IL TURCO ALLA PREDICA (DELLA SINISTRA)
di Norberto Fragiacomo
Su invito di alcuni compagni, sono andato a leggermi, domenica scorsa, un’analisi dedicata da Marco Ferrando (leader storico della sinistra trotzkista e del Partito Comunista dei Lavoratori) al c.d. movimento dei forconi, che in questi giorni tiene in ostaggio la più vasta regione italiana.
Una doverosa premessa: stimo Ferrando per la sua coerenza e dirittura morale; mi è capitato, non di rado, di dargli ragione su singoli punti. Nel caso di specie, la ricostruzione “ambientale” era convincente, e le conclusioni, nel loro complesso, abbastanza condivisibili. Sin dalle prime righe ho tuttavia avvertito che c’era nel testo qualcosa che non andava, qualcosa di “sbagliato”: non è stato arduo realizzare che si trattava del lessico. Badate: non sto accusando il segretario del PCL di scrivere “male” o di usare termini impropri; dico semplicemente che il linguaggio del documento mal si adatta al tempo presente. Un esempio – e un dato – chiariranno il concetto:
“Forza Nuova sta agendo per fare del movimento dei Forconi la leva di una rivolta popolare reazionaria, in Sicilia, nel Sud, in Italia. Il PCL, nei limiti delle sue forze, lavora per la prospettiva esattamente opposta: entrare nel varco aperto dalla rivolta dei forconi in funzione della rivolta sociale contro la dittatura degli industriali e delle banche; della sua estensione e propagazione a partire dal meridione e dalle isole; dell'egemonia di classe e anticapitalista sulla rivolta popolare; della prospettiva generale del governo dei lavoratori.”
Nello scritto, le parole “borghesia” (o “borghese”) e “proletariato” (o “proletario”) ricorrono, rispettivamente, 15 e 5 volte: sulla carta (anzi, sullo… schermo) la contrapposizione è netta; nel mondo reale, invece, le tinte si fondono in un grigiore indistinto. L’operaio che - finché ha un posto di lavoro – prende 1.200 euro al mese è un proletario, siamo d’accordo; ma come definire l’impiegato o il piccolo funzionario che guadagnano, se va bene, 200 o 300 euro in più? Borghesi piccoli piccoli, al pari dell’edicolante e del tabaccaio, o veri e propri proletari? Forse, oggi come oggi, la domanda è meno sensata di quanto apparisse cento o centocinquanta anni fa. Come è abbastanza noto, il proletario è chi possiede, oltre alla propria forza lavoro da vendere al mercato, soltanto una riserva di braccia – cioè la “prole”; nell’Inghilterra di metà ‘800 descritta da Carlo Marx questo tipo umano abbondava, ed era facilmente distinguibile dagli altri (proprietari, capitalisti, funzionari e ceti intellettuali). Pur formalmente libero, il proletario era di fatto uno schiavo, che viveva ai margini della società in condizioni subumane. L’operaio odierno è spesso proprietario dell’appartamento in cui abita, ha l’automobile e diritti (sempre meno) garantiti: la sua situazione è dunque – almeno in apparenza – diversissima da quella del “collega” britannico di un secolo e mezzo fa, e presenta spiccate analogie con quella dell’insegnante o del funzionario laureato, che pure apparterrebbero alla classe “borghese”. Ironia della sorte, il maestro, più colto, ma non raramente più povero del lavoratore manuale, sostiene in genere i partiti “di sinistra”, mentre il proletario doc presta sovente orecchio alle sirene del populismo di destra. Il punto è proprio questo: oltre a rifiutare istintivamente la qualifica di “proletario” (che per lui è sinonimo di morto di fame), l’operaio medio incontra enormi difficoltà ad intendere i ragionamenti del leader/intellettuale socialcomunista, che parla “difficile”, gli addita un modello poco seducente e non si tiene al passo con i tempi. Questo ci riporta all’articolo di Marco Ferrando (ma la patologia, sia chiaro, è diffusissima, e il sottoscritto non ne è affatto immune!) che, datato gennaio 2012, potrebbe benissimo risalire a cent’anni fa: le formule e le modalità espressive non sono cambiate.
“Forza Nuova sta agendo per fare del movimento dei Forconi la leva di una rivolta popolare reazionaria, in Sicilia, nel Sud, in Italia. Il PCL, nei limiti delle sue forze, lavora per la prospettiva esattamente opposta: entrare nel varco aperto dalla rivolta dei forconi in funzione della rivolta sociale contro la dittatura degli industriali e delle banche; della sua estensione e propagazione a partire dal meridione e dalle isole; dell'egemonia di classe e anticapitalista sulla rivolta popolare; della prospettiva generale del governo dei lavoratori.”
Nello scritto, le parole “borghesia” (o “borghese”) e “proletariato” (o “proletario”) ricorrono, rispettivamente, 15 e 5 volte: sulla carta (anzi, sullo… schermo) la contrapposizione è netta; nel mondo reale, invece, le tinte si fondono in un grigiore indistinto. L’operaio che - finché ha un posto di lavoro – prende 1.200 euro al mese è un proletario, siamo d’accordo; ma come definire l’impiegato o il piccolo funzionario che guadagnano, se va bene, 200 o 300 euro in più? Borghesi piccoli piccoli, al pari dell’edicolante e del tabaccaio, o veri e propri proletari? Forse, oggi come oggi, la domanda è meno sensata di quanto apparisse cento o centocinquanta anni fa. Come è abbastanza noto, il proletario è chi possiede, oltre alla propria forza lavoro da vendere al mercato, soltanto una riserva di braccia – cioè la “prole”; nell’Inghilterra di metà ‘800 descritta da Carlo Marx questo tipo umano abbondava, ed era facilmente distinguibile dagli altri (proprietari, capitalisti, funzionari e ceti intellettuali). Pur formalmente libero, il proletario era di fatto uno schiavo, che viveva ai margini della società in condizioni subumane. L’operaio odierno è spesso proprietario dell’appartamento in cui abita, ha l’automobile e diritti (sempre meno) garantiti: la sua situazione è dunque – almeno in apparenza – diversissima da quella del “collega” britannico di un secolo e mezzo fa, e presenta spiccate analogie con quella dell’insegnante o del funzionario laureato, che pure apparterrebbero alla classe “borghese”. Ironia della sorte, il maestro, più colto, ma non raramente più povero del lavoratore manuale, sostiene in genere i partiti “di sinistra”, mentre il proletario doc presta sovente orecchio alle sirene del populismo di destra. Il punto è proprio questo: oltre a rifiutare istintivamente la qualifica di “proletario” (che per lui è sinonimo di morto di fame), l’operaio medio incontra enormi difficoltà ad intendere i ragionamenti del leader/intellettuale socialcomunista, che parla “difficile”, gli addita un modello poco seducente e non si tiene al passo con i tempi. Questo ci riporta all’articolo di Marco Ferrando (ma la patologia, sia chiaro, è diffusissima, e il sottoscritto non ne è affatto immune!) che, datato gennaio 2012, potrebbe benissimo risalire a cent’anni fa: le formule e le modalità espressive non sono cambiate.
In un universo plasmato da pubblicità e marketing la confezione conta più del contenuto: ecco spiegato il relativo successo di movimenti come Forza Nuova, che suscita – in tanti attivisti di sinistra – una frustrazione incredula e rabbiosa. Ben prima che i suoi striscioni facessero capolino nelle manifestazioni siciliane, FN è assurta a bestia nerissima dei movimenti che si battono contro la dittatura della finanza in Europa: al timore che i due messaggi (il nostro e il loro) vengano confusi si somma lo sconcerto per la visibilità acquisita di recente da organizzazioni che non fanno mistero di richiamarsi al fascismo. Reagire scagliando anatemi è abbastanza puerile, e non porta da nessuna parte: meglio sforzarsi di comprendere come mai, in certe occasioni, la voce dei neri sovrasti la nostra. Passeggiando per le strade di Trieste, mi sono imbattuto in alcuni manifesti di Forza Nuova, che ho anche fotografato. Al di sotto di due brevi slogan (contro le banche e per una non meglio precisata "moneta di popolo"), vediamo una mano che, afferrato lo stivale tricolore, lo intinge nella m....; alla scena assistono alcune mosche (appunto!) con la faccia di Monti, Bersani, Berlusconi ed altri. "Tipica violenza fascista!", ha commentato una compagna. Può darsi, ma l’efficacia della comunicazione è indiscutibile: ci vuole poco a capire che la mano "assassina" è quella delle banche (straniere), che senza un deciso cambio di rotta il nostro Paese finirà... in rovina, e che il politicume nostrano tiene il sacco ai grassatori. Vero, falso? Certo siamo di fronte a una semplificazione, che però raggiunge il suo scopo. Inoltre, l'immagine attira lo sguardo, provoca un'amara risata e si imprime nella memoria: chiamiamola pure rozzezza, ma è una rozzezza assai "raffinata", che coglie - e sfrutta - lo spirito dei tempi, immerso nella volgarità e nel turpiloquio (salire su un autobus per credere!).
Con questo, non voglio suggerire di imitare pedissequamente il modello: nella gara di rutti con le destre e il leghismo, per fortuna, la Sinistra perderà sempre. La ragione è evidente: i populisti vanno in cerca di capri espiatori e scorciatoie, noi di soluzioni. Le apparenti analogie derivano, nel caso della Lega Nord, da opportunismo politico; in quello dei movimenti di estrema destra (in ogni caso, più coerenti e meno cialtroni di Bossi, Stracquadanio e compagnia orrenda), dal fatto che il fascismo è figliastro del Socialismo, e ne eredita talune concezioni, che però, all'ombra del drappo nero, si involgariscono. Il nostro compito è, dunque, già in partenza estremamente arduo: non rendiamolo impossibile trasmettendo in cifra.
Adeguarsi al periodo in cui viviamo non equivale ad arrendersi ad esso. Questa volta traggo il mio esempio dall'esperienza personale: appassionato di storia, ho avuto modo di assistere, ultimamente, ad una serie di lezioni/conferenze davvero affascinanti. Più che soffermarsi sui rapporti economici tra le classi, le cause prime e ultime della guerricciola ics ecc., il docente ci raccontava il passato alla maniera antica, descrivendo uomini, battaglie e fatti più o meno memorabili. Desideroso di sapere qualcosa di più su una battaglia navale tra turchi e veneziani cui aveva fatto cenno, ho ripescato, nella mia biblioteca, un volume della Storia popolare d'Italia che amavo consultare da bambino. L'opera ha una particolarità: è stata composta da tale Oscar Pio nel lontano 1870, e difatti termina con la presa di Roma. Di conseguenza, scorre come un romanzo di Ken Follett, e risulta scritta in un italiano piuttosto "esotico". Naturalmente vi ho trovato una vivida descrizione dello scontro avvenuto nel 1717 nel mare Egeo (cui i più scientifici testi successivi non dedicano manco mezza parola), di cui reputo utile riportare qualche frase:
“I Veneziani, fatti più arditi per la prosperità della fortuna, mandarono sotto guida del capitano Flangini ventisette vascelli di fila verso i Dardanelli. (…) al mattino seguente vedendosi alcuni legni, che furono creduti la vanguardia del naviglio turco, il valoroso uomo reggendo con lo spirito il corpo languente (…) Ma nello scuotimento del moto perse la vita.”
Avrete intuito dove voglia arrivare: se il nostro professore avesse adoperato il linguaggio del libro, ci saremmo sentiti presi in giro, e qualcuno avrebbe pure abbandonato la sala; narrandoci i fatti di ieri secondo l'impostazione di ieri, ma impiegando - non senza una dose di ironia - la lingua di oggi, è riuscito a catturare, e poi a tener desta, l'attenzione dei presenti.
“I Veneziani, fatti più arditi per la prosperità della fortuna, mandarono sotto guida del capitano Flangini ventisette vascelli di fila verso i Dardanelli. (…) al mattino seguente vedendosi alcuni legni, che furono creduti la vanguardia del naviglio turco, il valoroso uomo reggendo con lo spirito il corpo languente (…) Ma nello scuotimento del moto perse la vita.”
Avrete intuito dove voglia arrivare: se il nostro professore avesse adoperato il linguaggio del libro, ci saremmo sentiti presi in giro, e qualcuno avrebbe pure abbandonato la sala; narrandoci i fatti di ieri secondo l'impostazione di ieri, ma impiegando - non senza una dose di ironia - la lingua di oggi, è riuscito a catturare, e poi a tener desta, l'attenzione dei presenti.
Qualcuno ribatterà che ciò che vale per la Storia - che, in fondo, è una narrazione - non vale per il Marxismo: quest'ultimo è, per definizione, una dottrina scientifica, e le dottrine scientifiche vanno esposte nella maniera e con la terminologia appropriate. Passano i secoli, ma la "massa" resta massa, e il "proletario" proletario.
Questo non è del tutto vero - anzi, per certi aspetti, non lo è affatto. Nell'opera "Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari" (1612), Galileo Galilei, il padre della moderna fisica sperimentale, limita l’oggetto dell'indagine scientifica alle proprietà osservabili empiricamente (cioè suscettibili di misurazione matematica) dei corpi. L'impostazione galileiana è oggi universalmente accettata... ma nessuno scienziato contemporaneo si sognerebbe di chiamare queste proprietà "affezioni", come invece fa Galileo! Al pari dei vestiti, le parole risentono delle mode, vanno e vengono - mentre il concetto resta. Piuttosto che alle scienze (naturali o sociali che siano), le "formule magiche" sono indispensabili alle dottrine esoteriche, tra le quali una posizione di rilievo spetta alle religioni. Cionondimeno, succede (è successo in anni vicini ai nostri) che le raffiche del rinnovamento scuotano anche le cattedrali: mezzo secolo fa, il Concilio Vaticano II rivoluzionò il linguaggio e - in parte - gli atteggiamenti della Chiesa cattolica nei confronti del mondo, pur senza toccare i fondamenti dottrinari della fede. Non è questa la sede per dare un giudizio sugli esiti del concilio; ma, senza dubbio, il passaggio dal latino alle lingue nazionali e la discesa del sacerdote dal pulpito modificarono il rapporto tra il clero ed i fedeli, consentendo - al prezzo, secondo i critici, di una svalutazione del sacro – una proficua osmosi tra istituzione e corpo sociale, e l'ingresso della chiesa nella modernità. Se il Papa può rinunciare ad un Pater noster, non si vede per quale ragione i marxisti non dovrebbero aggiornare il loro vocabolario: il pensionamento dell'invettiva "filisteo" è perfettamente compatibile con lo studio e la diffusione della teoria del plusvalore.
Tralasciando il fatto che a qualche... lefevriano del Marxismo questa proposta non piacerà (d'altra parte, ribatto io, a che serve avere ragione se le famose masse non ci stanno a sentire?), non va dimenticato che, ad avviso di certuni, l'attuale difficoltà a far breccia della "predicazione" marxista deriverebbe dai marchiani errori di analisi commessi, a metà Ottocento, dal pensatore di Treviri, dalle sue previsioni errate ecc. ecc.
Non è casuale che - in un'era in cui persino nelle roccaforti del capitalismo statunitense si finanziano seminari sul pensiero marxiano (testimonianza di Eric Hobsbawm) e molti economisti ortodossi ammettono tra i denti che sulla dinamica delle crisi il vecchio Karl ha ancora parecchio da insegnarci - gli attacchi più violenti vengano dai "rinnegati", cioè da quanti, per compiacere i nuovi padroni, si offrono di fare il lavoro sporco in vece loro. Di solito, la passione (lautamente compensata) è inversamente proporzionale ai contenuti: prima si confeziona la stroncatura, poi si cuciono insieme quattro-cinque frasi avulse dal contesto per "giustificarla". Non mancano neppure eccentrici personaggi che, "scontenti" del Marx tramandatoci dalla Storia, se ne creano uno di comodo, basandosi - a loro dire - su documenti straordinari rinchiusi in qualche museo fuori mano. A tutti costoro non resta che ribattere: onus probandi incumbit ei qui dicit (trad. dal latinorum: chi afferma una cosa ha l'onere di provarla). E' troppo comodo, e pure scorretto, strepitare: Marx ha sbagliato questo, ha sbagliato quello, e poi pretendere che siano a difensori a dimostrare che, al contrario, il nostro aveva ragione.
Non è casuale che - in un'era in cui persino nelle roccaforti del capitalismo statunitense si finanziano seminari sul pensiero marxiano (testimonianza di Eric Hobsbawm) e molti economisti ortodossi ammettono tra i denti che sulla dinamica delle crisi il vecchio Karl ha ancora parecchio da insegnarci - gli attacchi più violenti vengano dai "rinnegati", cioè da quanti, per compiacere i nuovi padroni, si offrono di fare il lavoro sporco in vece loro. Di solito, la passione (lautamente compensata) è inversamente proporzionale ai contenuti: prima si confeziona la stroncatura, poi si cuciono insieme quattro-cinque frasi avulse dal contesto per "giustificarla". Non mancano neppure eccentrici personaggi che, "scontenti" del Marx tramandatoci dalla Storia, se ne creano uno di comodo, basandosi - a loro dire - su documenti straordinari rinchiusi in qualche museo fuori mano. A tutti costoro non resta che ribattere: onus probandi incumbit ei qui dicit (trad. dal latinorum: chi afferma una cosa ha l'onere di provarla). E' troppo comodo, e pure scorretto, strepitare: Marx ha sbagliato questo, ha sbagliato quello, e poi pretendere che siano a difensori a dimostrare che, al contrario, il nostro aveva ragione.
Provino dunque i critici che su questioni centrali come la progressiva concentrazione del Capitale o l'inevitabilità delle crisi il filosofo di Treviri ha avuto torto: temiamo che non sarà agevole, specie dopo che la caduta dell'URSS e la conseguente rottamazione del welfare occidentale hanno spazzato via le illusioni bernsteiniane sull'ottenibilità dell'uguaglianza per via democratico-parlamentare.
Carlo Marx non ci ha consegnato le tavole della legge, bensì uno strumento d'indagine duttile ed eccezionalmente efficace - un metodo che è fonte di speranza, ma non va retrocesso a dogma. Per quanto ognuno di noi sia sentimentalmente legato ai simboli, alle bandiere e finanche ai sostantivi, il Marxismo - per ridiventare alternativa pratica, non teorica al sistema - deve imparare ad esprimersi in modo comprensibile agli uomini e alle donne del XXI secolo.
Prendiamo ispirazione da Vladimir Lenin, che prima di essere il più grande rivoluzionario del '900, fu traduttore, interprete dell'idea e precettore (in senso letterale) del suo popolo.
E' un dato di fatto che Ferrando ecceda spesso e volentieri dal punto di vista linguistico, ma l'articolo non è affatto condivisibile, e rivela il solito formalismo tipico dei socialisti: il problema non è di forma ma di sostanza. Se qualcuno sobbalza sentendo il termine 'proletario' è appunto perché non ha una coscienza di classe che lo faccia sentire proletario. Che le bande fasciste abbiano maggiore efficacia propagandistica rispetto ai partiti di sinistra non è una novità; la stessa cosa faceva notare Bloch su un dibattito pubblico nella Germania degli anni Trenta fra un rappresentante nazista e uno comunista: quest'ultimo usava concetti economici e nessuno se lo filava, mentre l'altro attaccava con le stronzate del mito e altra roba sentimentale ottenendo ovazioni. Soluzione di Bloch (e dell'autore dell'articolo): scopiazzare il linguaggio sentimentale dei fascisti. Al contrario, soluzione dei marxisti: innalzare il livello di coscienza dei proletari per utilizzare tutta la loro forza contro il capitale. Il punto è che NON CI SONO SCORCIATOIE: non bisogna ottenere il favore della plebaglia, ma organizzare il proletariato. Le attuali difficoltà derivano dal fatto che siamo in una crisi di egemonia, ma la situazione non è affatto rivoluzionaria, perché nonostante le apparenze i vasti strati popolari hanno ancora speranza nei governi borghesi, se non in questo nel prossimo, e così via... La fine della speranza sarà il segnale del cambiamento: prima di allora qualunque banda fascista avrà gioco facile, ma il linguaggio usato c'entra ben poco.
RispondiEliminaIl problema è di sostanza e, naturalmente, PURE di forma.
RispondiEliminaPer innalzare il livello di coscienza dei lavoratori (o proletari che dir si voglia – purché si tenga presente che anche l’impiegato, l’insegnante ecc. sono proletari) è necessario rivolgersi a loro con un linguaggio chiaro ed intelligibile, che li invogli alla riflessione… altrimenti, continueranno a non avercela, quella famosa coscienza, e a dar credito a chi, come i fascisti, sa adoperare la propaganda “sentimentale”. Credo che per l’operaio (ed il cittadino medio) sia più immediatamente gratificante, oggi, essere definito “italiano” (la nazionale di calcio, i grandi artisti ecc.) che “proletario”; questo stato di cose, ampiamente dimostrato dall’esperienza, può essere modificato solo attraverso il ragionamento, la spiegazione e – perché no? – la parabola: Socrate e Gesù Cristo usavano questo metodo, e mi sembra che qualche risultato l’abbiano ottenuto. Certo, si può continuare sulla vecchia strada, e consolarsi degli insuccessi dicendo: loro non hanno capito, è colpa loro – dimenticando che il bravo insegnante non è quello che parla forbito, ma quello che forma, con pazienza, allievi preparati.
Ad ogni modo, se prima di scendere nel merito si sente l'esigenza di tacciare l’interlocutore di socialismo (come fosse un’infamia), si mostra di attribuire maggior peso alla tanto disprezzata forma che alla sostanza…
Da ultimo, non posso negare che essere paragonato ad Ernst Bloch fa sempre piacere.
Norberto
Essere socialista non è un'infamia e io non ho "tacciato" nessuno: conoscevo il sig. Fragiacomo per averne letto già alcuni articoli, interessanti ed equilibrati, e, mi si corregga se sbaglio, per essere un esponente della Lega dei Socialisti. Quello che vorrei sottolineare a questo punto (cosa che non ho fatto nel mio intervento precedente) è che il suo articolo è anche contraddittorio: da una parte si rampogna chi usa ancora i termini 'proletario' e 'borghesia', ma dall'altra si dice che non bisogna seguire i fascisti nelle loro gare di rutti. Ne deduco che si debba optare per il (mitico...) "giusto mezzo": andare verso il popolo (mediamente fascistoide) tenendo in mano le violette e dicendo 'morti di fame' anziché 'proletari' oppure 'benestanti' anziché 'borghesi'. Sono sicuro che in questo modo diventeranno tutti dei bravi socialisti... In alternativa, il sig. Fragiacomo potrebbe spiegarci praticamente con quali vocaboli sostituirebbe quelli incriminati? La chiarezza è sempre un dovere, la ruffianeria mai: se "loro non hanno capito" è in molti casi perché NON VOGLIONO capire, e in questo caso nessun socialismo è possibile, neanche il più blando. In passato l'ignoranza era ampiamente scusabile, ma al giorno d'oggi è ignorante chi vuol essere ignorante. E con gli ignoranti non si fa molta strada, tutt'al più si possono organizzare bande di ascari al servizio dei padroni.
RispondiEliminaP.S.: l'impiegato, l'insegnante ecc. SONO INEQUIVOCABILMENTE proletari in quanto salariati (venditori di forza-lavoro), e non perché l'ho deciso io o il mio interlocutore, ma semplicemente perché è l'ABC del marxismo.
Benissimo, sono d’accordo sull’ultimo punto (né potrebbe essere altrimenti… anche se nella galassia della Sinistra c.d. “estrema” – per me, l’unica rimasta - qualcuno potrebbe pensarla diversamente).
RispondiEliminaMi sembra che le posizioni non siano così distanti, e allora cerco di spiegarmi meglio. Non ritengo di contraddirmi quando affermo che si debba “attualizzare” il linguaggio e, nello stesso tempo, non cadere nella più becera e semplicistica retorica antisistema. Potrei cavarmela dicendo che c’è di sicuro una “via di mezzo” non “fascistoide” tra parlare come un manuale stampato (di marxismo) e dire che la colpa di tutto è dei banchieri ebrei, ma accetto il confronto, sempre utile, e traggo un esempio da questo stesso sito: la mirabile analisi del compagno Achilli sulle liberalizzazioni montiane. Essa è preceduta da una necessaria – e sottolineo: necessaria – spiegazione riguardante l’ABC dell’economia politica. E’ una spiegazione ottima, ma molto “tecnica”: chi ha delle basi di economia l’apprezzerà, chi non ne sa nulla probabilmente, leggendola, avvertirà una sensazione di stordimento. Dunque? Dunque, c’è un momento per la “analisi” (che richiede una dose di tecnicismo, possibilmente non eccessiva) ed uno per la “divulgazione”: non si può pretendere da una persona “semplice”, ma desiderosa di capire, una preparazione universitaria e/o specialistica. Per chiarire: in un seminario tra storici dell’arte, è normale che si usi un lessico specifico (non oracolare, attenzione!), perché tutti sanno cos’è un tiburio, una lesena e un’ancona; al contrario, una guida che porti a spasso dei turisti entusiasti non deve dar nulla per scontato, e farà bene a spiegare, ad es., che l’arco rampante è quella struttura laterale esterna alla chiesa gotica che… la tiene in piedi!
Ecco perché, in un momento in cui il termine “proletario” è diventato equivoco per molti, io parlerei piuttosto di “lavoratori dipendenti” attivi e non, comprendendo nella definizione i pensionati e chi il lavoro l’ha perso.
Il compagno Spedicato ha pienamente ragione quando afferma che molti non vogliono capire, e che, magari contro i loro interessi, non accetterebbero manco una socialdemocrazia all’acqua di rose (che è cosa ben diversa da quella auspicata dal sottoscritto, peraltro). Di costoro possiamo fregarcene (per restare al paragone “artistico”, sono quelli che alla visita turistica preferiscono quella al bordello), ma non vorrei che – per giusto sdegno verso di loro – lasciassimo a terra anche chi, pur “ignorante”, dimostra o potrebbe dimostrare interesse.
“E’ ignorante chi vuol essere ignorante”, viene detto… può darsi, ma il mondo in cui viviamo rafforza quotidianamente questa volontà – e non è solo questione di tv spazzatura: la società moderna si basa sulla parcellizzazione dei saperi.
Potrei andare avanti a lungo, ma non desidero tediare nessuno… resta il fatto che, dopo quel dibattito di cui si occupò Bloch, i nazisti stravinsero – dopotutto, la Storia dimostra che il buon Ernst non aveva tutti i torti.
D'accordo, compagno Fragiacomo, capisco perfettamente i tuoi scrupoli e il tuo sacrosanto desiderio, che è anche il mio, di fare tutti gli sforzi propagandistici possibili per non "lasciare indietro" nessuno e conquistare alla nostra causa tutti quelli che è umanamente possibile conquistare. Quello che ho detto, e che ribadisco, è che il problema che ci sta davanti è ben più grave di una questione di propaganda, e riguarda in primo luogo la mutazione antropologica avvenuta con l'avvento della società dei consumi, e in secondo luogo la fine ingloriosa dell'esperienza del "comunismo" novecentesco (alla quale, piaccia o non piaccia, anche i socialisti si erano in qualche modo abbeverati). Tanto per capirci, io mi considero una specie di sopravvissuto a un'ecatombe nucleare che ha quasi del tutto eliminato ogni forma di vita sul pianeta Terra: sono un apocalittico? Io penso di essere un realista coi piedi per terra e la testa sul collo. Soluzioni magiche per porre rimedio a questa situazione non ne ho, ma sono abbastanza sicuro che l'attuale livello della propaganda comunista non sia peggiore, per esempio, dell'incomprensibile eloquio politichese dei notabili democristiani del bel tempo andato, che pure, come ricorderai, ottenevano costantemente un consenso elettorale superiore al 30%.
RispondiEliminaPoi vorrei puntualizzare un paio di cose.
Lenin diceva: quando non si può dare battaglia bisogna chiarire pazientemente. Io sono assolutamente d'accordo, ma con ciò Lenin intendeva dire che bisogna estirpare accuratamente tutte le illusioni che periodicamente si diffondono nel proletariato nell'ottica della costruzione del partito rivoluzionario, e non che bisogna trasformarsi in preti tenendo sermoni e adoperando parabole. Giacché ci siamo, potremmo anche provare a parlare con gli uccelli, ma penso proprio che, con i tempi che corrono, verremmo (allora sì) immediatamente fraintesi...
L'altra cosa che voglio puntualizzare riguarda Bloch. L'accostamento che ho fatto ovviamente non era, non poteva e non voleva essere offensivo, ma puramente esplicativo. Quello che però Bloch, che aveva buone intenzioni (ma, come dice il proverbio, la via dell'inferno ecc. ecc.), non ha mai capito è che in politica, se c'è un sentimento realmente utilizzabile, questo è l'odio, perché è di gran lunga il sentimento più resistente di tutti (e, per la cronaca, quest'ultima non è un'opinione mia o di uno psicopatico evaso da Alcatraz, bensì quella di un tal Leonardo da Vinci), e quindi è solo su di esso che si possono costruire identità più o meno stabili. E lo sanno benissimo, e l'hanno sempre saputo, non soltanto i fascisti, ma tutti i politici "sentimentali", espressione che per me è appunto sinonimo di politici "dell'odio". Forse mi obietterai citando, per restare all'attualità, il caso di Vendola, che ha invece un linguaggio decisamente mellifluo e direi proprio pretesco; ma se andiamo a vedere, nella sua fase ascendente era prevalente un linguaggio polemico e pungente (sebbene miscelato con l'altro), mentre la sua stella si è appannata da quando è diventato ecumenico al 100% e adesso non polemizza più neanche col centrodestra pugliese, che dovrebbe essere il suo avversario diretto. Anche lui non ha capito che, se vuole diventare il nuovo Berlusconi, allora deve almeno usare gli stessi toni del suo modello (anche se, me ne rendo conto, per un essere senziente è di gran lunga più difficile).
Una prima considerazione: che ci si confronti, anche con veemenza, non è affatto negativo… significa che la questione meritava di essere posta. Il problema dunque esiste, anche se le soluzioni possono essere diverse (o addirittura contrapposte).
RispondiEliminaSu Vendola: non è un caso che non l’abbia finora citato. Non nego che mi era passato per la mente di farlo: il buon Nichi ha davvero “svecchiato” il linguaggio della Sinistra, ed è un comunicatore straordinario (più dal vivo che in tv, posso testimoniare). Tuttavia, il mio sospetto è che Vendola abbia cambiato non solo linguaggio, ma pure orizzonte: il suo futuro è sfuggente, nebbioso, insondabile… vaghe le prospettive di un superamento di "ogni precariato", talvolta par di intuire che l’unico obiettivo siano le elezioni, o le primarie. Insomma, il nostro si sarebbe demarxianizzato, e non solo nel lessico (questo mio giudizio spiega perché, inizialmente, abbia “tifato” per Vendola, mentre adesso, dopo le giravolte degli ultimi mesi, guardi a lui – un giorno fa il rivoluzionario, l’indomani il politico “responsabile” – con scetticismo non dissimulato).
Quanto alla DC, secondo me c’è una differenza storica, tra le sue vicende e quella presente: la DC non attraeva voti per quello che i suoi leader dicevano, ma per la duplice funzione svolta di argine contro la minaccia comunista e di dispensatrice di favori. Le convergenze parallele erano il contorno, non la sostanza - si fossero espressi in thai,o in armeno, la risposta sarebbe stata analoga. La Sinistra, oggi, deve convincere con le parole e coi fatti – ma, trovandosi tagliata fuori dalla “stanza dei bottoni” e relegata in una sorta di antiquariato, ha un compito davvero arduo.
Per il resto, non nego affatto che i socialisti si siano abbeverati alla stessa fonte dei compagni comunisti… e, nel mio piccolo, auspico da tempo (rimando alle mie conclusioni al convegno della Lega dei Socialisti di Livorno nel febbraio 2011) una riunificazione, o meglio un ricongiungimento: la battaglia è la stessa. E, ad essere sincero, penso che il realismo sia oggi sinonimo, purtroppo, di pessimismo estremo: il crollo dell’URSS (nostro garante, suo malgrado) ed il lavaggio del cervello consumistico hanno immensamente indebolito la forza contrattuale (e spirituale) delle classi lavoratrici… che oggi sono frammentate, divise, in gran parte inconsapevoli. E’ durissima, quindi… anche perché, come detto, il nostro obiettivo è più ambizioso: non si tratta di assecondare il peggio della natura umana (la tendenza all’odio), ma di elevarla, di mutarla in meglio… di educare la bestia, non di ingozzarla.
A proposito di pessimismo e propaganda vorrei segnalare un articolo che ho appena letto (all'indirizzo http://www.sinistrainrete.info/societa/1862-malagna-e-aerizi-pratiche-di-ordinaria-resistenza.html) e che sottoscrivo parola per parola. E con questo chiudo, perché mi sembra che le diverse posizioni siano emerse abbastanza chiaramente.
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