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lunedì 12 marzo 2012

ATTENTI AL LUPO O ALLA PECORELLA?



Di questi tempi la violenza è protagonista, specialmente in Valsusa, e di essa si parla molto sui giornali e in tivù, ma quasi sempre (deliberatamente) a sproposito. In verità, mentre pietre e manganelli ci vedono benissimo, i discorsi di politici, giornalisti e commentatori sembrano affetti da un curioso strabismo: ad una delle parti in campo (i NO TAV) non viene condonato nulla; l’altra, invece, gode di una curiosa indulgenza, che, in certe evenienze, si muta in sostegno aperto e incondizionato.
La vicenda del carabiniere “impassibile” è esemplare: la beatificazione di un giovanotto in divisa, premiato per non aver risposto a “insulti” molto meno feroci di quelli che ci si scambia a un semaforo (il peggiore era “pecorella”, figuriamoci), dimostra che, quando sono in ballo cospicui interessi, i giornalpoliticanti smarriscono anche il senso del ridicolo. La telenovela stile Delitto e Castigo è stata comunque girata al meglio: dopo l’intervista al milite di famiglia “proletaria” e l’inevitabile citazione di Pasolini, i falconi mediatici hanno adocchiato anche il reprobo – un giovane con la barba fulva, dallo sguardo niente affatto minaccioso - e lo hanno persuaso a confessarsi e chiedere perdono. L’Italia è, dopotutto, un Paese poco cristiano, ma molto cattolico. Davvero un bel colpo, anche se – come già detto – il montanaro valsusino non ha proprio l’aria del picchiatore (e, difatti, nel famigerato video si limita a concionare briosamente).
Questa è fuffa, in ogni caso – il cartoon di Will Coyote che, nei cinema anni ’70, precedeva il film. La pellicola è tutta incentrata sulla violenza; ma, come già anticipato, solo su quella dei resistenti NO TAV. A parte sparute eccezioni (Vattimo, ad esempio), nessun maitre à penser “ufficiale” ha avuto da ridire sull’operato delle polizie; quanto ai politici, è come andar di notte: per un Paolo Ferrero ci sono, purtroppo, decine di Violante che, saltata la barricata ideologica, assolvono e condannano a prescindere. Destrorsi? Ma quando mai: questi sono “progressisti” alla Veltroni che, perso per strada l’anelito alla giustizia sociale, finiscono, da vecchi, per identificare il progresso con un treno (che non somiglia per niente alla locomotiva gucciniana).
Gli uomini di Manganelli, dunque, sono “buoni” e rispettosi della legge a prescindere, anche quando sfondano la porta di un ristorante, infieriscono sui caduti, inseguono i dimostranti sui tralicci; persino quando (Genova 2001) picchiano una ragazza in quattro, oppure irrompono in una scuola per “fare giustizia” sommaria. Chi si oppone, al contrario, è sempre colpevole: è sufficiente alzare un dito od una mano – magari a protezione del volto – per passare, a detta dei Vishinsky piddini, dalla parte del torto.
Propaganda efficace - né potrebbe essere altrimenti, visto l’arsenale mediatico a disposizione di chi comanda: pure nelle discussioni tra compagni, ormai, si dà per scontato l’assioma secondo cui l’unica resistenza accettabile è quella pacifica, e la violenza non è mai giustificabile.
Si tratta di affermazioni impegnative, da non farsi alla leggera, perché il concetto di violenza è tutt’altro che monolitico – e infatti il grande giurista Antolisei riempie pagine su pagine di dubbi e confutazioni prima di provare a definirlo. Più pragmaticamente, il Codice Rocco si accontenta di affiancarlo, senz’ombra di spiegazione, a quello di minaccia, salvo distinguere tra violenza reale (=sulle cose) e personale[1].
Il taglio di una recinzione – atto simbolico per antonomasia – ha quindi, per la legge penale, un contenuto violento: merita perciò unanime condanna? Attenzione: non stiamo parlando del piano legale, ma di quello politico-morale. Se è vero che ogni forma di violenza è censurabile, toccherebbe rispondere di sì… e, a maggior ragione, rinunciare ai cortei, specie se improvvisati, poiché bloccare una strada significa costringere qualcuno (ad es. l’automobilista) a tollerare qualcosa, condizionando la sua libertà.
A questa stregua, dovremmo ammettere soltanto proteste alla Jan Palach o silenziose passeggiate nei boschi, e rampognare personaggi storici rei di aver violato, con le loro azioni, la “morale” inculcataci dai media.
Gesù Cristo era un violento? Sembra una domanda provocatoria, ma non lo è: i Vangeli ci raccontano che, arrivato a Gerusalemme, l’Agnus Dei scaccia furiosamente i mercanti dal tempio, dopo aver rovesciato i loro banchi. Tecnicamente, trattasi di violenza (su cose e persone): condanniamo? E che dire di Spartaco che, per riacquistare la libertà, rivolge le armi contro i suoi padroni romani, e ne ammazza parecchi? Ovvero, passando dalla Storia alla letteratura (contemporanea), dovremmo biasimare il viandante in nero di Altieri[2] che, all’inizio della saga, fa a pezzi un bel po’ di mercenari per salvare una ragazza innocente destinata al rogo? Non so voi, ma io – mentre leggevo – facevo il tifo per la daikatana vendicatrice, senza sentirmi per questo un “sovversivo”; e, con riguardo a Gesù, Spartaco (e pure Müntzer e fra’ Dolcino), ho sempre ritenuto che la loro condotta “violenta” fosse pienamente motivata e, per così dire, adeguata alla situazione da affrontare.
Il punto è che, una volta discesa dall’iperuranio delle astrazioni alla realtà quotidiana, qualunque persona di medie sensibilità e intelligenza avverte che non c’è parentela tra la violenza ripugnante, perché bestiale o gratuita, dello stupratore o del rapinatore di vecchiette e quella sacrosanta di chi protegge sé od altri; per gli stessi motivi, si è portati ad encomiare il poliziotto che adopera le armi per fermare un pericoloso delinquente, e ad accusare il suo collega che, per rabbia o sadismo, bastona una persona già ammanettata o innocua (e se la Santanché la pensa diversamente, è affar suo).
Ciò che è chiaro al senso comune non è misconosciuto dal Codice penale che, pur redatto in epoca fascista, giustifica chi difende “un diritto proprio od altrui” contro un’offesa ingiusta[3] (legittima difesa - ammessa dall’ordinamento, secondo Mantovani) e chi è costretto ad agire “per salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona” (stato di necessità – in questo secondo caso, la condotta è tollerata). Nulla di nuovo sotto il sole europeo: nel Digesto giustinianeo (VI° secolo) sta scritto che “vim vi repellere licet”.
Pertanto, se la violenza è autorizzata – a certe condizioni – dal legislatore, non si vede perché il moralista contemporaneo debba rifiutarla “senza se e senza ma” (come va di moda dire tra i sinistroidi radical chic).
C’è dell’altro: l’articolo 53[4] del codice disciplina specificamente il comportamento del pubblico ufficiale, sancendone la non punibilità allorché “al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio”, faccia uso ovvero ordini “di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’autorità”.
Costrizione, necessità e – aggiungono gli interpreti – “proporzionalità” tra le due condotte: l’uso delle armi non è mai libero, e (perlomeno in via teorica) dagli arbitri della polizia il cittadino può legittimamente difendere se stesso e/o altre vittime; ritorna cioè applicabile l’articolo 52, per la semplice ragione che l’offesa arrecata è “ingiusta”. In sostanza, se ci si imbatte in un agente che sta pestando una persona indifesa è pienamente lecito intervenire a sostegno di quest’ultima – ammesso che si sia in grado di farlo, ovviamente.
Talora, a quanti blaterano di sovversione e terrorismo sarebbe opportuno regalare un buon compendio di diritto penale.
Fin qui tutto chiaro – nei casi citati, tuttavia, cambiavalute, schiavisti romani e dragoni di Altieri avevano la legge dalla loro, cioè esercitavano un diritto, o compivano (sia pure con maligna soddisfazione) il proprio “dovere”. Come giustificare, allora, reazioni o rivolte contro l’ordine costituito?
La questione è apparentemente complessa, specie se non si individua il comune denominatore – che in tutti e tre le situazioni è la ribellione contro l’ingiustizia, verso Dio o verso gli uomini. Noi tutti (o quasi tutti) sentiamo che mercificare il divino, asservire altri uomini ed ammazzare un innocente è sbagliato; ma le masse di mille o millecinquecento anni orsono potevano avere opinioni differenti in materia, addirittura opposte alle nostre. In fondo, la coscienza collettiva è modellata dalle classi dominanti a proprio esclusivo beneficio: il fatto che essa muti nel tempo non è dovuto esclusivamente all’evolversi dei rapporti economico-produttivi, ma anche all’insegnamento e ad all’agire - più o meno violento - di uomini di moralità superiore, capaci di lasciare traccia.
Spartaco e Cristo ebbero “successo” (pur morendo entrambi in croce), perché riuscirono, il primo, ad instillare negli schiavi-cose l’amore per la libertà, e nella società romana il tarlo del dubbio; il secondo, a gettare le basi di un nuovo rapporto tra gli esseri umani, paritetico e fraterno. La loro proposta morale fu infine accolta, e non è un caso che, secoli e secoli più tardi, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1791) riconosca ad ognuno la legittimazione a resistere contro l’oppressione, senza esigere affatto che la resistenza assuma un carattere passivo e non violento.
Un’occupazione – militare od economica, come quella imposta alla Grecia dai finanzieri - giustifica perciò una reazione popolare, sorta di legittima difesa collettiva che sarà tanto più efficace quanto più arriverà a coinvolgere, emotivamente e materialmente, la cittadinanza angariata.
La rivoluzione non è mai un divertimento, ma qualche volta è una dolorosa necessità - e può trionfare, a patto che le esigenze che essa esprime siano reali, vale a dire obiettive, e percepite come tali dalla parte più attiva e consapevole di una popolazione. In ogni caso, il rivoluzionario non può accettare senza batter ciglio le regole volute dal ceto dominante, per la banalissima ragione che al gioco delle tre carte il partecipante non vince mai. La pretesa di riparare il mondo (o di cacciare un invasore) rispettando i dettami di legge è semplicemente una fanfaronata.
A Lenin che suggeriva loro di fucilare i padroni, Lazzari ed altri due socialisti lombardi risposero che non l’avrebbero mai fatto: “siamo brave persone!”, protestarono.
Brave persone di sicuro, ma rivoluzionari da bar sport.
“Senza se” e “senza ma” non si fa la Storia , la si subisce e basta.



Norberto Fragiacomo



[1] Che talvolta è presunta: si pensi agli atti sessuali compiuti su infraquattordicenni.
[2] A. D. ALTIERI, Magdeburg (trilogia), ed. Corbaccio.
[3] Sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa (art. 52 c.p.).
[4] Sulla scriminante in questione è intervenuto, nel ’75, il legislatore repubblicano, al fine di riportarla nell’alveo costituzionale.

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