Introduzione: della qualità umana e professionale degli economisti mainstream
Finalmente ad un convegno cui ho partecipato oggi a Roma i colleghi economisti hanno abbandonato il mantra che ripetevano da mesi, ovvero che la ripresa è alle porte, il peggio è passato, ecc. (sarebbe utile ricordare che fino al 2010 si stimava, per il nostro Paese, una crescita al 2011 dell'1,3%, che dovrebbe essere in realtà, secondo le ultime stime di preconsuntivo, pari allo 0,7%, ovvero la metà di quanto preventivato! La ripresa, prevista per il 2012 ad un tasso dell'1,8%, oggi viene negata, poiché le ultime previsioni stimano per il 2012 una crescita pressoché nulla (0,2%). Nessun economista, nessun centro studi, ha chiesto scusa per tali enormi errori di stima! Finalmente ho sentito ammettere (ovviamente senza chiedere scusa per gli errori pregressi) che vivremo ancora per molti anni all'interno di questa situazione di assenza di crescita e di progressivo impoverimento di ampie fasce della popolazione. Si cita Prescott (premio Nobel dell'economia) secondo cui questa fase non è congiunturale, ma è strutturale, e corrisponde ad uno storico spostamento della ricchezza dall'Occidente in declino all'Oriente in fase di sviluppo (peraltro con una citazione ingenua, che non tiene conto dei crescenti squilibri socio-economici della crescita cinese, che potrebbero portare il gigante asiatico ad una sua specifica forma di recessione, cfr. a tal proposito “rischi di Crollo Economico in Cina”, di J. Cahn, su http://stefano-santarelli.blogspot.com/. Ancora un volta, l'omissione di documentazione rilevante sulla situazione reale, che smentirebbe dichiarazioni perentorie come quella della “vittoria economica cinese”, denuncia ciarlataneria, superficialità e scarsa scientificità). Di fatto, gli economisti mancano delle più elementari forme di umanità, come la modestia, l'onestà intellettuale, la prudenza prima di formulare previsioni azzardate. In breve, mancano di quelle qualità fondamentali per potersi approcciare ad un metodo anche lontanamente "scientifico". Noi economisti siamo solo apprendisti stregoni, ciarlatani e cacciatori di consulenze ed incarichi.
Se così stanno le cose, vorrei domandare al lettore che cosa ci si può attendere da personaggi cinici, faciloni, avidi e scarsamente scientifici, quando costoro diventano Presidenti del Consiglio, come sta facendo Monti, colui il quale ha criticato le analisi economiche marxiste, avendole evidentemente lette sul Corriere dei Piccoli, o al massimo su qualche numero arretrato del Reader's Digest. Solo in questo modo si può affermare, come fatto da Monti, che “solo tutelando pragmaticamente i propri interessi nel contesto di economie di mercato che devono affermarsi nella competizione internazionale”, i deboli “possono creare lo spazio per dosi maggiori di socialità (adeguati servizi sociali, sistema fiscale redistributivo, ecc.)” (cfr. l'intervista a Monti sul Corriere della Sera dell'11.01.2002). Solo un ubriaco o un ignorante potrebbe fare simili affermazioni, stante la realtà di una fase socialdemocratica del capitalismo in regresso, quanto ad ampiezza dei diritti “pragmaticamente” garantiti ai lavoratori, sin dalla fine degli anni Settanta (e magari ad iniziare dall'abolizione della scala mobile, avviatasi progressivamente sin dal 1984, che nel nostro Paese segna il punto di inizio della parabola discendente dei diritti sociali garantiti ai lavoratori dal “capitalismo concorrenziale e pragmatico”).
In tale articolo, cercherò di dimostrare come l'ipotesi di Governo-Monti sia funzionale soltanto a posporre temporalmente, al massimo di pochi mesi o anni, un evento che non può in alcun modo essere evitato, ovvero la dichiarazione di default del nostro debito sovrano.
Perché il default è inevitabile
Infatti, nel poliformico dibattito sul Governo- Monti, ipotesi che si fa ogni ora sempre più concreta, occorre tenere bene a mente un elemento fondamentale, che viene deformato e mistificato dai media. Non è vero che l'Italia “ce la può fare” stringendo la cinghia e facendo dei sacrifici. Non è vero che è possibile, in prospettiva, evitare l'uscita dall'euro ed il default, semplicemente sottoponendosi alla macelleria sociale con la docilità del bue drogato, che viene avviato al mattatoio. L'Italia è già un Paese prossimo al default tecnico, e privo di qualsiasi strumento per evitarlo. Non serve una laurea ed un Phd, e non serve essere un sofisticato economista come Monti, per capirlo. Un Paese in cui il debito supera il PIL e la crescita dello stesso PIL è ferma, dopo esser stata negativa per un paio di anni, (e quindi non vi è un incremento di ricchezza netta in grado di fornire gettito fiscale aggiuntivo per pagare gli interessi incrementali sul debito, mano a mano che le rate del debito stesso vanno in scadenza, mentre la quota capitale aumenta proprio in virtù del calo delle entrate e della anelasticità delle spese pubbliche), mentre anche il risparmio privato delle famiglie si assottiglia per far fronte al calo del reddito e il sistema bancario diviene rapidamente sempre più fragile, è già un Paese ad un centimetro dal default tecnico, anche se questo non è ancora dichiarato ufficialmente.
Monti non può fare niente per risolvere tale situazione. Il cosiddetto “effetto Monti” sbandierato dai giornali in queste ore si traduce in un risparmio di 3 miliardi di interessi, quando le scorse aste dei Btp e dei Bot hanno provocato, con l'incremento dello spread verificatosi negli ultimi giorni, un extra interesse di circa 14 miliardi. Per la precisione, il cosiddetto “effetto-Monti” non è nemmeno un risparmio, è solo una riduzione del costo aggiuntivo che il Paese dovrà pagare, da 14 a 11 miliardi.
Per avere una prima approssimazione nella comprensione del fenomeno, certamente semplicistica ma perlomeno chiara, basta ricorrere alla metafora di una famiglia: se una famiglia è indebitata in misura superiore ai suoi introiti, e questi non crescono, ma addirittura in prospettiva promettono di diminuire, ed il suo patrimonio perde di valore, perché il risparmio viene utilizzato per pagare il debito e per sostituire i mancati introiti, tale famiglia è già fallita. Nessuna banca le concederebbe un prestito, nemmeno di pochi spiccioli.
Naturalmente, le cose non sono così semplici a livello di un sistema economico complessivo. Coloro i quali ci ammanniscono la favoletta che “l'Italia ce la può ancora fare” fanno leva su alcuni elementi di robustezza strutturale del sistema, che certamente sono reali, che certamente rendono la situazione italiana differente rispetto a quella greca, irlandese o spagnola, e per certi versi meno catastrofica. Purtroppo, però, come spiegherò sinteticamente di seguito, tali elementi “consolatori” sono in forte affievolimento, e quindi non possono, ragionevolmente, essere utilizzati per fondare una realistica speranza di superamento della drammatica fase che abbiamo di fronte. Gli argomenti consolatori, sinteticamente, possono essere così compendiati:
- l'Italia è un Paese ad elevata densità manifatturiera. Il tessuto industriale italiano è ancora diffuso, importante e radicato sul territorio. Non si tratta quindi di un'economia di pura intermediazione, o di una moncoltura economica;
- il sistema bancario nazionale è solido; il livello di rischio patrimoniale ed operativo delle banche italiane è marcatamente inferiore alla media, anche dei grandi Paesi europei, come Francia o Germania, e anche migliore rispetto al sistema bancario statunitense;
- a fronte di un elevatissimo debito pubblico, i conti patrimoniali delle famiglie sono sostanzialmente sani; il risparmio privato è elevato, mentre l'esposizione debitoria, o su attività finanziarie rischiose dei privati, è relativamente contenuta.
Tali argomenti contengono ovviamente un fondo di verità, e valgono a qualificare il nostro Paese come il “meno PIG di tutti i PIIGS”. Tuttavia tali aspetti favorevoli non sono sufficienti per nascondere sotto il tappeto il fatto che già oggi ci troviamo in default tecnico, e che quindi non ce la possiamo fare, Monti o non Monti, Dini o non Dini, Governo tecnico o elezioni anticipate. Vediamo perché. Con riferimento allo spessore manifatturiero del nostro Paese, questa densità produttiva potrebbe valere a salvarci, ripristinando condizioni di crescita atte a generare le risorse aggiuntive per ripagare, sia pur lentamente, il debito, facendolo rientrare al di sotto del 100% del PIL, soltanto se tale denso tessuto produttivo fosse effettivamente competitivo rispetto ai concorrenti internazionali, e quindi riuscisse a conquistare le quote di mercato necessarie per generare la ricchezza netta occorrente a placare la sete finanziaria dell'iperindebitato comparto pubblico. Ora, un indicatore sintetico di misurazione della competitività è rappresentato dalla produttività totale dei fattori produttivi. Questo perché sul valore assunto dalla PTF influiscono tutti i fattori competitivi elementari, interni ed esterni alle imprese. Il valore della PTF è infatti influenzato sia da fattori ambientali esterni all'impresa, come il tasso di innovazione tecnologica del sistema-Paese, la qualità formativa ed educativa del capitale umano, la dotazione di infrastrutture logistiche ed immateriali, la qualità del rapporto fra banche ed imprese e fra imprese e pubblica amministrazione, oltre che ovviamente da fattori strettamente aziendalistici, come l'efficacia delle strategie competitive messe in atto dalle imprese stesse, la loro dimensione media, il loro grado di capitalizzazione, la loro efficienza organizzativa interna, ecc. Ora, un confronto internazionale fra la PTF italiana e quella dei principali concorrenti dell'area-Ocse segnala che, con un tasso di incremento medio annuo dello 0,2% nel periodo 1997-2007, e con un incremento cumulato pari ad appena l'1,5% nel decennio considerato, l'Italia è praticamente il fanalino di coda dell'intera Unione Europea (che nel periodo in esame mette a segno un incremento medio annuo dello 0,8%, ed una crescita cumulata dell'8,1%). In pratica, facciamo meglio soltanto rispetto alla Spagna, ma la dinamica della nostra produttività totale dei fattori è peggiore persino rispetto alla Grecia o al Portogallo.
Tasso di crescita cumulato della produttività totale dei fattori nel periodo 1997-2007
Fonte: Confindustria su dati Ocse, Eurostat
Con una simile dinamica della PTF, è ovvio che il sistema produttivo italiano perde competitività rispetto ai concorrenti, e quindi la sua capacità di generare nuova ricchezza, necessaria per ripagare il debito, ne risulta progressivamente sempre più compromessa. Cosa occorrerebbe fare per invertire tale dinamica? Ovviamente fare importanti investimenti di rilancio competitivo, sia sula versante dell'ambiente entro il quale le imprese operano (e quindi investimenti pubblici) sia sul versante degli investimenti delle imprese stesse. Ora, gli investimenti pubblici sul sistema-Paese complessivo sono ovviamente preclusi dall'esigenza di risparmiare risorse finanziarie per rientrare dall'extra-debito. Gli investimenti privati delle imprese sono limitati da un rapporto con le banche da sempre molto difficile e conflittuale (infatti, come segnalano i dati Unioncamere, le imprese italiane utilizzano, nel 50% dei casi, l'autofinanziamento per coprire il fabbisogno finanziario degli investimenti, evitando quindi di ricorrere alle banche). E' di tutta ovvietà che in una fase di crisi come quella attuale, i margini di autofinanziamento si sono ridotti moltissimo, per cui il ricorso al prestito bancario per fare investimenti è diventato imprescindibile.
E qui veniamo al secondo elemento “consolatorio”, ovvero la robustezza del sistema bancario italiano, che secondo chi sostiene che “ce la possiamo fare” può tradursi in un importante volano per sostenere gli investimenti necessari per recuperare il gap di competitività. Andiamo un po' a vedere il Rapporto sulla Stabilità Finanziaria della Banca d'Italia, per analizzare tale aspetto. E' vero che il grado complessivo di rischiosità del sistema bancario italiano è inferiore a quello dei concorrenti. Infatti, il rischio patrimoniale, misurato tramite l'EDF (expected default rate) ad un anno è leggermente inferiore alla media delle banche europee (1,6%, contro il 2%, a Ottobre 2011) benché sia molto più elevato, ad esempio, rispetto alle banche statunitensi (0,6%). Il rischio operativo è ancora basso, perché il tasso di ingresso in sofferenza della clientela è pari al 2% nel primo semestre 2011, quando era del 3,7% nel 1993. Il rischio sistemico (ovvero il rischio di un default a catena di più banche, che farebbe tracollare l'intero sistema dei pagamenti) misurato tramite la Jpod (joint probability of default) è ancora sostenibile, attestandosi attorno al 6% ad ottobre di questo anno.
Il problema fondamentale, però, è che se guardiamo alla dinamica dei dati, anziché al loro valore assoluto a fine periodo, constatiamo che il sistema bancario italiano si sta rapidamente mangiando il patrimonio di solidità che lo contraddistingue. Sul versante del rischio patrimoniale, l'EDF ha subito un rapido incremento, passando dallo 0,5% di Dicembre 2010 all'1,6% di Ottobre 2011, tal ché oggi le banche italiane subiscono un rischio patrimoniale molto più alto di quelle statunitensi, mentre tradizionalmente era vero il contrario. Sul versante del rischio operativo, il tasso di ingresso in sofferenza cresce dallo 0,9% del 2007 al 2% di metà 2011. Inoltre, tale indicatore è artificiosamente basso, perché reso basso dalla cartolarizzazione dei crediti in sofferenza, che non fa altro che spostare il rischio di insolvenza dalle banche alle società finanziarie che acquisiscono il credito cartolarizzato (e quindi, in termini di rischio complessivo per il sistema nel suo insieme, non cambia niente). Infine, il rischio sistemico, misurato sempre dalla Jpod, passa dallo 0,5% di inizio 2009 al 6% di Ottobre 2011. soprattutto si riscontra che il rischio sistemico, che fino al 2010 era più basso rispetto ai concorrenti, a fine 2011 è diventato più alto rispetto ai sistemi bancari di Germania, Regno Unito, Francia e persino della inguaiatissima Spagna!
Quindi in realtà il sistema bancario italiano si sta caricando di fattori di fragilità, ad un ritmo superiore rispetto ai principali concorrenti. Ed i risultati sono che il credito alle imprese, necessario per effettuare gli investimenti indispensabili a recuperare il sopra analizzato gap di competitività, anziché crescere si riduce. Le previsioni della Banca d'Italia segnalano infatti una riduzione a zero del tasso di crescita degli impieghi bancari ad imprese entro la fine del 2013, un vero e proprio “credit crunch” di dimensioni analoghe a quello verificatosi nel 2009, anno terribile per le finanze aziendali, prosciugatesi anche a causa del blocco quasi totale del credito bancario. Tale tendenza è il frutto della crescente fragilità, e del crescente grado di rischiosità, del sistema bancario italiano, che quindi non è così solido come vorrebbero farci credere gli “ottimisti” sostenitori di Monti. Tra l'altro, i criteri restrittivi sul buffer di capitale delle banche europee introdotti il 26 ottobre scorso, ed i criteri molto rigidi, in termini di dotazione minima di patrimonio tier 1 introdotti da Basilea 3, contribuiranno ulteriormente ad azzerare il flusso di credito bancario alle imprese. Il gap competitivo del sistema produttivo italiano, di conseguenza, aumenterà, fino a portare al corto circuito il sistema produttivo stesso, e di conseguenza, a cascata, anche le banche creditrici.
Veniamo all'ultimo argomento degli “ottimisti”, ovvero il risparmio privato delle famiglie. Ora, un concetto di economia elementare è che il risparmio contribuisce alla crescita, e quindi ad evitare il default, solo se viene speso per consumi. Altrimenti non alimenta il circuito dell'economia. Ora, sulla propensione alla spesa per consumi influiscono le aspettative dei consumatori, che però, come ci segnala l'Istat, continuano ad essere gravemente depresse. Quindi i consumi latitano: ad agosto 2011, l'indice delle vendite del commercio al dettaglio, rispetto al corrispondente mese dell'anno precedente, diminuisce dello 0,3%, dopo un tracollo tendenziale del 2%, dell'1% e dello 0,6% nei tre mesi precedenti. Quindi l'elevato risparmio privato non serve a niente, in termini di contributo alla salvezza del sistema: non contribuisce alla crescita, perché non si traduce in consumi, e non contribuisce alla solidità delle banche depositarie di detto risparmio, il cui grado di rischiosità e fragilità, come si è visto, è in crescita preoccupante. Non si vede quindi come tale elemento possa contribuire a salvare il Paese dal default. Tra l'altro, anche tale presunta solidità patrimoniale delle famiglie è anch'essa in rapido deterioramento: l'indebitamento delle famiglie italiane passa dal 37% del loro reddito lordo nel 2002 al 65% nel 2010. Inoltre, la crescita dell'esposizione debitoria riguarda soprattutto i nuclei familiari economicamente più deboli, cioè proprio quelli che hanno le maggiori difficoltà a rimborsare il debito, poiché, al 2008, la quota di famiglie debitoriamente vulnerabili è del 5,6% nel segmento del 25% delle famiglie con il più basso reddito, mentre è appena dell'1% nel 25% delle famiglie più ricche.
In sintesi, dunque, gli elementi di “vantaggio” di cui dovrebbe godere l'Italia, e sui quali dovrebbe affidarsi per evitare il default, sono, come si è visto, illusori, o in rapido degrado. D'altra parte, i sostenitori della tesi secondo la quale, con un governo tecnico guidato da Monti, l'Italia ce la può fare, dovrebbero spiegare perché le agenzie di rating, meno di un mese fa, abbiano abbassato il rating dell'Italia su livelli di rischio analoghi a quelli di Trinidad e Tobago o del Cile, e peggiori persino rispetto alla Spagna, altro Paese PIIGS, oltretutto con outlook negativo, quindi con prospettive future di ulteriore aumento del rischio-Paese: un ulteriore declassamento, anche solo di un gradino, ci porterebbe ad un rating tipico dei junk-bonds. E' evidente, quindi, che il default è inevitabile. Si tratta di una eventualità che nemmeno i presunti “fattori di forza” del nostro Paese possono evitare, e che tutt'al più può essere rinviata di qualche mese, o forse di qualche anno.
A cosa servirebbe allora un governo-Monti? Soltanto a tenere in "coma farmacologico" per qualche anno un bilancio dello Stato e degli enti locali che è già clinicamente morto, al prezzo di immani stragi sociali.
Il costo sociale di ritardare l'inevitabile dichiarazione di default
Ma quale sarà il costo sociale che il popolo italiano dovrà pagare, per ritardare di qualche tempo l'inevitabile dichiarazione di default? Abbiamo almeno due chiari esempi dei costi sociali enormi, connessi al tentativo di ritardare l'inevitabile dichiarazione di default, e sono quelli dell'Argentina degli anni Novanta e della Grecia dei giorni nostri. Iniziamo a studiare il caso argentino. Di fatto il Paese era già fallito quando Alfonsin, sotto la pressione popolare, si dimise anticipatamente da presidente della repubblica nel 1989. Il PIL non cresceva più, il debito estero era alle stelle, ed era già virtualmente impagabile, il Paese precipitava in una rapida spirale di impoverimento e di iperinflazione. Meném, che sostituì Alfonsìn, da buon cacicco peronista, anziché ammettere la situazione e quindi ripudiare il debito estero, preferì mettere in coma farmacologico un paziente che, altrimenti, sarebbe clinicamente deceduto. Nominò a Ministro dell'Economia Domingo Cavallo, l'ennesimo “guru”, non a caso pluridecorato dalle istituzioni accademiche e finanziarie globali, con il compito di congelare la crisi (naturalmente poco contava il fatto che, negli anni ottanta, da governatore della Banca Centrale, lo stesso Cavallo non avesse avuto nessun problema a autorizzare le imprese private a trasferire i loro debiti allo Stato, contribuendo così al default del Paese). Ma si sa: a Caval donato non si guarda in bocca...
Non appena nominato Ministro, il buon Cavallo implementò...una cura da Cavallo, per prolungare nel tempo l'inevitabile momento in cui l'Argentina avrebbe dovuto dichiarare ufficialmente un default già materializzatosi nei fatti. Mise in pratica un sistema di cambio fisso con il dollaro, la famigerata “ley de convertibilidad” del 1991, che costringeva la Banca Centrale a mantenere un ammontare di riserve ufficiali in dollari esattamente uguale alla massa monetaria in circolazione. In questo modo, riuscì, certamente, a domare la storica iperinflazione argentina (alimentata a sua volta dall'esplosiva crescita del debito pubblico e privato, destinata a mantenere artificiosamente alto il tenore di vita medio di un Paese con fondamentali macroeconomici ed occupazionali da Terzo Mondo), ma al prezzo....di strangolare la domanda aggregata, tramite la compressione del circolante e gli alti tassi di interesse, applicati per evitare fughe di capitali denominati nei preziosi dollari. Anche in questo caso, verrebbe da dire che non serve una laurea in economia per capire che se si deprime la domanda la crescita dei prezzi rallenta....si chiama “legge della domanda e dell'offerta”, ed è nota a qualsiasi padre di famiglia munito di diploma della scuola dell'obbligo. Però il rallentamento della domanda bloccò la crescita, fece aumentare a dismisura la disoccupazione, e, poiché, come tutti sanno, il debito pubblico è endogeno al PIL, il debito pubblico nazionale continuò ad aumentare, anziché ridursi (ad onor del vero, ciò si verificò anche a causa della massiccia corruzione dilagata all'ombra del delinquenziale governo di Meném). Ed il debito pubblico aumentava nonostante l'ondata massiccia di privatizzazioni di imprese pubbliche effettuato in quesgli anni (da Aerolineas Argentinas a Telecom Argentina, tanto per fare due esempi), a dimostrazione del fatto che le privatizzazioni si fanno per far fare qualche buon affare agli amici, ma non certo per risanare il bilancio pubblico.
Quindi, il mantenimento del bilancio federale sotto “coma farmacologico”, per paura di dichiararne il decesso clinico, costò al Paese un ulteriore aumento del debito pubblico, una contrazione della crescita, un aumento della disoccupazione, un dilagante impoverimento dei ceti medi e del proletariato industriale e rurale. La crisi messicana del 1995 e la svalutazione del Real brasiliano del 1999, accompagnata da una rivalutazione del peso (che era costretto a seguire l'andamento del dollaro, grazie alla geniale ley de convertibilidad) portarono ad una recessione che rese impossibile continuare a somministrare farmaci al defunto, per tenerlo in stato vegetativo (anche perché la regola di convertibilità, di fatto, impediva l'utilizzo a fini anticiclici della politica monetaria, un po' la stessa cosa che succede oggi, con i Paesi europei che non hanno più la sovranità della propria politica monetaria). Cosicché, di fronte a tale situazione oramai insostenibile, nel 1999 il nuovo presidente De La Rùa ereditò un Paese in cui il PIL precipitava ad un ritmo del 4% annuo, e la disoccupazione aveva raggiunto livelli socialmente insostenibili, traducendosi in una dilagante criminalità e in un vero e proprio fenomeno di polverizzazione dei ceti medi, nei casi di bambini delle elementari che svenivano in classe perché, non potendo mangiare, venivano ingozzati dai genitori impoveriti di “mate cocido”, mentre l'insostenibilità del tasso di cambio ”1 a 1” fra peso e dollaro causava una continua fuga di capitali dal sistema bancario, che nel 2001, nonostante i provvedimenti amministrativi di sequestro dei depositi bancari (il famoso “corralito”) tracollò. Il Paese attraversò quindi una profonda recessione che durò fino al 2003, quando di fatto il nuovo presidente Kirchner fece ciò che Meném avrebbe dovuto fare 14 anni prima: dichiarò il default e conseguentemente ripudiò parte del debito estero. Aver tenuto per 14 anni in coma farmacologico un bilancio federale morto costò immani disastri sociali ed un allargamento della povertà che ancora oggi non è stato del tutto riassorbito. A cosa servirono tali sacrifici? A niente. Il Paese fu comunque costretto a dichiarare default, solo con 14 anni di ritardo.
Nonostante tale lezione, la comunità finanziaria internazionale ha applicato lo stesso rimedio alla povera Grecia: quando nel 2010 divenne chiaro, scoprendo i “veri” conti pubblici greci, che il Paese era in default, furono imposte drammatiche misure di austerità, mirate a prolungare l'agonia il tempo necessario alle banche creditrici per recuperare il recuperabile dei loro crediti, mentre la società greca soffocava sotto il peso delle politiche di austerità. E, come documenta il rapporto confidenziale della trojka di qualche settimana fa, ciò non è ovviamente servito a salvare il Paese dal default, posto che nello scenario “migliore”, si stima che il debito pubblico greco potrà tornare a farsi finanziare sui mercati non prima del 2020. D'altra parte, pretendere di risanare il disavanzo di bilancio ed il debito pubblico con il PIL in recessione a causa delle misure di austerità, e quindi il gettito fiscale in caduta libera, è un po' come pretendere di far passare il cammello dalla biblica cruna dell'ago.
Che fare?
La lezione allora è sempre la stessa: diffidare dai guru dell'economia, diffidare dai Cavallo, dai Monti, dai Venizelos, che vengono “gonfiati” dai media borghesi, per presentarli alle opinioni pubbliche spaventate e confuse dei Paesi in default come dei “geni”, dei “salvatori della Patria”. La loro unica funzione è di ritardare quanto più possibile la dichiarazione ufficiale di default, per consentire ai creditori di recuperare il recuperabile, e di fare gli ultimi buoni affari tramite l'acquisto di tutto ciò che è acquistabile del patrimonio pubblico del governo fallito (tramite le privatizzazioni di qualsiasi cosa, anche delle spiagge, degli aeroporti e dei beni culturali e del demanio pubblico, come progetta di fare la Grecia) ovviamente facendo pagare un prezzo sociale altissimo al popolo, al solo fine di tenere in stato vegetativo un paziente morto, fintanto che la dichiarazione di morte non diviene inevitabile. Diffidate dagli economisti: non sono guru, non sono maghi, spesso non hanno neanche un approccio scientifico. Ma conoscono il valore del denaro, e sanno vendersi bene nell'interesse dei capitalisti.
Occore comprendere che, oggi, non c'è alcuna soluzione magica al problema della nostra economia. Occorre dichiarare default immediatamente, evitando il massacro sociale del periodo di “coma farmacologico”, uscire dall'euro, ma non unilateralmente (perché l'uscita unilaterale del singolo Paese dall'euro lo sottoporrebbe ad una drammmatica fase recessiva nei successivi 2-3 anni), bensì in modo coordinato e contemporaneo con Grecia, Spagna e Portogallo, e creare un'area di libero scambio mediterranea, alargata anche al Nord Africa ed ai Balcani, con una valuta comune diversa dall'euro, e significativamente svalutata rispetto all'euro stesso, ed operare con un modello competitivo export-based basato su un'elevata competitività di costo, facilitata dalla svalutazione della moneta, comportandosi esattamente come un Paese BRIC, con politice fiscali e monetarie coordinate all'interno di tale area mediterranea, avendo come mercati-target proprio quelli dell'area nord europea che rimarrebbe dentro l'euro. Solo ripartendo da un parzale ripudio del debito estero, e con modelli competitivi da economie emergenti, è possibile sopravvivere. Tutti insieme, però.
Oggi l’Italia ha solo due scelte davanti: o accetta il diktat di Banca Centrale Europea (BCE) e Fondo Monetario Internazionale (FMI), o va in default.
RispondiEliminaLe oligarchie capitalistiche, sostenute dal centrosinistra, agitano il default come uno spauracchio.
Tra i due mali il minore è dichiararsi insolventi, uscire dall’euro e dall’Unione, riguadagnare la sovranità monetaria, nazionalizzare il sistema bancario, rinegoziare il debito da posizioni di forza.
Se dobbiamo attraversare un periodo di grandi sacrifici, facciamolo, prima però riprendiamo in mano il nostro destino nazionale, rifondiamo la nazione secondo i principi della decrescita e della sovranità alimentare, istituendo un reddito minimo e tassando le rendite finanziarie ed i patrimoni.
Italia, Grecia, Portogallo, Spagna e i Paesi del Nordafrica dovrebbero allearsi per fronteggiare l’attacco franco-tedesco, magari fondando una nuova entità economica.
Sarebbe interessante, in questa ottica, creare un nuovo sistema bancario ispirato alla finanza islamica, che vieta interessi sui prestiti e favorisce investimenti socialmente responsabili.
C'è in Italia un politico che abbia il coraggio di portare avanti questa strategia e di comunicarla alle masse?
Abbiamo un Hugo Chavez in casa nostra?