno dell'educazione familiare. Il taylorismo, quindi la divisione del lavoro, la sua sottoposizione alle macchine utensili e la gerarchia di fabbrica sono ulteriori forme di perpetuazione della gerarchia familiare fatta di ruoli rigidi e predefiniti, e le conseguenze della repressione della sfera sessuale, che impedisce la liberazione delle energie creative dell'individuo, rendendolo uno schiavo passivo delle macchine e delle organizzazioni della produzione. Con questa lettura, il fascismo è, per Reich, "l’espressione politicamente organizzata della struttura caratteriale umana media" in quanto costituisce "l’atteggiamento fondamentale dell’uomo autoritariamente represso dalla civiltà delle macchine”.
Coerentemente con tale modo di pensare, è chiaro che la classe sociale più colpita da tale repressione sia quella proletaria, che non può accedere alle costose terapie psicoanalitiche, che non può “sublimare” le sue pulsioni, che dispone di minore cultura in materia sessuologica, e che quindi più difficilmente può avere una vita sessuale libera e consapevole, che non dispone di risorse per l'accesso ai metodi contraccettivi, e che quindi molto rapidamente si trova intrappolata in vincoli familiari in cui la numerosa prole deve essere mantenuta con le poche risorse economiche del lavoro proletario, deprimendo per sempre il libero desiderio sessuale (significativa è la ricerca di Reich sul fenomeno delle madri proletarie adolescenti, in cui dipinge l'ambiente crudo, senza amore, non di rado violento, entro il quale tali madri ed i loro figli vengono costretti a vivere, generando ulteriori castrazioni sessuali sulle future generazioni di proletari). Coerentemente con ciò, Reich (che nel frattempo si era trasferito a Berlino) inaugura nel 1931 la Sexpol, ovvero una rete di “centri popolari di igiene sessuale", per consentire al proletariato di accedere a terapie psicologiche altrimenti troppo onerose. Si stima che dalle 4.000 alle 5.000 persone provenienti dal proletariato tedesco siano state psicoanalizzate in tali centri, prima che l'avvento del nazismo costringesse Reich a chiudere bottega, fuggendo in Danimarca, Svezia, Norvegia e finalmente negli USA.
Qual'è il bilancio del tentativo di incontro fra psicoanalisi e marxismo, tentato da Reich? Davvero povero e deludente. Già dopo un viaggio nell'Urss del 1929, Reich si dichiarò profondamente deluso dallo stalinismo, da lui visto come una forma di autoritarismo paternalista sessualmente regressivo e moralistico. Nel 1933, la sua lettura del fascismo, oggettivamente non fondata sul materialismo storico, quanto piuttoso su basi psicologiche, gli vale l'espulsione dal partito (nel frattempo Stalin aveva provveduto ad estinguere la feconda esperienza della psicologia sovietica degli anni Venti, coltivata da Lenin e Trotskij, definendola una disciplina borghese edonistica e degenerata). Avvia un contatto con Trotskij, inizialmente epistolare, nel quale sottolinea l'esigenza di lanciare una “piattaforma sessuale” nell'Urss. In un successivo incontro diretto, secondo la testimonianza di Heinz Epe, Trotskij obiettò che la teoria di una politica sessuale contrastava con gli assunti del materialismo dialettico, e che lo stadio culturale raggiunto dall'Urss impediva una completa liberazione sessuale, posto che la famiglia sovietica non si era ancora liberata dai vincoli della tradizione pre-socialista. Il rapporto con Trotskij terminò quando, nel 1939, Reich bollò come “completamente fallimentare” il tentativo di costruzione della Quarta Internazionale, poiché spostava l'attenzione della rivoluzione dal terreno della psicologia di massa a quello della costruzione di organizzazioni rivoluzionarie.
Con la fine dell'esperimento di Reich, terminò anche qualsiasi tentativo serio di contatto, ad un livello pratico e non solo teorico, fra marxismo e psicologia. Nei paesi stalinisti, si virò decisamente ed esclusivamente verso le discipline psichiatriche, con i loro più poveri strumenti terapeutici di tipo farmacologico (che quindi al più curano il sintomo, ma non il male) considerati più aderenti ai criteri del materialismo socialista, mentre la psicoanalisi ufficiale coltivò un crescente disprezzo verso forme politiche, come il comunismo, che collocano le problematiche collettive davanti a quelle individuali, come dimostrano, ad esempio, le annotazioni fortemente critiche sul comunismo da parte di Jung, e della Von Franz, sua principale collaboratrice, nei loro scritti.

Dal punto di vista della teoria: i tentativi della Scuola di Francoforte di fusione fra Freud e Marx

La Scuola di Francoforte, ed in particolare due dei suoi più eminenti membri, Herbert Marcuse ed Erich Fromm, è stata la scuola teorica che più di tutte ha lavorato per cercare punti di contatto fra marxismo e psicoanalisi freudiana, pur partendo da una radicale critica di quest'ultima, e pur all'interno di un forte spirito polemico fra tali due pensatori, che ha alimentato una critica di Marcuse nei confronti di Fromm, non del tutto giustificabile, perché motivata da un parziale fraintendimento dell'impianto teorico di quest'ultimo, e che peraltro ha anche finito per mostrare segni di implicita riconciliazione.
Entrambi partono da una critica radicale al sistema freudiano. La critica di Marcuse si appunta sulla teoria della civiltà implicita in Freud. Marcuse si chiede: il processo repressivo/di sublimazione (che come visto conduce comunque ad un adattamento alla realtà sociale attuale, ed è quindi reazionario) descritto da Freud è un fatto intrinseco alla natura di ogni società, o si tratta di un fenomeno transitorio in quanto frutto di un'organizzazione irrazionale delle forme di convivenza tra gli uomini? La risposta che Marcuse fornisce a questa domanda è in aperto contrasto con la tesi di Freud: la scarsità di beni per cui sono necessari meccanismi quali la divisione del lavoro e il differimento dei bisogni (in una parola, repressione) è frutto di una organizzazione irrazionale della società capitalista, nella quale i beni sono distribuiti in misura iniqua. Freud ha scambiato per caratteristica generale un assetto, quale quello capitalistico, specificamente dato in una fase storica precisa, che configura un dominio attuato attraverso forme di repressione, che non sono solo politiche, ma anche psicologiche. Queste ultime, in particolare, sono connesse alla sostituzione del "principio del piacere", che porta l'uomo a desiderare una piena realizzazione delle sue pulsioni libidiche, col "principio di realtà", che reprime e svia (attraverso la sublimazione) tali pulsioni libidiche, in una chiave di conservazione degli assetti sociali. In particolare, Marcuse spinge in avanti tale intuizione (che come si comprenderà, entro tali limiti, è molto simile a quella di Reich) tramite il cosiddetto "principio di prestazione": per prestazione si intende ciò che "si deve fare" a causa del proprio ruolo nella società, quindi la repressione attuata attraverso questo principio è strettamente legata alla stratificazione sociale e alla divisione del lavoro. In altre parole la prestazione è ciò che l'individuo deve fornire alla società, ed è ciò che la società si aspetta dall'individuo. Questa ulteriore repressione non avviene solamente attraverso la funzione che la persona svolge, ma è veicolata anche dalla famiglia patriarcale e dalla direzione univoca imposta alla sessualità, ovvero la genitalità, che estingue la libertà richiesta dalla pulsione libidica, ingabbiandola entro i confini della famiglia borghese, vera e propria cellula di base del sistema repressivo.
I punti di contatto con Reich sono, ovviamente, numerosi soprattutto in riferimento alla spiegazione psicologica degli assetti sistemici del capitalismo, però in Marcuse tale spiegazione assume un livello di sofisticazione maggiore. Apparentemente l'apparato produttivo ha raggiunto dimensioni tali che i desideri umani possano subire un mutamento qualitativo ed in direzione di un processo di individuazione (per dirla con Jung) sia individuale che collettivo, ma la società capitalista crea bisogni artificiali impedendo la liberazione degli individui attraverso il soddisfacimento delle pulsioni vitali, e vincolandoli ad una continua rincorsa produttiva per rispondere a tali bisogni (basati su desideri manipolati), mantenendoli quindi prigionieri dentro il sistema alienante della divisione del lavoro e del consumismo capitalista (in tal senso, Marcuse arriverà a definire “unidimensionale” l'uomo prigioniero del capitalismo, ridotto alla sola dimensione del consumatore euforico ed ottuso dalla macchina dei desideri capitalista).
Ed è proprio per questo, secondo Marcuse, che le società che si definiscono democratiche finiscono per essere intrinsecamente totalitarie. In particolare, la forma tipica di tale autoritarismo si manifesta attraverso ciò che Marcuse definisce “tolleranza repressiva”. Le libertà formalmente concesse all'individuo non sono da questi effettivamente esercitabili, poiché il sistema controlla gli strumenti attraverso i quali tali libertà dovrebbero esercitarsi, e controlla i desideri, nonché il linguaggio stesso attraverso il quale tali desideri si esprimono, appiattendo tutto sulla unidimensionalità della produzione/consumo.
Come uscire fuori da tale sistema repressivo? Tramite la funzione, per Marcuse eversiva, dell'immaginazione. In particolare, secondo il nostro, l'immaginazione, condensata nell'estetica dell'arte, consente all'uomo di rincongiungersi con il tutto, “dietro la forma estetica sta l’armonia repressa tra sensualità e ragione – l’eterna protesta contro l’organizzazione della vita da parte della logica del dominio, la critica al principio di prestazione...l’arte oppone alla repressione istituzionalizzata l’immagine dell’uomo come soggetto libero. Ma in condizioni di non-libertà, l’arte può sostenere l’immagine della libertà soltanto nella negazione della non-libertà. Da quando si destò la coscienza della libertà, non esiste opera d’arte genuina che non riveli questo contenuto archetipico: la negazione della non-libertà” (Eros e Civiltà, 1955).
In tale soluzione di liberazione attraverso la condensazione dell'immaginazione nella sua forma artistica risiede l'originalità di Marcuse, soprattutto rispetto a Reich, ma anche il suo principale limite, a parere di chi scrive. Da un lato, Marcuse supera la mera pulsionalità sessuale di Reich, poiché la liberazione che propone è una liberazione dell'Eros, inteso come piacere estetico e come immaginazione creativa, e non una mera liberazione dell'impulso sessuale. D'altro canto, questa liberazione non è altro che una forma di sublimazione. Non stupisce infatti che proprio in Eros e Civiltà Marcuse si “riappacifichi” con Freud, dopo averne pesantemente criticato i connotati repressivi e reazionari del suo sistema psicoanalitico, quando dichiara che “la metapsicologia di Freud restituisce all’immaginazione i suoi diritti”. Questa idea ci porta molto lontano dai canoni materialisti attraverso i quali il marxismo analizza i fenomeni sociali, e le possibili vie d'uscita dal capitalismo, e di fatto depotenzia le energie rivoluzionarie, allo stesso modo nel quale la sublimazione freudiana neutralizza l'energia potenzialmente eversiva della pulsione sessuale che risale dall'inconscio. D'altra parte, il motto “l'immaginazione al potere”, adottato dagli studenti del '68, proprio sull'onda degli scritti di Marcuse, sebbene abbia condotto a straordinarie conquiste di eguaglianza sociale e di liberazione, non ha consentito a tale movimento di uscire dal quadro del capitalismo. E sappiamo bene che il capitalismo è sempre in grado di distruggere le concessioni sociali fatte in un determinato momento storico. La cronaca recente ce lo sta dimostrando. Non si può che concludere che il pensiero di Marcuse, alla fine, non conduce ad una liberazione definitiva dell'uomo unidimensionale dalle sue catene.
Erich Fromm, altro eminente esponente della scuola di Francoforte, nonché psicoanalista di professione, si colloca al di fuori del sistema “socialmente deterministico” prefigurato dalle analisi della psicologia di massa di Reich e dello stesso Marcuse. Fromm, infatti, forse per la sua stessa formazione di psicoterapeuta, restituisce all'individuo ciò che è dell'individuo: la libertà/responsabilità di scegliere, anche la libertà di scegliere se esercitare la sua libertà stessa, o delegarla a sistemi totalitari (fuggendo quindi dalla libertà). Tale libertà, per Fromm, non è totalmente determinata (anche se ovviamente è pesantemente condizionata) da sistemi sociali e politici repressivi, che la negano alla radice, come nel pensiero di Reich e di Marcuse, in quanto, nonostante la repressione esercitata dall'ambiente, esistono ancora gradi di autonomia nella scelta individuale. Anche egli parte da una critica di Freud, ma su basi parzialmente dssimili rispetto a Marcuse e Reich.
Alla base della sua critica a Freud vi è, certo, che la psicoanalisi individuale non considera i condizionamenti ambientali esterni all'individuo, ed in questo l'analisi delle caratteristiche psicologicamente repressive del capitalismo di Fromm è simile a quella dei precedenti autori esaminati, in particolare a Marcuse. Anche in Fromm vi è un'analisi del capitalismo come sistema di produzione di desideri e bisogni artificiosi, che spinge l'individuo nella schiavitù della produzione per l'accumulazione di cose e del consumismo compulsivo, sviandolo da un lavoro creativo necessario per la piena autorealizzazione, e quindi per una società più “umana”. In questo l'accusa, fatta anche da Marcuse a Fromm, di rimanere nel solco del conformismo borghese, e di non essere un marxista, è errata. Fromm in realtà rilegge Marx ponendo l'attenzione non tanto sulla lotta di classe, quanto piuttosto sulle istanze libertarie e umanistiche contenute nei principi fondativi di una società comunista. Fromm dirà che Marx evidenzia la differenza che c'è fra una società i cui principi sono basati sull'accumulazione di cose, e che quindi è fondata sul profitto e l'accumulazione di capitale, ovvero di lavoro morto (il capitalismo, quello che Fromm definisce come “civiltà dell'avere”) ed una società imperniata sull'attività creativa e libera del lavoro vivo, e quindi fondata su un principio umanistico di realizzazione dei bisogni fondamentali dell'uomo, che ne definiscono l'autorealizzazione (la “civiltà dell'essere”, ovvero il comunismo).
In particolare, una società “umana” dovrebbe consentire ai suoi componenti la soddisfazione dei cinque bisogni immanenti alla natura umana fondamentale, che per Fromm possono così definirsi:
1) Il bisogno di relazioni.
2) Il bisogno di trascendenza, che consiste nel tentativo costante di elevazione attraverso la propria creatività; questo bisogno può essere rintracciabile anche qualora prenda strade di distruttività.
3) Il bisogno di radicamento, di sentirsi “appartenente” al mondo; in questo Fromm individua i sentimenti di fratellanza e amicizia.
4) Il bisogno di identità che spinge l’uomo ad individuarsi trovando una propria collocazione nella società in cui vive e nel gruppo in cui opera.
5) Il bisogno di un sistema di orientamento in cui l’uomo possa trovare i propri riferimenti per riuscire a comprendere il mondo ed integrarsi.
La costruzione di un simile assetto sociale richiede però un atto di volontà e di libertà, anche nel singolo individuo. Tuttavia, per l'uomo è più facile fuggire dalla sua libertà individuale, delegandola ad un sistema politico totalitario, nella misura in cui la libertà comporta il gravoso fardello della responsabilità di decidere assumendosene le cosneguenze, e perché la libertà stessa può comportare un isolamento dell'individuo dal suo contesto, specie se questo è caratterizzato, come nel capitalismo, da un elevato livello di repressione, e l'isolamento genera un fardello di angoscia. L'uomo cessa di essere un atomo isolato attraverso la libertà positiva con la realizzazione spontanea e completa della sua personalità.
In definitiva, Fromm supera, dopo averne accettate le premesse, il “meccanicismo psico/sociale” che caratterizza la visione di Reich e Marcuse (va rammentato che secondo quest'ultimo nel sistema repressivo stesso, prima ancora che nel singolo individuo, sono insite le potenzialità per la liberazione), per cui tutto è determinato dall'ambiente sociale che circonda l'individuo. Sebbene l'ambiente ostile sia fondamentale per determinare la società capitalistica dell'avere, la fuoriuscita da tale situazione castrante, per Fromm, dipende in larga misura dal libero arbitrio individuale. Egli propugnava un “socialismo umanistico”, basato sulla piena e libera partecipazione dei lavoratori alla gestione dei mezzi di produzione, lontano dai sistemi pianificatori, centralizzati e stalinisti che si andavano creando in Europa dell'Est, e che egli criticava per il loro autoritarismo burocratico. Un socialismo umanistico che ponesse alla base non un sistema, necessariamente autoritario e tendente alla burocratizzazione, ma l'individuo, con la sua capacità di amare, sé stesso (ovvero il suo personale processo di individuazione) ed il prossimo, ovvero il processo individuativo degli altri. In ciò emerge la seconda fondamentale critica a Freud: secondo Fromm, l'istinto di vita, creativo e libidico, è alternativo, e non parallelo, all'istinto di morte e distruttivo. Alcuni uomini vivono sotto la stella dell'istinto di vita, altri sotto quella dell'istinto di morte. Pertanto molto, nel processo costruttivo di una società socialista e libertaria, dipende dal singolo.
Forse questo ritorno al ruolo dell'individuo ed alla sua responsabilità personale nel voler essere libero ha attirato su Fromm le critiche di Marcuse, che vi vedeva un ritorno a forme di conformismo borghese, così come gli ha attirato le critiche di quei marxisti più ortodossi che, in nome del materialismo storico, portano il ragionamento rivoluzionario a livello di analisi del ruolo e delle dinamiche delle masse, e non dei singoli individui che le compongono. Tuttavia il grande merito della rilettura di Marx fatta da Fromm è stato quello di riscoprire la componente umanistica, libertaria, solidale con il prossimo (amorevole, direbbe il grande Fromm) e individualmente responsabilizzante che la visione della società comunista porta con sé, quando invece gran parte delle letture fatte su Marx si concentrano sulle sue analisi di sistema, ovvero sull'analisi dei rapporti sociali di produzione, o sulla lettura del sistema filosofico alla base del marxismo. Secondo A. Magnanimo, “è stata notata in Fromm una lettura di Marx nella quale i valori della vita, del lavoro liberato, dell'utopia e del Socialismo vengono contrapposti ai valori della morte, dello sfruttamento, dell'alienazione e del capitalismo”. Fromm crede che l'amore sia l'unica e soddisfacente risposta al problema dell'esistenza umana. L'amore, questo sentimento che per Fromm diviene il motore stesso della sua “rivoluzione umanistica”, significa fondamentalmente accentuazione della dignità e del valore dell'individuo. Questo amore rivoluzionario non può essere insegnato, bensì deve essere acquisito tramite uno sforzo continuo, disciplina, concentrazione e pazienza. E non è un caso che, nella sua opera più pessimistica e disincantata, ovvero “L'uomo ad una dimensione”, il più grande critico di Fromm, ovvero Marcuse, finirà per riconciliarsi con il suo avversario. Marcuse, infatti, arriverà a denunciare come falsa la liberazione sessuale, contrapponendovi una liberazione dell'amore ancora tutta da venire e persino da capire.


Dal punto di vista del marxismo: l'approccio alle teorie psicoanalitiche da parte dei principali dirigenti bolscevichi

Abbiamo visto come la psicoanalisi, in particolare tramite il lavoro di Reich e con i contributi teorici della scuola di Francoforte, abbia tentato il suo approccio con il marxismo. Dall'altro lato della barricata, come approcciarono le teorie psicoanalitiche i dirigenti bolscevichi?
Non si può dire che i dirigenti bolscevichi non nutrissero interesse per la psicologia. In realtà, negli anni Venti, nell'Urss, fiorì un interessante movimento scientifico e terapeutico, sotto l'ombrello del partito. Vi furono straordinarie intuizioni, come quelle di Pevnitskij, il quale applicò l’analisi al trattamento degli alcolisti nelle “Società della sobrietà” (si pensi agli attuali gruppi degli “Alcolisti anonimi”) o il lavoro di Rosenthal pubblicato nel 1919 “Il tormento e l’opera di Dostoevskij”, nel quale ella sostenne l’origine affettiva dell’epilessia del grande romanziere. Altri illustri psicologi parteciparono al movimento psicoanalitico russo: Vygotskij ed Aleksandr Lurija. Nel cammino della psicoanalisi, durante il periodo bolscevico, si erano stabiliti dei profondi legami con il potere. Membri della Società Psicoanalitica Russa furono non soltanto i medici, ma gli intellettuali della Russia colta, che spesso ricoprirono incarichi nel governo bolscevico. E’ interessante notare con Etkind, come il culmine dell’attività del movimento psicoanalitico, nella prima metà del secondo decennio del secolo, coincida con il massimo potere di Trotskij.
L'approccio alla nuove teorie psicoanalitiche variò molto fra i vari dirigenti sovietici. In Lenin, era un misto fra scetticismo e ostilità, che non significa ovviamente ostilità nei confronti della psicologia in quanto scienza, quanto piuttosto nei confronti dell'interpretazione freudiana della stessa. In via informale, Lenin avrebbe espresso forti critiche alla psicoanalisi di Freud. Secondo Clara Zetkin, nel suo libro “L'emancipazione della Donna”, Lenin avrebbe detto che “le allusioni che si fanno sulle ipotesi di Freud gli danno una pretesa apparenza scientifica, ma si tratta soltanto di una buffonata fatta da un pasticcione. La teoria di Freud è anche oggi una specie di capriccio che è in voga. Io diffido delle teorie sessuali esposte in articoli, rapporti, ecc., in una parola sola, di questa letteratura specifica che così tanto fiorisce nel letamaio della società borghese. Io non ripongo fiducia in chi sta costantemente e decisamente assorbito dai problemi sessuali, come un fachiro indiano che contempla il suo ombelico”.
In questo frammento, si concentra la critica principale di Lenin alle teorie freudiane, che come si è visto erano particolarmente influenzate dall'aspetto sessuale (così come ancor di più lo era il pensiero di Reich). Per Lenin, la sessualità non poteva essere disgiunta dal contesto sociale, e dai doveri storici che la classe doveva portare avanti. In un altro frammento delle sue conversazioni con la Zetkin, dirà infatti che “nell'amore partecipano due persone, e sorge una terza, nuova, vita. Quindi appare l'interesse sociale, sorge il dovere nei confronti della collettività”. Pertanto, la critica implicita di Lenin alla psicoanalisi, è che questa “individualizzerebbe” il problema sessuale, isolandolo nel singolo paziente, e quindi sviandolo dal suo ruolo sociale, dal suo contesto nell'ambito di una rivoluzione in atto. Inoltre, il problema sessuale rischierebbe, sempre secondo il rivoluzionario russo, di sviare le energie dai compiti immani della rivoluzione stessa. E' chiaro che tale approccio, tutto politico, è assolutamente inconciliabile con il ruolo della psicoanalisi tradizionale di Freud, ovvero quella da lettino e da rapporto diretto paziente-medico, che in ultima analisi è quello di curare il singolo individuo. Ma non lo è affatto, almeno in linea di principio, con quella di Reich, che invece “collettivizza” a livello di masse il problema sessuale stesso.
D'altra parte, il concetto di funzionamento della mente di Lenin è assolutamente materialista. In “Materialismo ed Empiriocriticismo” (1908), il capitolo 5 “L'uomo pensa con l'ausilio del cervello?” è particolarmente importante per illustrare la psicologia materialista di Lenin. Nella sua polemica con Bogdanov e gli empiriocriticisti (polemica, è opportuno notare, non soltanto filosofica, ma anche politica) Lenin ne critica aspramente l'idea secondo la quale il cervello non sarebbe il luogo nel quale, tramite funzioni fisiologiche, si produce il pensiero e si riflettono le sensazioni del mondo esterno. Tramite questo principio, sostiene Lenin, gli empiriocriticisti generano surrettiziamente un modello unitario fra mente e corpo, su un piano idealistico e non più materialistico. Dice infatti Lenin: “l'eliminazione materialistica del dualismo fra mente e corpo (ovvero il monismo materialista) consiste nell'affermazione secondo cui la mente (ovvero le funzioni intellettive, nda) non esiste indipendentemente dal corpo, che la mente è secondaria, è una funzione del cervello, un riflesso del mondo esterno. L'eliminazione idealistica (ovvero degli empiriocriticisti, nda) del dualismo fra mente e corpo (ovvero il monismo idealistico) consiste nell'affermazione secondo cui la mente non è una funzione del corpo, che, conseguentemente, la mente è primaria, che l'ambiente esterno e il sé esistono soltanto in un'inestricabile connessione di un medesimo “complesso di elementi”...”Il rifiuto assurdo del fatto che l'immagine visiva di un albero è una funzione della retina, dei nervi e del cervello, era necessario ad Avenarius (filosofo di riferimento degli empiriocriticisti, nda) per sostenere la sua teoria della connessione “indissolubile” dell'esperienza “completa”, che include non soltanto il sé, ma anche l'albero, ovvero l'ambiente”.
Chiaramente questa critica di Lenin, in nome di una fedele adesione a criteri di materialismo, lo pone in conflitto radicale con la scuola psicoanalitica junghiana, nella misura in cui questa è più in sintonia con le teorie di Avenarius di un "concetto umano del mondo" che si basasse sull'esperienza pura, posto che l'uomo e il mondo, secondo Avenarius, non sono due realtà disgiunte, ma anzi appartengono ad una sola esperienza, e quindi non esiste contrapposizione fra il fattore fisico e quello psichico, dato che l'oggetto e il pensiero divengono solo forme differenti degli stessi gruppi di elementi. Infatti, Jung elaborerà (ovviamente molto più tardi rispetto all'opera di Lenin) una teoria dell'unitarietà del mondo psichico e fisico, tramite l'indagine sui concetti dell'unus mundus presenti nella ricerca alchimistica rinascimentale, supportata empiricamente dai cosiddetti fenomeni di sincronicità (ovvero fenomeni che si realizzano sia nella sfera fisica che in quella psichica, facendo pensare ad una unicità fra queste due sfere).
In sintesi, Lenin si colloca in una posizione di netto rifiuto della psicoanalisi freudiana tradizionale, per la sua individualizzazione del problema sessuale, e di contrapposizione con la scuola junghiana, per il rifiuto, da parte di Lenin, del monismo idealistico insito nell'empiriocriticismo. La contrapposizione con le due principali correnti di pensiero della psicoanalisi moderna non implica però che il materialismo non possa conciliarsi con una dottrina psicoanalitica che approfondisca gli aspetti psichici, anche inconsci, connessi con le condizioni sociali di sfruttamento di classe, o con i processi di liberazione di energie represse collegati alla costruzione di società comuniste.
L'approccio di Trotskij alla questione è molto più aperto e curioso di quello di Lenin. Trotskij, infatti, durante il suo esilio a Vienna aveva potuto prendere contatto diretto con gli esponenti della nascente scuola psicoanalitica freudiana (ed in particolare con Adler, che psicoanalizzò, fra l'altro, Adolf Joffe, braccio destro ed amico di Trotskij). Inoltre, il grande leader bolscevico sviluppò un interesse particolare per gli aspetti culturali e di vita quotidiana connessi ad una rivoluzione socialista, e condensati nel suo libro “Rivoluzione e vita quotidiana”, ponendosi interrogativi, ad esempio circa la rapida dissoluzione dei legami familiari tradizionali nella Russia post rivoluzionaria, circa l'esigenza di far progredire il linguaggio ed i rapporti sociali quotidiani, o circa l'educazione socialista, che non possono non trovare una naturale connessione con problemi di tipo psicologico, e quindi non possono esimere dal ragionare sulle problematiche e sulle metodologie che la psicoanalisi e la psicologia sociale offrono.
Da questo punto di vista, quindi, egli fu, a differenza di Lenin, moderatamente favorevole rispetto alla psicoanalisi freudiana, anche se non sempre ne capì a fondo tutti gli aspetti (egli stesso, nella sua corrispondenza con Reich, si dichiarò poco a conoscenza delle discipline psicoanalitiche). Anche se naturalmente il suo metodo materialista lo portava a privilegiare tecniche, come quelle riflessologiche sviluppate dagli esperimenti di Pavlov, che fossero immediatamente in grado di connettere la reazione comportamentale a stimoli meramente fisiologici. Ma la porta dell'anima aperta da Freud seduceva anche il capo dell'Armata Rossa.
Affermerà infatti, in Cultura e Socialismo (1936), che “lo studio dei riflessi di Pavlov è interamente inquadrato nel materialismo dialettico. Distrugge definitivamente la barriera fra fisiologia e psicologia, il riflesso più ampio è fisiologico, però un sistema di riflessi ci dà la “coscienza”...il metodo della scuola di Pavlov è sperimentale e coscienzioso: dalla saliva dei cani, fino alla poesia, ovvero fino ai meccanismi mentali della poesia...La scuola del psicoanalista viennese Freud procede con un metodo differente. Dà per scontato anticipatamente che la forza impulsiva del più complesso e delicato dei processi psichici è una necessità fisiologica. In questa accezione generale è materialista, se si prescinde dal problema che si attribuisca un peso esagerato al fattore sessuale, a spese di altri fattori, poiché questo non è che una discordanza all'interno delle frontiere del materialismo. Senza dubbio, lo psicoanalista non si approccia ai fenomeni della coscienza in modo sperimentale, cioè andando dal fenomeno più basso a quello superiore, dal riflesso semplice al riflesso complesso, ma tenta invece di superare tutte queste tappe intermedie con un salto dall'alto verso il basso, dal mito religioso, dal poema lirico o dal sogno fino alle basi fisiologiche della psiche...Il metodo di Pavlov è sperimentale, quello di Freud congetturale, alcune volte fantasiosamente congetturale. Il tentativo di dichiarare la psicoanalisi “incompatibile” con il marxismo e voltare meccanicamente le spalle al freudesianesimo è molto semplice, o, più correttamente, molto semplicistico. Tra l'altro in nessun caso siamo obbligati ad adottare il freudesianesimo. E' una ipotesi di lavoro che può produrre ed indubbiamente produce deduzioni e congetture che stanno all'interno delle linee della psicologia materialista”.
E' quindi molto chiaro a Trotskij come la psicoanalisi possa giocare un ruolo fondamentale anche in chiave rivoluzionaria e di costruzione di un nuovo ordine sociale. Aiuta a comprendere meglio le repressioni energetiche psichiche imposte dalla società borghese, che frenano l'impatto rivoluzionario, aiuta a comprendere i fenomeni sociali che si innescano in una società post rivoluzionaria, ed a risolvere i relativi traumi che si generano in questo processo, minimizzandone l'impatto per gli individui e per la collettività in generale (ad esempio, il più facile disfacimento dei legami familiari tradizionali registrato da Trotskij stesso nella nuova Russia potrebbe essere trattato in forma psicoanalitica, così come l'endemico problema dell'alcoolismo, che affligge la società russa, e che ovviamente sottrae energie alla costruzione del socialismo).
Certo, vi è nella visione trotskiana del metodo freudiano un certo fraintendimento: è dubbio che l'interesse principale della psicoanalisi freudiana sia quello di discendere fino alle cause fisiologiche del disturbo psichico, quanto piuttosto invece risolverlo tramite un migliore adattamento fra le varie componenti della psiche (inconscio, Io e Super Io). Il tentativo di forzare all'interno del materialismo un metodo terapeutico che fa largo utilizzo di tecniche di stimolo dell'immaginazione e di un linguaggio simbolico e mitologico è piuttosto arbitrario. Però rimane l'essenziale: marxismo e psicoanalisi devono trovare un percorso comune, al di là dell'ossessione sessuale che affligge la dottrina freudiana, ed ancora di più quella reichiana (anche se quest'ultima ha il pregio di inquadrare il problema sessuale non soltanto nel singolo individuo, ma di correlarlo con le più generali dinamiche sociali di massa, e di prevedere metodi terapeutici che liberano la sessualità repressa, anziché sublimarla in forme socialmente conservatrici e reazionarie). In tal senso, occorre, per Trotskij, che la psicoanalisi studi l'impatto psichico, inconscio e conscio, delle condizioni di alienazione sociale e lavorativa nelle quali il proletariato è costretto a vivere, e scandagli il potenziale di liberazione di energia psichica creativa che la distruzione di tali vincoli di alienazione, tramite un processo rivoluzionario, può generare.
E' infatti di somma significatività ciò che Trotskij scriverà a suo figlio Leon Sedov circa la psicoanalisi: “solo una piena comprensione da parte del medico – non solo la comprensione del comportamento del paziente stesso, ma anche della sua educazione, del suo passato, del suo ambiente sociale – può condurre a buon porto”. Quindi, la psicoanalisi deve indagare anche gli aspetti sociali entro i quali gli individui vivono, per poter aver successo, e non soltanto concentrarsi sui fattori sessuali. Infatti, per Trotskij, come emerge nella sua Storia della Rivoluzione Russa, “la personalità storica, con tutte le sue particolarità, non deve focalizzarsi esclusivamente su una sintesi di tratti psicologici, ma è il riflesso di determinate condizioni sociali, sulle quali reagisce”. Se quindi la personalità è un insieme di tratti psicologici per così dire “intrapsichici” e di assetti psichici e comportamentali indotti dalle condizioni sociali esterne, è chiaro che, in Trotskij, la psicologia deve essere innanzitutto una psicologia di massa, in ciò recuperando l'intuizione di Reich, ma sviluppandola oltre un mero meccanicismo sessualistico di repressione/liberazione di energie legate alla sessualità, e quindi anticipando la linea di ricerca sulla psicologia di massa del capitalismo che saranno condotte, come si è visto, dalla scuola di Francoforte.
Di conseguenza, Trotskji abbozzerà un primo schema di psicologia di massa, che spiega le fasi di stabilità degli assetti sociali preesistenti con la relativa inerzia, o conservatorismo, della psicologia degli sfruttati, rispetto alla rapidità evolutiva dei rapporti sociali di produzione. Tuttavia, l'impatto prolungato sull'inconscio delle masse di tensioni legate alle condizioni di alienazione e sfruttamento che esse vivono porta, nel momento in cui le contraddizioni oggettive legate allo sviluppo dei rapporti di produzione esplodono, a radicali cambiamenti nelle idee e nei comportamenti, ovvero ad una rottura provvisoria, ma radicale, della tendenziale inerzia e con il normale conservatorismo della psiche. Questa concezione della psicologia delle masse è ovviamente schematica, e molto lontana da un'analisi psicodinamica e delle energie psichiche in gioco durante le varie fasi evolutive dei rapporti sociali di produzione, che una teoria psicoanalitica associata alla sociologia ed all'economia potrebbe consentire (come sarà evidente, successivamente, dalla ricchezza dell'analisi di Marcuse e Fromm). Ma ovviamente Trotskij non era un psicoanalista. Tuttavia l'intuizione alla base era giusta: un maggior utilizzo della psicologia e della psicoterapia conduce ad un progresso anche nell'ambito delle analisi marxiste e dei processi di preparazione della rivoluzione, oltre che ad un miglioramento nella gestione delle traumatiche fasi post rivoluzionarie, di costruzione di una nuova società.


Conclusioni

In sintesi, possiamo dire che è necessario ed asupicabile un percorso di riconciliazione fra marxismo e psicologia? In base a quanto detto, sicuramente sì. Come dimostrano le analisi di Marcuse e Fromm, ma anche di Reich, la psicoanalisi fornisce elementi preziosi di comprensione delle dinamiche di alienazione e di sfruttamento, delle energie potenzialmente rivoluzionarie represse, del modo in cui poterle liberare, ma produce elementi fondamentali anche per gestire nel modo meno indolore possibile la fase post rivoluzionaria, i suoi inevitabili traumi, lo scossone psichico che milioni di persone subiscono, quando devono abbandonare tradizioni e forme di vita pregresse, cui erano abituate, per abbracciare forme di vita nuove, ed in larga misura ancora circondate dall'aura minacciosa dell'ignoto.
D'altra parte, nell'Urss stalinista, l'abiura completa effettuata rispetto alla psicoanalisi, e la cancellazione dell'epoca d'argento vissuta dalla psicoanalisi sovietica sotto Lenin e Trotskij, sono alla base di quel sentimento di disillusione che Reich provò nel visitare l'Urss nel 1929. Con la soppressione della psicoanalisi, Stalin procedette verso una burocratizzazione, basata sul culto del leader e sul paternalismo, che soffocò lo spirito rivoluzionario, reprimendolo dentro un nuova “morale” circoscritta all'interno di un “realismo socialista” molto conformista
Certo, una riconciliazione fra psicologia e marxismo deve avvenire su basi che non mitizzino il ruolo della sessualità in modo esagerato. Una psicoanalisi che possa servire alla causa marxista deve includere elementi di analisi che vadano al di là del mero fattore sessuale (comunque di importanza fondamentale, e che quindi non può essere trascurato) includendo un'analisi psicologica dell'uomo in quanto “uomo sociale”, quindi dell'impatto sulla sua psiche degli assetti sociali nei quali vive, e di quali siano le condizioni sociali idonee per generare una liberazione di energie creative e rivoluzionarie represse.
Ciò che è più importante è partire dal prsupposto che, come ci dice Marcuse, ma soprattutto come ci dice anche Fromm, l'energia creativa necessaria per portare avanti un processo rivoluzionario proviene anche da forme di Eros sublimate in estetica (quindi non vi è niente di più reazionario ed antirivoluzionario del “realismo socialista”, o dello zdanovismo che, costringendo l'espressione artistica in una camicia di forza di criteri predeterminati, di fatto distrugge il potenziale creativo e sovversivo insito nell'arte) e da forme di amore per sé stessi e per il proprio prossimo (che evitano quegli eccessi sanguinosi che, in molte rivoluzioni, si rivolgono contro gli stessi oppressi che si vorrebbero difendere, e che finiscono quindi per determinarne il fallimento morale). Tale riconciliazione deve essere rispettosa del metodo materialista di analisi sociale e storica del marxismo. Il limite di Reich fu di vedere soltanto la repressione sessuale come base dei regimi fascisti, ignorando in modo quasi totale le determinanti economiche e quindi sociali dell'emergere del fascismo, con le sue peculiari caratteristiche. Anche il richiamo alle teorie di Engels circa l'emergere della famiglia patriarcale (che in Reich ha un ruolo centrale nello spiegare l'affermazione del fascismo) ignora il metodo materialistico adottato da Engels stesso nello spiegare la nascita di tale forma di famiglia. Tale processo, in Engels, è legato all'emergere della proprietà privata, e della necessità della sua trasmisisone ereditaria, in civiltà che, abbandonando la fase della caccia e della raccolta, e diventando sedentarie, acquisiscono un patrimonio familiare stabile. Senza un'analisi materialistica delle condizioni sociali di produzione, quindi, e limitandosi a meri fattori psicologici, è impossibile comprendere i fenomeni storici e sociali.
Sul versante marxista, occorre saper dare riconoscimento ad analisi psicologiche delle dinamiche politiche e sociali di massa. Ciò non significa abiurare al metodo materialista, ma solo riconoscere, come iniziò a fare Trotskij, che le condizioni materiali di produzione generano effetti psicologici la cui comprensione è della massima importanza, sia per pianificarne la sovversione, sia per gestire la fase rivoluzionaria e post rivoluzionaria nel modo più efficace rispetto agli obiettivi della rivoluzione stessa, ed in modo più soddisfacente rispetto alla vita del proletariato (naturalmente occorre sempre ricordare che la rivoluzione si fa per migliorare la vita dei proletari, sia sotto il profilo materiale, che sotto quello della qualità e della soddisfazione/gioia di vivere. Occorre cioè ricordare sempre la lezione di Lenin: “il comunismo non deve portare con sé l'ascetismo, ma l'allegria del vivere e l'ottimismo”).
In definitiva, tutto ciò significa riconnettere i processi rivoluzionari agli interessi dell'individuo, ad un umanesimo di livello superiore, che concili diritti economici, politici e sociali con le esigenze fondamentali di auto-realizzaizone (o di individuazione, che dir si voglia) del singolo. In questo la lezione di Fromm è esemplare: una rivoluzione che non contempla la liberazione dell'individuo, dandogli la possibilità di realizzare nel modo più soddisfacente la sua vita, non è una rivoluzione. Quindi se è inevitabile che tale processo, sul piano politico e sociale, comporta una dose di violenza o quantomeno di sopraffazione nei confronti di chi aveva posizioni dominanti nella società pre-rivoluzionaria, è altrettanto inevitabile che tale processo debba essese anche guidato dall'amore nei confronti dell'Uomo, e delle sue potenzialità di auto-realizzazione. In questo la rivoluzione libertaria dal basso di Guérin, il socialismo umanistico e libertario di Fromm, la liberazione del desiderio e la rivoluzione molecolare di Deleuze e Guattari trovano un fecondo piano di lavoro congiunto, per immaginare il mondo che sarà, un mondo più libero, più eguale e più legato a ciò per cui vale veramente la pena di attraversare questo mondo copn la propria vita.

Riferimenti

“G. Deleuze – F. Guattari Anti-Edipo/Capitalismo e schizofrenia”, 2004, su http://digilander.libero.it/moses/deleuze03.html
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H. Marcuse: “I meriti di Freud”, Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 1964, pagg. 156-158

D. Garcia, “Trotsky y el psicoanalisis”, 2011, in http://banderaroja.blogspot.com

T. Rosenthal, “La psicoanalisi in Russia e nell'Unione Sovietica dal 1909 al 1930”, 1976, in Critique, tome XXXII, n.346/1976

L. Sazanovitch, “La psicoanalisi in Russia: nascita, sviluppo ed oblio”, Tesi di laurea presso la facoltà di psicologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, 2001-2002

L. Trotzkij, “Rivoluzione e vita quotidiana”, Samonà e Savelli, 1970

L. Trotzkij, “Oeuvres, 1933/1940”, Institut Lèon Trotzky, Paris, 1976
A. D'Aloia, “marxismo e psicoanalisi, la figura di Wilhelm Reich”, in www.marxist.com

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www.orgonomia.org

V. I. Lenin, “Opere complete”, Roma, Rinascita-Editori Riuniti, 1955-1970

C. Zetkin, “Lenin on the women's question”, su www.marxists.org

1 commento:

  1. Evidentemente non conosci Otto Gross e la sua intera vita da psicoanalista intenta a conciliare, lui da psichiatra e psicoanalista del circolo di Vienna, fino alla sua morte nel 1919: Rivoluzione all'insegna del Socialismo Scientifico (Marx e Engels), Matriarcato (Bachofen) e Rivoluzione liberalizzante sul campo sessuale. Era professore universitario, nonché medico psicoterapeuta, e pubblicò infiniti articoli sul Die Aktion e nonché saggi accademici e monografie accademiche portanti la sua firma, proprio su questo tema. Nei suoi famosi articoli sul Die Aktion 1917-1919 si può constatare una commistione teorica di Lenin, Bachofen, e Freud, rielaborati in una sintesi atta a riattualizzare un mondo comunista, matriarcale, sessualemente libero da generi e ruoli, come idealizzato da molti paleoetnologi (ancora oggi lo è) rispetto alla civiltà urbana del neolitico. Indubbiamente è interessante... Anticipa le idee di Reich di almeno 30 anni ed è infinitamente più estremista di lui sulla liberalizzazione sessuale: totalmente permeata da un enfasi sul ruolo femminile (tanto materno, che eterico, che amazzonico).

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