Introduzione
I dati occupazionali di agosto 2011 mostrano che, negli USA, non si è creato alcun posto di lavoro, contro una previsione su base mensile di 60.000-75.000 nuovi posti. E' la prima volta dal 1945 che la crescita occupazionale degli USA è nulla. Tale dato non è a beneficio dei collezionisti della statistica, o delle curiosità generate dalla presente fase recessiva. In realtà segnala la prosecuzione di una fase recessiva che sembra essere priva di via d'uscita. Le sciocchezze a proposito di “jobless recovery”, ovvero, in italiano, di ripresa senza lavoro, messe in campo da molti economisti e giornalisti economici, sono, per l'appunto, sciocchezze. Vediamo perché si tratta di sciocchezze, e che conseguenze il continuo peggioramento del mercato del lavoro potrà avere sul capitalismo globale, e qual è la strategia di uscita dalla crisi che il capitalismo sta mettendo in campo, aiutandoci con qualche considerazione di fatto, e pervenendo ad alcuni scenari possibili.
Alcuni dati di fatto e di scenario internazionale
Negli USA, il tasso di disoccupazione “reale”, ovvero comprensivo anche degli effetti di scoraggiamento nella ricerca di una occupazione non computati nel tasso ufficiale, è pari al 10,6%, mentre oltre il 12% della popolazione vive con meno del 40% del reddito mediano (fonte: Ocse). Nell'Unione Europea, il tasso di disoccupazione ufficiale raggiunge il 10,1%, più dell'8% della popolazione vive in condizioni di grave deprivazione materiale ed il 23% della popolazione è a rischio di caduta nella povertà (fonte: Eurostat).
Tutto ciò significa che una componente importante della popolazione, nelle aree economicamente più sviluppate del capitalismo globale, si avvia a generare ulteriore povertà nei prossimi mesi ed anni, e quindi a deprimere la domanda globale, già molto depressa, a causa della crescente area della povertà, che oramai si estende anche ad ampie fasce di chi lavora ed appartiene alla piccola borghesia. Infatti, la disoccupazione, dopo circa due anni in cui si rimane senza lavoro, tende a divenire strutturale, perché la perdita di competenze lavorative rende impossibile il rientro sul mercato del lavoro. In soldoni, già oggi, vi sono 9,6 milioni di disoccupati di lungo periodo in Europa, nonché altri 4,5 milioni fra USA e Canada ed 1,2 milioni in Giappone, che, per la lunghezza della loro permanenza in disoccupazione, non hanno più alcuna speranza di trovare una occupazione e che, quindi, alimenteranno ulteriormente il già pingue serbatoio dei poveri e spingeranno sempre più in basso i consumi globali.
I dati occupazionali di agosto 2011 mostrano che, negli USA, non si è creato alcun posto di lavoro, contro una previsione su base mensile di 60.000-75.000 nuovi posti. E' la prima volta dal 1945 che la crescita occupazionale degli USA è nulla. Tale dato non è a beneficio dei collezionisti della statistica, o delle curiosità generate dalla presente fase recessiva. In realtà segnala la prosecuzione di una fase recessiva che sembra essere priva di via d'uscita. Le sciocchezze a proposito di “jobless recovery”, ovvero, in italiano, di ripresa senza lavoro, messe in campo da molti economisti e giornalisti economici, sono, per l'appunto, sciocchezze. Vediamo perché si tratta di sciocchezze, e che conseguenze il continuo peggioramento del mercato del lavoro potrà avere sul capitalismo globale, e qual è la strategia di uscita dalla crisi che il capitalismo sta mettendo in campo, aiutandoci con qualche considerazione di fatto, e pervenendo ad alcuni scenari possibili.
Alcuni dati di fatto e di scenario internazionale
Negli USA, il tasso di disoccupazione “reale”, ovvero comprensivo anche degli effetti di scoraggiamento nella ricerca di una occupazione non computati nel tasso ufficiale, è pari al 10,6%, mentre oltre il 12% della popolazione vive con meno del 40% del reddito mediano (fonte: Ocse). Nell'Unione Europea, il tasso di disoccupazione ufficiale raggiunge il 10,1%, più dell'8% della popolazione vive in condizioni di grave deprivazione materiale ed il 23% della popolazione è a rischio di caduta nella povertà (fonte: Eurostat).
Tutto ciò significa che una componente importante della popolazione, nelle aree economicamente più sviluppate del capitalismo globale, si avvia a generare ulteriore povertà nei prossimi mesi ed anni, e quindi a deprimere la domanda globale, già molto depressa, a causa della crescente area della povertà, che oramai si estende anche ad ampie fasce di chi lavora ed appartiene alla piccola borghesia. Infatti, la disoccupazione, dopo circa due anni in cui si rimane senza lavoro, tende a divenire strutturale, perché la perdita di competenze lavorative rende impossibile il rientro sul mercato del lavoro. In soldoni, già oggi, vi sono 9,6 milioni di disoccupati di lungo periodo in Europa, nonché altri 4,5 milioni fra USA e Canada ed 1,2 milioni in Giappone, che, per la lunghezza della loro permanenza in disoccupazione, non hanno più alcuna speranza di trovare una occupazione e che, quindi, alimenteranno ulteriormente il già pingue serbatoio dei poveri e spingeranno sempre più in basso i consumi globali.
Pertanto, anche le proiezioni, piuttosto ottimistiche, che comunque mostrano un rallentamento della crescita globale nel 2011-2012, stanno per essere aggiustate verso il basso. Ancora a Giugno, il FMI propagava ottimismo, prevedendo una crescita del 2,6% del PIL delle economie avanzate per il 2012 (che è comunque una crescita modestissima, se comparata con il 3% di un anno di sostanziale stagnazione produttiva globale e crisi occupazionale, come il 2010). Oggi (Il sole 24 Ore, 3 Settembre 2011) Roubini parla di una crescita che non supererà l'1%, e che quindi sarà sostanzialmente ferma. In realtà, Roubini prevede che una nuova recessione che segua quella del 2008-2009 abbia “più del 50% di probabilità di verificarsi nei prossimi mesi”. Martin Feldstein, del serbatoio degli economisti keynesiani di Harvard, nonché consigliere economico di Obama, lo dice chiaro e tondo: “potremmo già essere in recessione, senza aspettare i prossimi mesi. Non credo che ci sia molto da fare, in termini di politica monetaria o fiscale, per cambiare la direzione dell'economia. Sono molto preoccupato”. Pertanto, ciò rende evidente come sia assurdo pensare ad una ripresa senza lavoro. La ripresa senza lavoro è impensabile nel medio periodo, perché l'assenza di lavoro comporta una ulteriore diminuzione della domanda solvibile, quindi aggrava le condizioni di sovrapproduzione, generando quindi una nuova recessione, altro che ripresa!
D'altra parte, il tentativo di rassicurazione del cinese Min Zhu, vicedirettore del FMI (si sa, gli economisti, specie quelli del FMI, credono molto nell'idea fasulla, e lievemente esoterica, che le loro dichiarazioni possano modificare il trend delle aspettative degli operatori economici, rialzando quindi magicamente la crescita che non c'è) secondo il quale non ci sarà recessione, perché i Paesi emergenti sosterranno la domanda globale con la loro crescita, in realtà non dovrebbe suonare molto rassicurante alle orecchie delle economie capitaliste mature. Infatti, in primo luogo ciò significa che le speranze del capitalismo globale di non crollare saranno sostenute sempre più dalle economie emergenti, che ovviamente chiederanno contropartite consistenti in termini di ruolo nello scacchiere geopolitico mondiale. Ai danni, ovviamente, delle potenze capitalistiche tradizionali. Inoltre, le autorità di politica economica cinesi, come anche quelle di molti altri Paesi emergenti, hanno oggi la necessità di raffreddare la crescita della loro economia e dei loro consumi, perché il surriscaldamento della crescita provoca tensioni inflazionistiche (al proposito, Feldstein, in una intervista del 26 agosto, anticipa la decisione di rivalutare lo yuan, per rallentare la crescita interna cinese e raffreddare le tensioni inflazionistiche, con un tasso di inflazione giunto al 6%, cfr. Il Sole 24 Ore del 26 agosto 2011) e anche potenziali esplosioni di bolle immobiliari analoghe a quella esplosa negli USA nel 2007, alla radice dell'attuale recessione (l'aumento dei tassi di interesse ufficiali praticato dalle autorità cinesi dall'ottobre del 2010, proprio finalizzato a raffreddare la crescita e l'inflazione, sta infatti comportando una esplosione del costo dei mutui immobiliari, cfr. http://economia.bloglive.it/cina-deve-rivalutare-yuan-per-evitare-rischio-collasso-immobiliare-6953.html). Tuttavia, tale raffreddamento della crescita cinese comporterebbe, secondo stime ufficiali, diversi milioni di posti di lavoro in meno nei prossimi 10 anni, con ovvie ripercussioni sulle potenzialità del mercato interno cinese di sostenere, da solo, la ripresa produttiva delle economie capitalistiche mature. Considerazioni analoghe valgono per gli altri “BRIC” minori, come l'India, il Brasile o la Russia.
Pertanto, se è vero che è interesse dei Paesi BRIC di evitare che le economie di Europa e USA crollino del tutto, perché si tratta dei loro principali mercati di esportazione, e perché i BRIC hanno una notevole esposizione nei confronti del debito pubblico delle economie capitalistiche mature (basti pensare che la sola Cina detiene 110 miliardi di Treasury bonds) è anche vero che il sostegno che potranno dare, con il loro mercato interno, alle esportazioni provenienti da Europa ed USA, non potrà eccedere limiti imposti dagli equilibri interni alla loro stessa economia domestica, ed all'esigenza fisiologica di far rallentare progressivamente ed in modo pilotato un ritmo di crescita divenuto troppo elevato, e quindi insostenibile (insostenibile, peraltro, anche socialmente, perché la crescita economica impetuosa degli ultimi anni sta provocando effetti sociali non voluti dal regime cinese, come ad esempio un crescente conflitto sociale nella redistribuzione dei frutti di tale crescita, un crescente inurbamento di popolazione rurale che evolve culturalmente, e si fa sempre più portatrice di istanze democratizzanti).
Peraltro, è tutto da dimostrare che le potenze capitalistiche mature, ed in particolare gli USA, intendano cedere alla Cina le quote di potere geopolitico globale che il ruolo di “salvatrice” del capitalismo le accorderebbe. Il rischio di una conflittualità crescente fra una potenza imperialistica agonizzante ma ancora molto forte – gli USA – ed una emergente – la Cina – si farebbe serio. Avvisaglie in tal senso si sono avute con la strisciante guerra valutaria fra USA e Cina degli scorsi mesi (della quale il “quantitative easing” lanciato dalla FED era un capitolo) che oggi paradossalmente sembra risolversi per l'esigenza stessa della Cina di rivalutare lo yuan per rallentare la crescita interna, e nell'intenzione ufficiale, espressa con tanto di comunicato stampa della Banca centrale cinese, di aumentare i propri investimenti finanziari in titoli del debito pubblico delle economie capitaliste mature (a luglio 2011, le riserve valutarie cinesi sono cresciute del 30,3% su base annua, ed hanno oramai superato i 3.100 miliardi di dollari). Non è mistero che l'agenzia di stampa ufficiale Xinhua abbia duramente rimproverato agli USA l'incertezza nel gestire il problema del potenziale default di bilancio, nonché una politica valutaria troppo accomodante, arrivando a dire che tali scelte possono compromettere il futuro di milioni di persone nel mondo. Sul Quotidiano del Popolo, il ricercatore dell'Accademia cinese per le Scienze Sociali, Li Xiangyang, chiede un freno agli investimenti delle riserve cinesi in dollari, così da evitare ulteriori pericoli, temendo che l'innalzamento del tetto del debito si riveli “un'arma a doppio taglio” puntata sulla Cina, ed invitando a diversificare il portafoglio cinese in titoli del debito pubblico di Paesi dell'area euro. Evidentemente, le ripercussioni di una simile scelta indurrebbero tensioni fra Usa e Cina, poiché, se i cinesi non rinnovano a scadenza i treasury, gli USA finirebbero automaticamente in default, mentre l'acquisizione di quote del debito pubblico di Paesi europei allungherebbe inevitabilmente l'ombra, certamente sgradita alle nostre oligarchie economiche e politiche, di una influenza crescente della Cina anche sul nostro continente.
Tirando le somme: la situazione attuale
Tirando le somme del discorso testé sviluppato, in quale situazione ci troviamo attualmente? Intanto, in una condizione nella quale un secondo ciclo recessivo appare inevitabile. L'ulteriore calo della domanda per consumi, nei prossimi mesi, è inevitabile, perché milioni di persone entreranno in una condizione di disoccupazione strutturale, non risolvibile, e quindi alimenteranno un ulteriore impoverimento e quindi una ulteriore riduzione della domanda solvibile, aggravando l'attuale fase di eccesso di offerta.
Né è pensabile che la declinante domanda di consumi venga compensata da una ripresa degli investimenti. Come afferma il Financial Times dell'8 Gennaio 2011 “le aziende hanno molto denaro contante dopo aver usato la recessione per fare scorta di liquidità a buon mercato e razionalizzare il loro business”. Analisi condivisa dal Sole 24 Ore dell'8 Agosto 2011, che evidenzia come le grandi multinazionali scoppino letteralmente di liquidità. Ma perché tale liquidità esuberante non si trasforma in investimenti? La ragione ce la dà di nuovo il FT: “"l'incertezza negli affari si nutre di se stessa: le multinazionali cercano di rinviare il più possibile gli investimenti aspettando la crescita della domanda, ma più aspettano, più a lungo si dovrà attendere che la ripresa inizi a materializzarsi. In economia come altrove, la cosa che fa più paura è la paura stessa”. In altri termini: la crescita della disoccupazione, e la conseguente riduzione della domanda per consumi (che, tramite il meccanismo delle aspettative, produce effetti prolungati nel tempo, provocando una rinuncia a consumare anche per il futuro, specie in beni durevoli; è notizia di ieri che il clima di fiducia dei consumatori USA è tornato, ad Agosto 2011, ai livelli minimi storici toccati nel 2008) generano una riduzione del clima di fiducia delle imprese. E ciò ne rinvia le decisioni di investimento, e quindi di accumulazione di nuovo capitale fisso. La mancata produzione di nuovi beni capitali impedisce quindi al settore che produce tali beni di far ripartire l'occupazione, e quindi di generare un incremento di domanda solvibile in grado di far ripartire produzione ed occupazione anche nel settore che produce beni di consumo. Il meccanismo delle aspettative impedisce al sistema di ripartire da solo.
D'altro canto, il credito bancario non è in grado di assolvere quella funzione fondamentale di anticipatore di capitale monetario nel processo di metamorfosi del capitale (da capitale monetario a capitale produttivo, per poi divenire nuovamente capitale monetario) che Marx individua con esattezza. Infatti, nonostante il gigantesco, e senza precedenti storici, flusso di aiuti pubblici transitati alle banche, anche sotto forma di nazionalizzazioni massicce, oltre che di aiuti monetari diretti, e nonostante il recupero di efficienza e profittabilità potenziale ottenuto con i processi di ristrutturazione oligopolistica che hanno riguardato il settore bancario mondiale nell'ultimo biennio (conseguenti alla scomparsa di alcuni grandi operatori globali, come la Lehman o la Bear Sterns, per citare solo due delle oltre 16 istituzioni finanziarie fallite e scomparse durante la recessione) il credito bancario rimane bloccato. Ad esempio, nell'area-euro, i prestiti bancari a soggetti privati, nel 2010, crescono solo del 3,4%, e nel secondo trimestre 2011 la crescita sull'analogo trimestre del 2010 è magrissima (+2,2%). Si tratta di dati molto lontani a quelli pre-crisi, che viaggiavano nell'ordine del 12-15% di crescita (fonte: Banca Centrale Europea). Si tratta di una crescita peraltro trainata soprattutto dal credito al consumo, e molto meno da quello alle imprese. Infatti, le banche non possono espandere il loro credito, su tassi minimi necessari per indurre una nuova fase di accumulazione di capitale monetario (e quindi successivamente produttivo) perché i rischi legati ai debiti sovrani di molti paesi (ivi compresi gli Usa, il cui governo federale è tecnicamente in default) e le continue perdite sui mercati finanziari globali deprimono il valore dei patrimoni delle banche stesse (in larga misura investiti in titoli del debito pubblico ed in attività finanziarie). In base alle regole di Basilea, cui tutte le banche del mondo sono legate, perché vi aderiscono le rispettive banche centrali, se il valore del patrimonio a disposizione delle banche non migliora, oppure peggiora, queste non possono erogare credito oltre certi livelli, oppure lo devono addirittura ridurre. Inoltre, le banche, specie quelle USA, sono ancora alle prese con gli strascichi della bolla immobiliare (è notizia di oggi che un'agenzia del governo federale USA ha intentato una causa per 100 miliardi di dollari nei confronti di 17 banche statunitensi, per la gestione dissennata dei mutui sub prime che ha generato la crisi). Alcuni colossi bancari globali, come Bank of America, sono addirittura a rischio fallimento, e la settimana scorsa la Fed ha ricevuto da tale istituto una richiesta sui dettagli di eventuali interventi tesi ad evitare il fallimento della banca stessa.
In questo quadro di aspettative negative incrociate e stagnazione del credito, nemmeno le tradizionali politiche economiche sembrano efficaci. Come ci dice Feldstein all'inizio del presente articolo, le politiche monetarie e fiscali sembrano inutili ad invertire la tendenza recessiva nuovamente in atto. Le prime perché, con i tassi di interesse praticamente azzerati, sono cadute in una classica situazione di “trappola della liquidità”, nella quale gli operatori detengono per finalità precauzionali qualsiasi ammontare di moneta venga loro offerto, senza impatti sulla domanda per consumi o quella per investimenti. Le seconde sono impossibili da attuare, perché praticamente quasi tutte le economie capitalistiche avanzate sono in una condizione di default sovrano, o sono comunque in una condizione di grave deficit del bilancio pubblico, che impone austerità finanziaria, e non manovre keynesiane di stimolo della domanda con denaro pubblico. Tanto che alcuni operatori della borsa di New York, in previsione delle decisioni che la Fed dovrà prendere entro questo mese, suggeriscono a Bernanke di “non fare niente”.
La strategia di uscita tentata dal capitalismo
Cosa farà il capitalismo globale per salvarsi da questa situazione di impasse insormontabile? In realtà non abbiamo esperienze di recessioni “double dip” (ovvero di cicli a forma di “W”) di grandi dimensioni. Il ciclo della recessione nella grande depressione iniziata nel 1929 era il classico ciclo a “V”, e la battuta di arresto nella ripresa verificatasi nel 1937 non può considerarsi una nuova recessione, anche perché troppo lontana dall'inizio della ripresa, verificatosi a metà del 1933. la recessione “double dip” dell'economia statunitense del 1980-1981 era di dimensioni e gravità infinitamente minori rispetto a quanto si sta verificando oggi. Di fatto il processo di accumulazione di capitale è bloccato, e quasi stagnante, su scala globale. Dai dati Ocse sullo stock di capitale disponibile, risulta che la crescita di tale stock, negli Usa, passa da +8,5% nel triennio 2005-2007, a +4,8% in quello 2008-2010; nel 2008-2010, in Giappone si registra una diminuzione dello 0,3% dello stock di capitale; in Germania, si passa da una crescita del 3,3% nel 2005-2007 ad una del 2,5% nel 2008-2010; in Francia, si va dal +6,6% al +3,7% nei due periodi singolarmente considerati. In Italia, la crescita dello stock di capitale è pressoché stagnante (+1,7%) nel 2008-2010. Insomma, l'accumulazione non procede, e se fra fine 2011-inizio 2012 entreremo in una nuova recessione, si bloccherà ulteriormente.
Di fatto, il capitalismo globale era in crisi già dagli anni Settanta, quando la sua fase socialdemocratica, che aveva funzionato per quasi un trentennio, si rivelò inadeguata a sostenere la crescente globalizzazione della competizione. La soluzione trovata, come ben argomenta H. Ticktin in un altro articolo del presente blog, è stata quella di una crescente finanziarizzazione dell'economia. In tal modo, tramite anticipazioni di profitto (sui mercati dei futures) e con profitti usurari su capitali fittizi (sui mercati che intermediano debito pubblico e privato, non legati però ad alcun utilizzo produttivo), nonché su plusvalenze puramente basate sulla scommessa (sui mercati secondari dei titoli del debito pubblico, su quelli valutari e sui mercati secondari degli stessi derivati, originariamente meri strumenti di copertura assicurativa degenerati in strumenti speculativi) si sono ottenuti enormi profitti, non corrispondenti però ad alcuna attività produttiva (non corrispondenti quindi a alcuna accumulazione di nuovo capitale produttivo). L'enorme crescita del valore finanziario di tali attività, rispetto al valore delle attività reali sottostanti e poste a garanzia, ha provocato l'esplosione della bolla che ha dato inizio alla attuale crisi. Se adesso, sia pur sommessamente e con mille circospezioni, negli ambienti borghesi si parla di limitazione del potere delle agenzie di rating, di regolamentazione dei mercati finanziari “over the counter”, di imposte sulle transazioni finanziarie speculative, è che i padroni del vapore capitalista stanno iniziando ad accorgersi che la finanziarizzazione non è la soluzione al declino tendenziale del saggio di profitto, ma anzi un problema che crea ulteriori contraddizioni all'interno del sistema capitalistico. Fondamentalmente, la finanziarizzazione distrae risorse dal processo di accumulazione di capitale produttivo, per cui alla fine gli enormi profitti (fittizi) generati dalle fasi ascendenti dei mercati finanziari non possono essere reinvestiti in attività produttive reali, che scarseggiano. Vengono reinvestiti sui mercati finanziari, fino a che il valore delle attività finanziarie raggiunge un multiplo critico del valore delle attività reali sottostanti poste a garanzia, il mercato va nel panico e si genera una ondata di vendite irrefrenabile. La crisi sui mercati finanziari si propaga alle banche, fortemente esposte sui mercati finanziari stessi, che bloccano il credito, arrestando quindi il processo di metamorfosi produttiva del capitale, generando una crisi produttiva, che a sua volta si scarica sui livelli occupazionali e sulla domanda, trasformandosi in crisi di sovrapproduzione, perché il capitale produttivo esistente non può essere distrutto alla stessa velocità con la quale si riduce la domanda.
A questo punto, non è più possibile ricorrere ad una ulteriore finanziarizzazione dell'economia, perché è questa che ha generato il problema. Occorre tornare alla produzione di merci e servizi, cioè in qualche modo tornare all'inizio, ripartire dalle origini del capitalismo. E quindi, come ben dice lo stesso Ticktin, la strategia di uscita dalla recessione diviene quella “quella del ritorno al capitalismo classico, con la disoccupazione di massa e uno stato sociale minimo”. La ristrutturazione verso il basso dei diritti dei lavoratori e del rapporto fra salario e produttività, tornando al capitalismo più feroce e sfruttatore, diviene quindi una delle condizioni per ripristinare un saggio di plusvalore minimo, e quindi far ripartire l'accumulazione di capitale, e lo stiamo vedendo in questi mesi, con la compressione dei diritti del lavoro ottenuta per via negoziale, con il consenso di sindacati asserviti.
D'altra parte, il tentativo di rassicurazione del cinese Min Zhu, vicedirettore del FMI (si sa, gli economisti, specie quelli del FMI, credono molto nell'idea fasulla, e lievemente esoterica, che le loro dichiarazioni possano modificare il trend delle aspettative degli operatori economici, rialzando quindi magicamente la crescita che non c'è) secondo il quale non ci sarà recessione, perché i Paesi emergenti sosterranno la domanda globale con la loro crescita, in realtà non dovrebbe suonare molto rassicurante alle orecchie delle economie capitaliste mature. Infatti, in primo luogo ciò significa che le speranze del capitalismo globale di non crollare saranno sostenute sempre più dalle economie emergenti, che ovviamente chiederanno contropartite consistenti in termini di ruolo nello scacchiere geopolitico mondiale. Ai danni, ovviamente, delle potenze capitalistiche tradizionali. Inoltre, le autorità di politica economica cinesi, come anche quelle di molti altri Paesi emergenti, hanno oggi la necessità di raffreddare la crescita della loro economia e dei loro consumi, perché il surriscaldamento della crescita provoca tensioni inflazionistiche (al proposito, Feldstein, in una intervista del 26 agosto, anticipa la decisione di rivalutare lo yuan, per rallentare la crescita interna cinese e raffreddare le tensioni inflazionistiche, con un tasso di inflazione giunto al 6%, cfr. Il Sole 24 Ore del 26 agosto 2011) e anche potenziali esplosioni di bolle immobiliari analoghe a quella esplosa negli USA nel 2007, alla radice dell'attuale recessione (l'aumento dei tassi di interesse ufficiali praticato dalle autorità cinesi dall'ottobre del 2010, proprio finalizzato a raffreddare la crescita e l'inflazione, sta infatti comportando una esplosione del costo dei mutui immobiliari, cfr. http://economia.bloglive.it/cina-deve-rivalutare-yuan-per-evitare-rischio-collasso-immobiliare-6953.html). Tuttavia, tale raffreddamento della crescita cinese comporterebbe, secondo stime ufficiali, diversi milioni di posti di lavoro in meno nei prossimi 10 anni, con ovvie ripercussioni sulle potenzialità del mercato interno cinese di sostenere, da solo, la ripresa produttiva delle economie capitalistiche mature. Considerazioni analoghe valgono per gli altri “BRIC” minori, come l'India, il Brasile o la Russia.
Pertanto, se è vero che è interesse dei Paesi BRIC di evitare che le economie di Europa e USA crollino del tutto, perché si tratta dei loro principali mercati di esportazione, e perché i BRIC hanno una notevole esposizione nei confronti del debito pubblico delle economie capitalistiche mature (basti pensare che la sola Cina detiene 110 miliardi di Treasury bonds) è anche vero che il sostegno che potranno dare, con il loro mercato interno, alle esportazioni provenienti da Europa ed USA, non potrà eccedere limiti imposti dagli equilibri interni alla loro stessa economia domestica, ed all'esigenza fisiologica di far rallentare progressivamente ed in modo pilotato un ritmo di crescita divenuto troppo elevato, e quindi insostenibile (insostenibile, peraltro, anche socialmente, perché la crescita economica impetuosa degli ultimi anni sta provocando effetti sociali non voluti dal regime cinese, come ad esempio un crescente conflitto sociale nella redistribuzione dei frutti di tale crescita, un crescente inurbamento di popolazione rurale che evolve culturalmente, e si fa sempre più portatrice di istanze democratizzanti).
Peraltro, è tutto da dimostrare che le potenze capitalistiche mature, ed in particolare gli USA, intendano cedere alla Cina le quote di potere geopolitico globale che il ruolo di “salvatrice” del capitalismo le accorderebbe. Il rischio di una conflittualità crescente fra una potenza imperialistica agonizzante ma ancora molto forte – gli USA – ed una emergente – la Cina – si farebbe serio. Avvisaglie in tal senso si sono avute con la strisciante guerra valutaria fra USA e Cina degli scorsi mesi (della quale il “quantitative easing” lanciato dalla FED era un capitolo) che oggi paradossalmente sembra risolversi per l'esigenza stessa della Cina di rivalutare lo yuan per rallentare la crescita interna, e nell'intenzione ufficiale, espressa con tanto di comunicato stampa della Banca centrale cinese, di aumentare i propri investimenti finanziari in titoli del debito pubblico delle economie capitaliste mature (a luglio 2011, le riserve valutarie cinesi sono cresciute del 30,3% su base annua, ed hanno oramai superato i 3.100 miliardi di dollari). Non è mistero che l'agenzia di stampa ufficiale Xinhua abbia duramente rimproverato agli USA l'incertezza nel gestire il problema del potenziale default di bilancio, nonché una politica valutaria troppo accomodante, arrivando a dire che tali scelte possono compromettere il futuro di milioni di persone nel mondo. Sul Quotidiano del Popolo, il ricercatore dell'Accademia cinese per le Scienze Sociali, Li Xiangyang, chiede un freno agli investimenti delle riserve cinesi in dollari, così da evitare ulteriori pericoli, temendo che l'innalzamento del tetto del debito si riveli “un'arma a doppio taglio” puntata sulla Cina, ed invitando a diversificare il portafoglio cinese in titoli del debito pubblico di Paesi dell'area euro. Evidentemente, le ripercussioni di una simile scelta indurrebbero tensioni fra Usa e Cina, poiché, se i cinesi non rinnovano a scadenza i treasury, gli USA finirebbero automaticamente in default, mentre l'acquisizione di quote del debito pubblico di Paesi europei allungherebbe inevitabilmente l'ombra, certamente sgradita alle nostre oligarchie economiche e politiche, di una influenza crescente della Cina anche sul nostro continente.
Tirando le somme: la situazione attuale
Tirando le somme del discorso testé sviluppato, in quale situazione ci troviamo attualmente? Intanto, in una condizione nella quale un secondo ciclo recessivo appare inevitabile. L'ulteriore calo della domanda per consumi, nei prossimi mesi, è inevitabile, perché milioni di persone entreranno in una condizione di disoccupazione strutturale, non risolvibile, e quindi alimenteranno un ulteriore impoverimento e quindi una ulteriore riduzione della domanda solvibile, aggravando l'attuale fase di eccesso di offerta.
Né è pensabile che la declinante domanda di consumi venga compensata da una ripresa degli investimenti. Come afferma il Financial Times dell'8 Gennaio 2011 “le aziende hanno molto denaro contante dopo aver usato la recessione per fare scorta di liquidità a buon mercato e razionalizzare il loro business”. Analisi condivisa dal Sole 24 Ore dell'8 Agosto 2011, che evidenzia come le grandi multinazionali scoppino letteralmente di liquidità. Ma perché tale liquidità esuberante non si trasforma in investimenti? La ragione ce la dà di nuovo il FT: “"l'incertezza negli affari si nutre di se stessa: le multinazionali cercano di rinviare il più possibile gli investimenti aspettando la crescita della domanda, ma più aspettano, più a lungo si dovrà attendere che la ripresa inizi a materializzarsi. In economia come altrove, la cosa che fa più paura è la paura stessa”. In altri termini: la crescita della disoccupazione, e la conseguente riduzione della domanda per consumi (che, tramite il meccanismo delle aspettative, produce effetti prolungati nel tempo, provocando una rinuncia a consumare anche per il futuro, specie in beni durevoli; è notizia di ieri che il clima di fiducia dei consumatori USA è tornato, ad Agosto 2011, ai livelli minimi storici toccati nel 2008) generano una riduzione del clima di fiducia delle imprese. E ciò ne rinvia le decisioni di investimento, e quindi di accumulazione di nuovo capitale fisso. La mancata produzione di nuovi beni capitali impedisce quindi al settore che produce tali beni di far ripartire l'occupazione, e quindi di generare un incremento di domanda solvibile in grado di far ripartire produzione ed occupazione anche nel settore che produce beni di consumo. Il meccanismo delle aspettative impedisce al sistema di ripartire da solo.
D'altro canto, il credito bancario non è in grado di assolvere quella funzione fondamentale di anticipatore di capitale monetario nel processo di metamorfosi del capitale (da capitale monetario a capitale produttivo, per poi divenire nuovamente capitale monetario) che Marx individua con esattezza. Infatti, nonostante il gigantesco, e senza precedenti storici, flusso di aiuti pubblici transitati alle banche, anche sotto forma di nazionalizzazioni massicce, oltre che di aiuti monetari diretti, e nonostante il recupero di efficienza e profittabilità potenziale ottenuto con i processi di ristrutturazione oligopolistica che hanno riguardato il settore bancario mondiale nell'ultimo biennio (conseguenti alla scomparsa di alcuni grandi operatori globali, come la Lehman o la Bear Sterns, per citare solo due delle oltre 16 istituzioni finanziarie fallite e scomparse durante la recessione) il credito bancario rimane bloccato. Ad esempio, nell'area-euro, i prestiti bancari a soggetti privati, nel 2010, crescono solo del 3,4%, e nel secondo trimestre 2011 la crescita sull'analogo trimestre del 2010 è magrissima (+2,2%). Si tratta di dati molto lontani a quelli pre-crisi, che viaggiavano nell'ordine del 12-15% di crescita (fonte: Banca Centrale Europea). Si tratta di una crescita peraltro trainata soprattutto dal credito al consumo, e molto meno da quello alle imprese. Infatti, le banche non possono espandere il loro credito, su tassi minimi necessari per indurre una nuova fase di accumulazione di capitale monetario (e quindi successivamente produttivo) perché i rischi legati ai debiti sovrani di molti paesi (ivi compresi gli Usa, il cui governo federale è tecnicamente in default) e le continue perdite sui mercati finanziari globali deprimono il valore dei patrimoni delle banche stesse (in larga misura investiti in titoli del debito pubblico ed in attività finanziarie). In base alle regole di Basilea, cui tutte le banche del mondo sono legate, perché vi aderiscono le rispettive banche centrali, se il valore del patrimonio a disposizione delle banche non migliora, oppure peggiora, queste non possono erogare credito oltre certi livelli, oppure lo devono addirittura ridurre. Inoltre, le banche, specie quelle USA, sono ancora alle prese con gli strascichi della bolla immobiliare (è notizia di oggi che un'agenzia del governo federale USA ha intentato una causa per 100 miliardi di dollari nei confronti di 17 banche statunitensi, per la gestione dissennata dei mutui sub prime che ha generato la crisi). Alcuni colossi bancari globali, come Bank of America, sono addirittura a rischio fallimento, e la settimana scorsa la Fed ha ricevuto da tale istituto una richiesta sui dettagli di eventuali interventi tesi ad evitare il fallimento della banca stessa.
In questo quadro di aspettative negative incrociate e stagnazione del credito, nemmeno le tradizionali politiche economiche sembrano efficaci. Come ci dice Feldstein all'inizio del presente articolo, le politiche monetarie e fiscali sembrano inutili ad invertire la tendenza recessiva nuovamente in atto. Le prime perché, con i tassi di interesse praticamente azzerati, sono cadute in una classica situazione di “trappola della liquidità”, nella quale gli operatori detengono per finalità precauzionali qualsiasi ammontare di moneta venga loro offerto, senza impatti sulla domanda per consumi o quella per investimenti. Le seconde sono impossibili da attuare, perché praticamente quasi tutte le economie capitalistiche avanzate sono in una condizione di default sovrano, o sono comunque in una condizione di grave deficit del bilancio pubblico, che impone austerità finanziaria, e non manovre keynesiane di stimolo della domanda con denaro pubblico. Tanto che alcuni operatori della borsa di New York, in previsione delle decisioni che la Fed dovrà prendere entro questo mese, suggeriscono a Bernanke di “non fare niente”.
La strategia di uscita tentata dal capitalismo
Cosa farà il capitalismo globale per salvarsi da questa situazione di impasse insormontabile? In realtà non abbiamo esperienze di recessioni “double dip” (ovvero di cicli a forma di “W”) di grandi dimensioni. Il ciclo della recessione nella grande depressione iniziata nel 1929 era il classico ciclo a “V”, e la battuta di arresto nella ripresa verificatasi nel 1937 non può considerarsi una nuova recessione, anche perché troppo lontana dall'inizio della ripresa, verificatosi a metà del 1933. la recessione “double dip” dell'economia statunitense del 1980-1981 era di dimensioni e gravità infinitamente minori rispetto a quanto si sta verificando oggi. Di fatto il processo di accumulazione di capitale è bloccato, e quasi stagnante, su scala globale. Dai dati Ocse sullo stock di capitale disponibile, risulta che la crescita di tale stock, negli Usa, passa da +8,5% nel triennio 2005-2007, a +4,8% in quello 2008-2010; nel 2008-2010, in Giappone si registra una diminuzione dello 0,3% dello stock di capitale; in Germania, si passa da una crescita del 3,3% nel 2005-2007 ad una del 2,5% nel 2008-2010; in Francia, si va dal +6,6% al +3,7% nei due periodi singolarmente considerati. In Italia, la crescita dello stock di capitale è pressoché stagnante (+1,7%) nel 2008-2010. Insomma, l'accumulazione non procede, e se fra fine 2011-inizio 2012 entreremo in una nuova recessione, si bloccherà ulteriormente.
Di fatto, il capitalismo globale era in crisi già dagli anni Settanta, quando la sua fase socialdemocratica, che aveva funzionato per quasi un trentennio, si rivelò inadeguata a sostenere la crescente globalizzazione della competizione. La soluzione trovata, come ben argomenta H. Ticktin in un altro articolo del presente blog, è stata quella di una crescente finanziarizzazione dell'economia. In tal modo, tramite anticipazioni di profitto (sui mercati dei futures) e con profitti usurari su capitali fittizi (sui mercati che intermediano debito pubblico e privato, non legati però ad alcun utilizzo produttivo), nonché su plusvalenze puramente basate sulla scommessa (sui mercati secondari dei titoli del debito pubblico, su quelli valutari e sui mercati secondari degli stessi derivati, originariamente meri strumenti di copertura assicurativa degenerati in strumenti speculativi) si sono ottenuti enormi profitti, non corrispondenti però ad alcuna attività produttiva (non corrispondenti quindi a alcuna accumulazione di nuovo capitale produttivo). L'enorme crescita del valore finanziario di tali attività, rispetto al valore delle attività reali sottostanti e poste a garanzia, ha provocato l'esplosione della bolla che ha dato inizio alla attuale crisi. Se adesso, sia pur sommessamente e con mille circospezioni, negli ambienti borghesi si parla di limitazione del potere delle agenzie di rating, di regolamentazione dei mercati finanziari “over the counter”, di imposte sulle transazioni finanziarie speculative, è che i padroni del vapore capitalista stanno iniziando ad accorgersi che la finanziarizzazione non è la soluzione al declino tendenziale del saggio di profitto, ma anzi un problema che crea ulteriori contraddizioni all'interno del sistema capitalistico. Fondamentalmente, la finanziarizzazione distrae risorse dal processo di accumulazione di capitale produttivo, per cui alla fine gli enormi profitti (fittizi) generati dalle fasi ascendenti dei mercati finanziari non possono essere reinvestiti in attività produttive reali, che scarseggiano. Vengono reinvestiti sui mercati finanziari, fino a che il valore delle attività finanziarie raggiunge un multiplo critico del valore delle attività reali sottostanti poste a garanzia, il mercato va nel panico e si genera una ondata di vendite irrefrenabile. La crisi sui mercati finanziari si propaga alle banche, fortemente esposte sui mercati finanziari stessi, che bloccano il credito, arrestando quindi il processo di metamorfosi produttiva del capitale, generando una crisi produttiva, che a sua volta si scarica sui livelli occupazionali e sulla domanda, trasformandosi in crisi di sovrapproduzione, perché il capitale produttivo esistente non può essere distrutto alla stessa velocità con la quale si riduce la domanda.
A questo punto, non è più possibile ricorrere ad una ulteriore finanziarizzazione dell'economia, perché è questa che ha generato il problema. Occorre tornare alla produzione di merci e servizi, cioè in qualche modo tornare all'inizio, ripartire dalle origini del capitalismo. E quindi, come ben dice lo stesso Ticktin, la strategia di uscita dalla recessione diviene quella “quella del ritorno al capitalismo classico, con la disoccupazione di massa e uno stato sociale minimo”. La ristrutturazione verso il basso dei diritti dei lavoratori e del rapporto fra salario e produttività, tornando al capitalismo più feroce e sfruttatore, diviene quindi una delle condizioni per ripristinare un saggio di plusvalore minimo, e quindi far ripartire l'accumulazione di capitale, e lo stiamo vedendo in questi mesi, con la compressione dei diritti del lavoro ottenuta per via negoziale, con il consenso di sindacati asserviti.
Ma ciò non basta. Perché ciò deprime ulteriormente la domanda già colpita dalla recessione, quindi impedisce la realizzazione monetaria del capitale produttivo e, come visto in precedenza, blocca la propensione agli investimenti, quindi alla stessa accumulazione. Allora occorre una fase di neo-imperialismo, volta a conquistare mercati di sbocco, o accessi privilegiati ed a basso costo a materie prime fondamentali, in Paesi emergenti del Terzo Mondo, il cui sviluppo autonomo viene bloccato, per servire la causa della “ripresa” produttiva del capitalismo maturo. Inoltre, le guerricciole imperialiste che si scatenano forniscono una possibilità di parziale utilizzo di capitale produttivo in eccesso, e quindi ozioso, verso la produzione di armi e materiale bellico.
Ma, ancora una volta, ciò non basta. Occorre ripristinare le condizioni originarie di convenienza all'investimento, per poter far ripartire il processo di accumulazione. Poiché i privati, terrorizzati da aspettative negative, non investono la loro liquidità, nemmeno se ne hanno in abbondanza, occorre far ripartire il processo di accumulazione con la mano pubblica. Viviamo in effetti una fase in cui, in silenzio, lo Stato ha ricominciato a nazionalizzare imprese o comunque a fornire alle imprese in difficoltà risorse finanziarie pubbliche per riavviare il processo di investimento e produzione, e non solo nel settore bancario ed assicurativo, dove con la scusa dei salvataggi lo Stato (anche il Governo degli USA) è entrato in modo massiccio, ma anche nel settore industriale, ovviamente laddove i conti pubblici lo consentano (e quindi non in Italia, dove l'ipotesi di nazionalizzare la Parmalat, circolata nei mesi scorsi, sembra abbandonata, ma dove Berlusconi è riuscito nella mirabile impresa di “nazionalizzare” una impresa italiana sotto le bandiere di un altro Stato, poiché l'Alitalia, in breve tempo, dovrebbe fondersi con Air France, controllata dal Governo francese). Sarkozy, ad esempio, ha creato un fondo pubblico per rilevare imprese industriali in crisi. Obama ha di fatto nazionalizzato, in collaborazione con il Governo canadese, la General Motors, ed ha prestato forti somme pubbliche alla Chrysler. La Merkel ha finanziato cospicuamente con denaro pubblico la Opel, e di soldi pubblici ne aveva promesso altri se il progetto di acquisizione della Magna fosse andato a buon fine. D'altro canto, i programmi di privatizzazione sono stati quasi ovunque bloccati, specie nel settore bancario, in quello delle telecomunicazioni o in quello delle utilities energetiche. E che dire degli ampi programmi pubblici di incentivazione all'acquisto di beni durevoli (automobili, ma anche elettrodomestici) che fra 2009 e 2010 si sono moltiplicati un po' in tutta Europa, per ricreare condizioni di solvibilità di una domanda asfittica?
Infine, sempre con la mano pubblica ad aiutare, anche finanziariamente, si sta procedendo ad ampi processi di concentrazione oligopolistica in molti settori, ed in particolare in quello energetico (con i governi europei alla frenetica ricerca di alleanze strategiche fra competitori energetici transnazionali, nel settore di trasporti e della logistica, nel settore bancario ed assicurativo, nonché nell'industria automobilistica (che dire del pesante coinvolgimento del governo tedesco nella vicenda della Opel) e finanche in quella alimentare (con, ad esempio, il Governo francese che sponsorizza gli acquisti all'estero di imprese fatti dal colosso agroalimentare nazionale Lactalis). La concentrazione oligopolistica è una condizione essenziale per far ripartire il saggio di profitto, generando sui mercati posizioni di rendita oligopolistica, anche in presenza di una domanda debole.
Conclusioni
In sostanza, un ritorno indietro ad un saggio di sfruttamento del lavoro degno della prima rivoluzione industriale, il cospicuo aiuto della mano pubblica nel ripristinare processi di investimento di medio-lungo termine che i privati non sono disposti a fare, pur in presenza di cospicue dotazioni di liquidità, il sostegno a processi imperialistici per conquistare risorse, o sbocchi di mercato, in Paesi emergenti, e per dare un utilizzo bellico a parti di capitale produttivo inutilizzate, nonché il riavvio di importanti processi di concentrazione oligopolistica, sono le risorse che il capitalismo globale utilizzerà per uscire dalla recessione. Il tutto accompagnato, come si è visto, dal ruolo di sostegno che lo sviluppo impetuoso delle economie BRIC dovrà fornire all'export ed al regolare rimborso del debito pubblico delle economie capitalistiche mature.
Basterà tutto questo affinché il capitalismo globale si salvi? Personalmente ne dubito. La compressione della domanda per consumi sarà troppo grande, il ritorno a logiche produttive e di profittabilità di medio-lungo periodo, da parte di un sistema produttivo drogato da troppa finanza, e da troppi profitti a breve, sarà troppo traumatico, l'azione di sostegno al riavvio dei processi di investimento da parte della mano pubblica sarà fortemente limitata dal dissesto, quasi generalizzato, dei parametri di finanza pubblica (il cui risanamento, indispensabile per ricreare condizioni per la ripartenza dell'accumulazione, basate sulla stabilità del quadro delle politiche pubbliche e sul non-spiazzamento di investimenti privati per esigenze di pubblico bilancio, creerà ulteriori effetti depressivi sulla domanda per consumi e sugli investimenti), il ruolo di sostegno all'export fornito dall'espansione dei mercati interni dei Paesi BRIC sarà limitato dalle esigenze di equilibrio nella crescita sopra accennate, tanti micro conflitti imperialistici potrebbero non bastare a saturare il capitale produttivo eccedente, la compressione dei diritti dei lavoratori e del rapporto salario/produttività potrebbe, prima o poi, incontrare (auspicabilmente) una qualche forma di opposizione sociale (e per contenere tali proteste, probabilmente, risiederà l'esigenza di una virata autoritaria da parte dei tradizionali sistemi di democrazia liberale vigenti nei nostri Paesi).
La casa scricchiola, e le tradizionali certezze della borghesia globale vengono meno. Hans Sinn, non un euroscettico, ma il direttore del prestigiosissimo istituto di ricerca tedesco Ifo, dalle pagine dei giornali pronostica la fine imminente dell'euro, scontando l'impossibilità che i Paesi PIIG possano ottenere un successo nei piani di risanamento loro imposti. L'ascesa di Paesi emergenti, come la Cina, sempre più importanti nel garantire l'ordine economico capitalistico globale che gli USA, nel loro lento declino, non riescono più a garantire, genererà crescenti tensioni geopolitiche e, forse, militari, che potrebbero essere distruttive per il mondo intero. Il rilassamento della tensione verso il rispetto degli obiettivi di Kyoto, indotto dalla crisi (quando non si cresce, non è certo l'ecologia il primo problema) potrebbe portare ad un disastro ecologico globale, pronosticato da molti organismi, quali il club di Roma, che nel suo upgrade del 2004 fissa tale disastro proprio nel nostro secolo. Nessuno può dire cosa succederà, ma il futuro è insieme incerto, pericoloso ed interessante, per chi lo vivrà.
Ma, ancora una volta, ciò non basta. Occorre ripristinare le condizioni originarie di convenienza all'investimento, per poter far ripartire il processo di accumulazione. Poiché i privati, terrorizzati da aspettative negative, non investono la loro liquidità, nemmeno se ne hanno in abbondanza, occorre far ripartire il processo di accumulazione con la mano pubblica. Viviamo in effetti una fase in cui, in silenzio, lo Stato ha ricominciato a nazionalizzare imprese o comunque a fornire alle imprese in difficoltà risorse finanziarie pubbliche per riavviare il processo di investimento e produzione, e non solo nel settore bancario ed assicurativo, dove con la scusa dei salvataggi lo Stato (anche il Governo degli USA) è entrato in modo massiccio, ma anche nel settore industriale, ovviamente laddove i conti pubblici lo consentano (e quindi non in Italia, dove l'ipotesi di nazionalizzare la Parmalat, circolata nei mesi scorsi, sembra abbandonata, ma dove Berlusconi è riuscito nella mirabile impresa di “nazionalizzare” una impresa italiana sotto le bandiere di un altro Stato, poiché l'Alitalia, in breve tempo, dovrebbe fondersi con Air France, controllata dal Governo francese). Sarkozy, ad esempio, ha creato un fondo pubblico per rilevare imprese industriali in crisi. Obama ha di fatto nazionalizzato, in collaborazione con il Governo canadese, la General Motors, ed ha prestato forti somme pubbliche alla Chrysler. La Merkel ha finanziato cospicuamente con denaro pubblico la Opel, e di soldi pubblici ne aveva promesso altri se il progetto di acquisizione della Magna fosse andato a buon fine. D'altro canto, i programmi di privatizzazione sono stati quasi ovunque bloccati, specie nel settore bancario, in quello delle telecomunicazioni o in quello delle utilities energetiche. E che dire degli ampi programmi pubblici di incentivazione all'acquisto di beni durevoli (automobili, ma anche elettrodomestici) che fra 2009 e 2010 si sono moltiplicati un po' in tutta Europa, per ricreare condizioni di solvibilità di una domanda asfittica?
Infine, sempre con la mano pubblica ad aiutare, anche finanziariamente, si sta procedendo ad ampi processi di concentrazione oligopolistica in molti settori, ed in particolare in quello energetico (con i governi europei alla frenetica ricerca di alleanze strategiche fra competitori energetici transnazionali, nel settore di trasporti e della logistica, nel settore bancario ed assicurativo, nonché nell'industria automobilistica (che dire del pesante coinvolgimento del governo tedesco nella vicenda della Opel) e finanche in quella alimentare (con, ad esempio, il Governo francese che sponsorizza gli acquisti all'estero di imprese fatti dal colosso agroalimentare nazionale Lactalis). La concentrazione oligopolistica è una condizione essenziale per far ripartire il saggio di profitto, generando sui mercati posizioni di rendita oligopolistica, anche in presenza di una domanda debole.
Conclusioni
In sostanza, un ritorno indietro ad un saggio di sfruttamento del lavoro degno della prima rivoluzione industriale, il cospicuo aiuto della mano pubblica nel ripristinare processi di investimento di medio-lungo termine che i privati non sono disposti a fare, pur in presenza di cospicue dotazioni di liquidità, il sostegno a processi imperialistici per conquistare risorse, o sbocchi di mercato, in Paesi emergenti, e per dare un utilizzo bellico a parti di capitale produttivo inutilizzate, nonché il riavvio di importanti processi di concentrazione oligopolistica, sono le risorse che il capitalismo globale utilizzerà per uscire dalla recessione. Il tutto accompagnato, come si è visto, dal ruolo di sostegno che lo sviluppo impetuoso delle economie BRIC dovrà fornire all'export ed al regolare rimborso del debito pubblico delle economie capitalistiche mature.
Basterà tutto questo affinché il capitalismo globale si salvi? Personalmente ne dubito. La compressione della domanda per consumi sarà troppo grande, il ritorno a logiche produttive e di profittabilità di medio-lungo periodo, da parte di un sistema produttivo drogato da troppa finanza, e da troppi profitti a breve, sarà troppo traumatico, l'azione di sostegno al riavvio dei processi di investimento da parte della mano pubblica sarà fortemente limitata dal dissesto, quasi generalizzato, dei parametri di finanza pubblica (il cui risanamento, indispensabile per ricreare condizioni per la ripartenza dell'accumulazione, basate sulla stabilità del quadro delle politiche pubbliche e sul non-spiazzamento di investimenti privati per esigenze di pubblico bilancio, creerà ulteriori effetti depressivi sulla domanda per consumi e sugli investimenti), il ruolo di sostegno all'export fornito dall'espansione dei mercati interni dei Paesi BRIC sarà limitato dalle esigenze di equilibrio nella crescita sopra accennate, tanti micro conflitti imperialistici potrebbero non bastare a saturare il capitale produttivo eccedente, la compressione dei diritti dei lavoratori e del rapporto salario/produttività potrebbe, prima o poi, incontrare (auspicabilmente) una qualche forma di opposizione sociale (e per contenere tali proteste, probabilmente, risiederà l'esigenza di una virata autoritaria da parte dei tradizionali sistemi di democrazia liberale vigenti nei nostri Paesi).
La casa scricchiola, e le tradizionali certezze della borghesia globale vengono meno. Hans Sinn, non un euroscettico, ma il direttore del prestigiosissimo istituto di ricerca tedesco Ifo, dalle pagine dei giornali pronostica la fine imminente dell'euro, scontando l'impossibilità che i Paesi PIIG possano ottenere un successo nei piani di risanamento loro imposti. L'ascesa di Paesi emergenti, come la Cina, sempre più importanti nel garantire l'ordine economico capitalistico globale che gli USA, nel loro lento declino, non riescono più a garantire, genererà crescenti tensioni geopolitiche e, forse, militari, che potrebbero essere distruttive per il mondo intero. Il rilassamento della tensione verso il rispetto degli obiettivi di Kyoto, indotto dalla crisi (quando non si cresce, non è certo l'ecologia il primo problema) potrebbe portare ad un disastro ecologico globale, pronosticato da molti organismi, quali il club di Roma, che nel suo upgrade del 2004 fissa tale disastro proprio nel nostro secolo. Nessuno può dire cosa succederà, ma il futuro è insieme incerto, pericoloso ed interessante, per chi lo vivrà.
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