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giovedì 29 marzo 2012

LE NANÀ DELL’INFORMAZIONE di N. Fragiacomo



di Norberto Fragiacomo

C’era una volta (c’è tuttora) il giornalista berlusconiano, gelosissimo dell’osso lanciatogli dal padrone – e perciò ringhioso e fedele. Addestrato a difendere l’indifendibile, a far segno di no e ad attaccare a testa bassa, si avventava sugli ospiti dei talk show, riducendo il dibattito a gazzarra. Diciamoci la verità: quest’esemplare, perennemente con le bave alla bocca, suscitava dispetto, se non ripugnanza (al pari di certi ministri burbanzosi, ignoranti e bigotti). Oggi, nella felice era Monti, il posto dei bastardi senza gloria è stato preso da gazzettieri di razza; anzi, dalle Nanà dell’informazione. Morte di vecchiaia le migliori penne (tra le quali la più rimpianta e lucida resta Giorgio Bocca), tocca agli Scalfari, ai Mieli e ai de Bortoli dominare il campo. Ognuno ha il suo stile, naturalmente, ma esiste un minimo comune denominatore, rappresentato dal savoir-faire (i tre sono colti borghesi e uomini di mondo) e dalla propaganda a favore del sistema e del governo Monti. In odore di beatificazione, a suo tempo, per essere stato “epurato” da Berlusconi, l’attuale direttore del Corriere è tra i più convinti (contro)riformisti. Il 24 marzo lamenta, in un editoriale dal titolo inequivocabile (Una trincea ideologica) che “I toni apocalittici di molti commenti sono poi inquietanti. Descrivono un Paese irreale (il grassetto è suo). Tradiscono una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe, che non corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro. Dipingono gli imprenditori (che hanno le loro colpe) come un branco di lupi assetati che non aspetta altro se non licenziare migliaia di dipendenti. (…) Sono commenti che paventano il sibilo di una tagliola che cadrebbe, in un sol colpo, su decenni di conquiste dei lavoratori.” Un Paese irreale… e qual è quello reale in cui vive (agiatamente) de Bortoli? Un’Italia ove i datori di lavoro non licenziano, padroni e operai van d’amore e d’accordo e “i diritti sono meglio protetti (sic)”. Sarà, egregio direttore… ma, a meno che le statistiche e i dati non siano diventati comunisti anche loro, l’impressione è che l’unica “visione ideologica” sia oggi la sua (e quella dei suoi colleghi “liberali”). In un comunicato diffuso il primo marzo, l’Istat ci dice che, in gennaio, il numero dei disoccupati è aumentato del 2,8% rispetto a dicembre (64 mila unità), mentre su base annua si registra una crescita del 14,1% (286 mila unità). Il tasso di disoccupazione si attesta al 9,2%, in aumento di 0,2 punti percentuali in termini congiunturali e di un punto rispetto all'anno precedente, ed è il più alto dal 2004. Insomma, volenti o nolenti si licenzia a raffica, malgrado il “totem” e le salvifiche promesse di King George; e che, nelle fabbriche, il clima di intimidazione verso i lavoratori - specie quelli attivi sindacalmente - si sia fatto pesante lo testimoniano innumerevoli vicende, che assai di rado vengono illuminate dai riflettori. La vertenza del terzetto di Pomigliano è soltanto la punta di un gigantesco iceberg di minacce, ingiustizie e ritorsioni - quanto alla lotta di classe, l’azzimato Ferruccio dovrebbe saperlo: è in corso, ma la stanno conducendo i padroni suoi amici, che al novecento dei diritti preferiscono l’ottocento dello schiavismo. Non occorre infine “paventare” un bel nulla, quando il “sibilo della tagliola” è distintamente udibile da chi non sia sordo come una campana (e pure finto cieco). Forse, più che di cecità si tratta banalmente di interesse: da sempre il Corriere è l’organo della borghesia imprenditoriale italiana, della quale, per motivi di censo e frequentazioni, grandi firme e professoroni sentono giustamente di far parte. Comunque i de Bortoli possono pontificare a cuor leggero: chi guadagna stipendi a sei o sette cifre ha ben poco da temere dallo strazio dell’articolo 18 (e dalla stessa crisi). Sotto un certo punto di vista, dunque, il Signor direttore scrive di cose che non lo riguardano minimamente, se non come membro della classe sociale beneficata dalla depressione economica. Per Mieli e Scalfari vale il medesimo discorso, con l’aggravante che i due vantano – e spesso utilizzano strumentalmente – un passato “di sinistra”. Paolo Mieli ne ha percorsa di strada dai tempi di Potere Operaio, ed è arrivato in alto, molto in alto: in televisione, ormai, si esprime col sussiego e la sicumera di un pontefice. A “L’infedele”, il nostro ha minimizzato le critiche di mons. Bregantini al Governo Monti, difeso strenuamente l’esecutivo e riscritto la storia recente, affermando che il PD, rinunciando in autunno ad una vittoria elettorale (secondo lui) pressoché sicura, ha scelto liberamente di appoggiare il “tecnico” Monti, chiamato ad attuare un programma di governo redatto, nella celebre lettera di agosto, dalla coppia Trichet-Draghi. Morale della favola: siano coerenti con se stessi, i democratici, e approvino senza tante sceneggiate la “riforma” dell’articolo 18 – perché pacta sunt servanda. Ora, l’autore di queste righe non si fa particolari illusioni sulla fermezza dei bersaniani; ma, non avendo ancora perso la memoria, rileva che la ricostruzione di Mieli è assolutamente… infedele: a novembre, l’unica alternativa a Mario Monti era il deflagrare dello spread, e la scelta del PD fu tanto libera quanto, per un lavoratore dipendente, quella di pagare l’Irpef – senza contare (e difatti il Paolo nazionale non ce lo conta) che, almeno nei primi tempi, i tecnici sproloquiavano più volentieri di “equità” che di missive straniere, e che la manovra di avvicinamento alla “trincea” dei licenziamenti è stata, da parte dell’ardita Fornero, alquanto tortuosa. Perlomeno, da Gad Lerner, l’ex direttore del Corriere ha dovuto confrontarsi con un interlocutore preparato, obiettivo e per niente conciliante (Carlo Galli di Repubblica, professore pure lui); Eugenio Scalfari, invece, predica la cattiva novella delle cosiddette riforme e della mancanza di alternative a Monti senza contraddittorio, quasi dall’alto dei cieli. Vero portabandiera di un’estrema destra liberista che, per ingannare i sempliciotti, ama indossare soprabiti di sinistra, Scalfari è passato, in pochi mesi, dalla critica agli eccessi capitalistici che hanno generato la crisi all’esaltazione ossessiva di austerity e sacrifici (altrui: lui è vecchissimo e, oltretutto, milionario), fornendoci la prova che il cancan autunnale mirava solo alla destituzione di Berlusconi. Per meritarsi l’accusa di “fascismo” non è sufficiente far sfoggio di autoritarismo: bisogna anche appartenere ad uno schieramento opposto (cioè a un’altra bottega). Monti, quindi, va benissimo al Grande Vecchio, anche se ricatta le parti sociali e il Parlamento con una violenza (verbale) che farebbe invidia al cavaliere, e sforna decreti legge alla velocità di un Mussolini. Vengono in mente le parole di un Presidente americano a proposito del dittatore Somoza: “è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Il paragone con il più celebre personaggio femminile di Zola non è dunque improprio: anche Nanà, a modo suo, aveva classe; anche lei vendeva miraggi agli uomini, e cambiava partner ed atteggiamento a seconda delle convenienze (invero, rispetto a certi soloni del giornalismo, mostrava maggiore pietà verso i derelitti, forse perché non era vincolata da nessuna ideologia). Frequentava un po’ meno i salotti, ma nel diciannovesimo secolo – è noto – la tivù non era ancora stata inventata. In conclusione, la narrazione dei Mieli è infinitamente meno plebea di quella di Libero e del Giornale, ma sempre di fiction si tratta – un’elegante cortina di fumo che cela una realtà spaventevole. Riconosciamo però che, nelle ultime settimane, la nebbia mediatica si è un tantino diradata, e nel muro montiano di Repubblica (ma non del Corriere governativo) si sono aperte le prime crepe, che Scalfari si sforza, ogni domenica, di stuccare. Diamo a Giannini quel che è di Giannini: anche tra i privilegiati non mancano le persone oneste, e questa è una buona novella

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