Si è spenta da qualche mese l’eco
dei festeggiamenti per il 150-mo anniversario dell’unità d’Italia, senza che i
cervelli elettronici che governano il nostro Paese, o che la sua rachitica
classe intellettuale, abbiano avuto il coraggio di promuovere un dibattito
reale sul significato del Risorgimento, specie nel Mezzogiorno.
Nessuna riflessione critica ha
ripreso l’irrisolta questione meridionale, riaffrontandola dalla sua genesi,
coincidente con la conquista piemontese del Regno delle Due Sicilie. Ancora
oggi il brigantaggio in vaste aree del Sud, che fu senz’altro alimentato dalle
conseguenze della unificazione, viene trattato alla stregua di un fenomeno di
devianza sociale legato a ferocia contadina e miseria, viene trascurato anche
nell’insegnamento scolastico, nonostante il fatto che tale fase della nostra
storia sia stata la prima vera guerra civile italiana, costata grosso modo
10.400 morti, 80.000 meridionali arrestati, 47.000 costretti all’esilio o
all’emigrazione (stima fatta dal giornale francese “De Naples à Palerme”, del
1863). Di questa tragedia rimane poco, e vale la pena ricordarla, anche se
motivi di spazio impongono di concentrarsi essenzialmente sulla vicenda lucana,
anche perché la Basilicata fu forse la regione a più alta intensità del
fenomeno.
Gli assetti sociali nel momento dell’esplosione del fenomeno del
brigantaggio in Lucania
La situazione sociale del Regno
delle Due Sicilie al momento dell’annessione piemontese era molto
diversificata. Nelle aree urbane e costiere, infatti, si andavano affacciando i
primi segnali di industrializzazione, e si formava, benché in forma ancora
embrionale, un proletariato industriale moderno. Che però non si confrontava
con una emergente borghesia nazionale, che faticava a svilupparsi: l’accumulazione
originaria di capitale nelle prime grandi fabbriche (ferriere, cantieri navali,
stabilimenti metalmeccanici e di armi, fabbriche di treni e materiale rotabile)
fu infatti direttamente effettuato dallo Stato, ovvero dai Borboni, con il che
si creava una tecnocrazia di direttori di fabbrica e tecnici di produzione,
alle dipendenze dello Stato. Lo sviluppo del settore tessile attorno a Salerno
ed a Bari, e della metallurgia a Bari, era opera di imprenditori svizzeri e
tedeschi immigrati al Meridione, mentre la rilevante industria dello zolfo
siciliano era interamente in mano a grandi compagnie britanniche, che
investivano anche nella cantieristica navale nella zona di Napoli.
La borghesia autoctona era,
tranne alcune eccezioni notevoli (ad esempio la compagnia di costruzioni
ferroviarie Zino e Henry a Napoli, il polo tessile di Catania, in cui si
distinguevano gli stabilimenti Fenizio, o il polo tessile presente nel
casertano) ancora allo stadio del piccolo artigianato, e quindi debole
politicamente, mentre ancora molto diffuso era il lavoro a cottimo e domestico,
specie nella filatura, con livelli di accumulazione di capitale assolutamente
irrisori ed assenza di rapporti conflittuali di classe (in quanto la manodopera
era prevalentemente familiare).
Tra l’altro, l’accumulazione
industriale era anche molto diseguale territorialmente: si concentrava infatti
nel triangolo fra Salerno, Napoli e (in misura minore) Caserta: secondo la
Banca d’Italia, nel 1871 l’indice di industrializzazione della provincia di
Napoli, pari a 1,44, era addirittura più alto di quello della provincia di
Torino (1,41) o di Venezia. Concentrazioni minori di attività manifatturiere si
riscontravano nel barese e in alcune aree costiere siciliane.
L’entroterra, anche per una vera
e propria impedenza geografica ed orografica alla localizzazione industriale, e
per la debolezza della rete trasportistica del Regno (1.321 dei 1.848 comuni
del Regno erano infatti del tutto isolati dal sistema viario, e quindi di fatto
irraggiungibili) era invece ancora agricolo, molto povero, e non scevro da
residui dannosi di feudalesimo (nonostante la sua abolizione formale avvenuta
nel 1806, su pressione napoleonica). Il feudalesimo, infatti viene abolito, ma
“gli ex feudatari ne conservano le rendite, le prestazioni ed i dritti
territoriali”. Peraltro, i provvedimenti di riassegnazione dei terreni espropriati al latifondo peggioravano molto
spesso le condizioni della classe dei piccoli proprietari agricoli che si era
formata progressivamente ai provvedimenti restrittivi su latifondo e
feudalesimo, che se erano culminati con la legge del 1806, erano in realtà
iniziati già dal 1792. Spesso infatti i piccoli proprietari dovevano
indebitarsi con i latifondisti per comprare ulteriore terreno, poiché quello redistribuito
era insufficiente, riproducendo quindi nuovi rapporti di servitù
pseudo-feudale.
La conseguenza di ciò era che,
nelle grandi città del Sud, si affollava una classe di latifondisti ancora
potenti, anche se privati dei loro diritti feudali formali, il cui unico
obiettivo era quello di scimmiottare, nello stile di vita e nei gusti, le
borghesie delle grandi capitali europee, ma che, a differenza delle borghesie
europee vere, era caratterizzata da pigrizia, assoluta mancanza di spirito
imprenditoriale, nessuna propensione a innescare processi di accumulazione
capitalista originaria, e nemmeno ad investire nel miglioramento del loro
latifondo, che, affidato a mezzadri e braccianti (spesso piccoli proprietari
rovinati, o che, se anche conservavano la loro micro-impresa, dovevano comunque
lavorare la terra del “padrone grosso” per sopravvivere) diveniva sempre meno
produttivo e competitivo. Una classe di falsi borghesi parassiti che, oltre a
non svolgere quel ruolo inizialmente rivoluzionario nel passaggio da
feudalesimo e capitalismo che Marx assegna alla borghesia, spesso dilapidavano,
con il loro stile di vita sontuoso e il vizio del gioco d’azzardo, il loro
capitale fondiario, minando alla radice uno degli elementi fondamentali per
l’avvio di un processo capitalistico.
Attorno a questi falsi borghesi,
latifondisti di origine ma cittadini per elezione, si affollava infine la
piccola borghesia delle arti, dei mestieri e dei commerci, la cui sopravvivenza
dipendeva dai signori, e che assumeva quindi quel tratto servile con la grande
borghesia, ostile in modo preconcetto al proletariato agricolo, liquidato sotto
la categoria dei “cafoni”, che sarà poi ben delineato da Gramsci, come elemento
che oggettivamente rendeva più difficile la saldatura fra proletariato urbano e
contadino nel Sud, ma anche, in modo anche più virulento, da Salvemini (“andate un pomeriggio d'estate in uno di quei
circoli di civili, in cui si raccoglie il fior fiore della poltroneria paesana;
ascoltate per qualche ora conversare quella gente corpulenta, dagli occhi
spenti, dalla voce fessa, mezzo sbracata, grossolana e volgare nelle parole e
negli atti, badate alle scempiaggini, ai non sensi, alle irrealtà di cui sono
infarciti i discorsi”).
La vita nelle campagne, dunque,
ed in particolare nelle zone interne più aride e montuose, come appunto la
Basilicata (al netto della pianura metapontina) per i piccoli contadini resi
schiavi, per motivi economici, dei ricchi possidenti urbani, e per i semplici
braccianti, era terribile. la Basilicata contava con un territorio molto ampio,
di 10.675 Kmq (superiore a quello di una regione come l’Abruzzo o come il Lazio
attuale) ed una popolazione estremamente rada, di soli 492.959 abitanti, quasi
tutti residenti in aree rurali; le città più grandi non superavano i 20.000
abitanti, e vi si svolgevano attività molto povere di artigianato tradizionale.
Di tutta la superficie della regione, circa 4.500 Kmq. erano coperte da zone boschive.
Della restante parte del territorio, 1.000 kmq erano incoltivabili, e quindi
destinati a pascolo, e solo le superfici residue erano adibite a coltura in
grandissima parte seminativo-cerealicola e, per qualche zona ristretta, a ulivo
e a vite. Si trattava quindi di un paesaggio spoglio con una economia in
prevalenza ceralicolo-pastorale, di tipo estensivo e latifondistico, con una
piccola percentuale di territorio alberato di coltura intensiva, in cui i
contadini vivevano di un'agricoltura ancora primitiva e di mera sussistenza.
Questo è il ritratto di una casa contadina lucana
al momento dell’unità d’Italia: “nelle case affumicate dei contadini - dove non
vi è un cantuccio asciutto, non una sedia, ma vecchie casse tarlate (veri
cimiciai) le quali servono per tutti gli usi, da sgabelli, da tavole da pranzo,
da armadi, ed in ultimo da casse funebri - c'è immancabilmente una pentola dove
bolle la eterna minestra di legumi e la "brodaglia" chiesta in
continuazione dai bambini. L'alimentazione ordinaria delle nostre classi
agricole è costituita da pane di frumento, patate, legumi a preferenza fagioli.
Il pane dei contadini poveri si compone di una minima quantità di grano
mischiata ad orzo, granone, patate, veccia (impastato con acqua cattiva, senza
sale, male cotto, frequente azimo, acido per troppo lievito o per fermentazione
inopportuna, spesse volte mangiato stantio o ammuffito). Il pane bollito con un
po' di sale, olio e qualche peperone secco è la loro minestra ordinaria, mentre
le sostanze animali restano costantemente ai margini del regime dietetico. La
"massa alimentare" consiste per lo più in frumento misto a cereali
inferiori cui si accompagnano peperoni, legumi, patate, erbaggi conditi con
olio e lardo. La carne di maiale e di pecora si mangia circa due o tre volte
all’anno, rarissima quella bovina, limitata a solenni occasioni quella bianca
(pollame e conigli) a parte la carne guasta di qualche bestia morta di malattia
che si vende nel villaggio invece di sotterrarla, come vorrebbe l'igiene;
diffusissima, poi, l'acqua-sale: vale a dire grosse fette di pane scuro e durissimo
ammorbidito da acqua calda e insaporito da un pizzico di sale e da un filo
d'olio, cui talvolta si accompagna il peperoncino” (Lenormant, Martinelli,
Lacava, 1892, 1885).
In un simile assetto sociale,
quindi, la tradizionale narrazione dell’origine del brigantaggio, legata cioè
alla reazione nei confronti dello Stato unitario, è ovviamente vera e contiene
elementi reali. In cambio di una mancata riforma agraria, infatti, lo Stato
borbonico aveva concesso ai contadini delle aree più interne e povere il
beneficio di una tassazione relativamente moderata, e la possibilità di
sfuggire al servizio militare. Il neo Stato piemontese si affrettò ad eliminare
tali vantaggi, senza peraltro compiere alcun progresso in direzione della
redistribuzione delle terre e di un sistema economico e sociale più equo nelle
campagne meridionali. Ansiosi di guadagnarsi il consenso dei ceti latifondisti,
spesso molto rapidamente passati dalla parte garibaldina già durante la
spedizione dei Mille, i sabaudi non avevano affatto proceduto alla promessa di
redistribuire le terre, ed anzi avevano di fatto impedito la soluzione del
problema storico delle terre demaniali, non redistribuite ai contadini.
Da questo punto di vista la
Lucania fu esemplare: la spedizione dei Mille fu in realtà sostenuta, in
Basilicata, da ampie fasce della popolazione, speranzose in un miglioramento
della loro disastrosa condizione sociale. Già ad agosto 1860, quando ancora
Garibaldi non aveva superato lo stretto di Messina, la Basilicata fu liberata
dal suo popolo dal dominio borbonico. Alla guida dei moti antiborbonici si pose
la borghesia locale, presto affiancata dai possidenti, lesti a saltare sul
carro del vincitore. A settembre 1860, Garibaldi affidò ai rappresentanti di
questa borghesia (Albini, Lacava, Mignogna, Racioppi) il Governo
prodittatoriale, con pieni poteri, per la Basilicata. Le promesse di
redistribuzione delle terre ai contadini vennero immediatamente sepolte, e le
terre demaniali, uno sfogo essenziale per i braccianti più poveri, vennero
rapidamente privatizzate e cedute ai latifondisti, che in questo modo videro
aumentare il loro potere economico. Mentre di contro venne immediatamente
imposto l’obbligo di servizio militare: molti renitenti alla leva vennero
fucilati sul posto e senza neanche aver la possibilità di giustificarsi,
episodi del genere accaddero, ad esempio, a Castelsaraceno, Carbone e Latronico.
Inoltre venne immediatamente
aumentata la pressione fiscale sugli strati più poveri della popolazione, da
uno Stato sabaudo ai bordi del fallimento a causa delle lunghe guerre di
unificazione condotte: si imposero tasse che non esistevano prima, sui redditi
agricoli o sul misero patrimonio dei contadini (tassa di successione) con una
pressione fiscale a carico dei più poveri che, a giudizio del Pedio, aumentò
del 100% in pochissimi anni.
La stessa autonomia
amministrativa della Basilicata venne immediatamente cancellata, con il disegno
di centralizzazione del nuovo Stato italiano condotto da Cavour e dalla Destra
Storica.
Infine, l’atteggiamento
anticlericale dei piemontesi, che si manifestò rapidamente anche in Basilicata
(il governo insurrezionale revocò, ad esempio, l’affidamento ai gesuiti del
collegio di Potenza) portò ad una ulteriore frattura con una popolazione
profondamente cattolica, e molto attenta alle prediche del parroco a messa (ci
furono numerosi preti che si schierarono con l’Italia, ma la maggioranza dei
parroci di campagna obbediva all’ordine vaticano di sobillare la popolazione
contro i Savoia).
La reazione popolare alla
delusione seguita alla piemontizzazione della Basilicata, per gli elementi
sopra ricordati, fu immediata, ed in qualche modo prefigurò quello che sarebbe
stato il successivo brigantaggio: nel giorno del plebiscito per l’unificazione
della Basilicata all’Italia, il 21 Ottobre 1860, a Carbone, Castelsaraceno,
Calvera, Latronico ed Episcopia scoppiarono tumulti ed agitazioni contadine che
col manifesto intento della restaurazione borbonica miravano ad ottenere terre
da coltivare. La rivolta fu spenta con una dura repressione: parecchi i morti,
molti rinviati a giudizio, 5 condannati alla pena di morte, 25 all’ergastolo ed
altri a pene minori. Il plebiscito espresse un si all’Annessione quasi bulgaro,
anche se il voto fu largamente truccato. Infatti, il voto non fu segreto: le
schede del SI e quelle del NO, prelevate nelle rispettive urne, venivano immediatamente
deposte in una urna centrale, talché era possibile risalire all’identità
dell’elettore.
Alle radici dell’esplosione del fenomeno: la prosecuzione sotto altre
forme di una lunga lotta di classe pre-sabauda
Avviso per il conferimento di premi per la cattura di briganti
I tempi erano maturi per il
sorgere del brigantaggio. A contribuirvi furono le bande armate dell’ex
esercito borbonico sconfitto, allo sbando ed impossibilitate a rientrare nel
nuovo esercito italiano, i reparti di irregolari che, verso la fine della
guerra contro Garibaldi, furono formati per condurre attività di guerriglia
dietro le linee, renitenti alla leva obbligatoria istituita dai piemontesi, e
anche criminali comuni, che non riuscivano a ottenere la grazia dal nuovo
governo e reinserirsi socialmente. Il Governo legittimista in esilio vide
rapidamente nella delusione delle masse contadine del Sud nei confronti dello
Stato unitario, nella possibilità di allearsi in chiave anti-piemontese con lo
Stato Pontificio, nella presenza di tali bande armate sul territorio, la
possibilità di organizzare un tentativo di reazione per riprendere il
Regno.
Questa è in fondo la spiegazione
tradizionale del sorgere del brigantaggio. Io però sono di un avviso per alcuni
versi diverso. Evidentemente il comportamento del nuovo invasore, la delusione
per una unificazione che peggiorava le già critiche condizioni sociali, specie
nelle campagne, lo scontro con i sentimenti religiosi della popolazione, il
comportamento del Governo legittimista in esilio, ecc. furono senz’altro i
fattori scatenanti del brigantaggio. Ma il brigantaggio ha origini più lontane,
e può essere come una forma evolutiva del conflitto di classe che agitava il
Regno delle Due Sicilie già dall’inizio del XIX secolo. Se non si capisce che
il brigantaggio fu il salto di qualità, di una guerra di classe tutta interna
alla società meridionale, non si capisce l’entusiasmo con cui il popolo del
Sud, inizialmente, salutò l’impresa garibaldina.
Salvatore Lupo ci fa presente che
la maggior parte della popolazione era analfabeta e quindi non era in grado di
elaborare una consapevolezza personale di italianità. L’entusiasmo dei
contadini meridionali per l’avanzata dei Mille non era quindi riferibile ad un
attaccamento all’idea di Italia, quanto piuttosto alla speranza che il nuovo
Stato avrebbe finalmente portato ad una loro liberazione dalla miseria atavica.
La delusione di tale speranza fece sì che la lotta di classe, inizialmente
basata sullo schema di una rivoluzione borghese contro la nobiltà, evolvesse,
sotto la forma del brigantaggio, come lotta di classe fra proletariato agricolo
e borghesia possidente, coinvolgendo il nuovo padrone sabaudo, che proteggeva
la classe dei possidenti.
Già l’episodio della Repubblica
Partenopea del 1799 fu un chiaro sintomo di avvio di una lotta di classe: i
lazzari, un vero e proprio gruppo sociale distinto all’interno delle classi
popolari napoletane, combatterono, di fatto in alleanza con la nobiltà, la
monarchia borbonica ed il clero, contro i giacobini filofrancesi, espressione
dei primi segnali di una nascente borghesia napoletana. Ma la rapida caduta,
per mano sanfedista (e con l’appoggio determinante delle classi popolari
napoletane) di tale esperimento ebbe effetti sociali molto profondi. Nella sua
breve vita, infatti, la Repubblica Partenopea aveva emanato leggi che abolivano
i fedecommessi (strumento attraverso cui la nobiltà preservava le sue ricchezze
tra le generazioni), le primogeniture, ed istituì i primi provvedimenti di
eversione della feudalità.
Tali innovazioni legislative,
ottenute nel sia pur brevissimo tempo di vita della Repubblica di Napoli,
innescarono di fatto una strisciante lotta di classe nel Regno delle Due
Sicilie. La nascente borghesia, spinta dagli ideali della Rivoluzione francese,
in più occasioni cercò di sollevarsi contro il governo monarchico. Le riforme
che limitavano il feudalesimo, avviate nel 1799, e perfezionate nel 1806, diedero
vita ad un ceto agrario borghese destinato ben presto a sostituire gran parte
dei vecchi proprietari terrieri nobili. Infatti buona parte dei nobili del
Regno erano soliti risiedere stabilmente a Napoli disinteressandosi delle
proprietà rurali, perciò si dimostravano disposti a disfarsi delle loro estese
terre affittandole o vendendole ai notabili di provincia. Parte di questo ceto
borghese (non solo agrario ma anche industriale) che si formò nella prima metà
dell'800 divenne ben presto il cardine dei nuovi movimenti liberali: la
borghesia meridionale, forte delle posizioni economiche raggiunte, pretendeva
riforme e posti di potere nel governo del Regno. In questo modo il ceto medio
nato grazie alle politiche economiche borboniche divenne, in seguito alle
mancate riforme del 1848, la classe sociale più ostile alla dinastia.
D’altra parte, però i contadini,
benché più passivi, per motivi legati ad una scarsa coscienza di classe,
spesso, in particolare nei moti autonomistici siciliani de 1820 e del 1848, guidati
dalla locale borghesia, si associarono alle rivoluzioni borghesi, nella
speranza di migliorare le loro condizioni di vita. Gli stessi contadini
siciliani, nelle prime fasi della spedizione dei Mille, si affiancano ai
garibaldini per combattere contro le truppe borboniche, esattamente come in
Lucania, durante l’insurrezione, la partecipazione popolare fu ampia, benché,
ancora una volta, la guida dell’insurrezione anti-borbonica fosse assunta da
esponenti della borghesia.
La guerra di unificazione con
l’Italia del Nord è l’ultimo, e decisivo, episodio di liberazione della
borghesia meridionale dalla monarchia borbonica, che pone fine ad una lotta di
classe durata più di 60 anni, nella quale il proletariato agricolo ed
industriale del Meridione è stato in parte passivo (come durante i moti reggini
del 1847, falliti proprio per la mancata partecipazione popolare), in parte
difensore attivo della monarchia borbonica (come nel caso della Repubblica
Partenopea), ed in parte alleato con la borghesia (come avvenuto nei moti
siciliani e, in numerosi casi, durante la spedizione dei Mille e le
insurrezioni pro-italiane).
Tale quadro di lotta di classe
cambia radicalmente proprio durante la campagna dei Mille: l’episodio di Bronte
del 10 agosto 1860, nel quale Bixio represse la rivolta contadina fucilando 5
persone, segnò la rottura dell’alleanza anti-borbonica fra proletariato
agricolo e borghesia possidente: il primo prese coscienza di essere stato usato
dalla borghesia per portare a termine la propria rivoluzione contro la nobiltà
filo-monarchica, tramite la conquista piemontese, ma che da ciò non avrebbe
tratto alcun beneficio. A questo punto, la natura della lotta di classe nell’ex
Regno delle Due Sicilie cambiò: da una lotta borghese contro la monarchia, ad
una lotta di popolo, soprattutto contadina, contro la borghesia terriera che
aveva stretto accordi con i Savoia. Ed è una evoluzione abbastanza fisiologica:
la borghesia, nella sua fase rivoluzionaria, spesso coinvolge anche gli strati
popolari, ma poi, conquistato il potere economico e politico, si pone in
antagonismo con questi.
In tale quadro va collocato il
brigantaggio: come una forma legata all’evoluzione della lotta di classe, in
cui finalmente il proletariato agricolo si solleva unitariamente contro la
borghesia terriera, e per fare ciò deve combattere anche il nuovo padrone
sabaudo, di questa borghesia alleato. Il richiamo alla restaurazione borbonica,
tipico del messaggio politico associato al brigantaggio è quindi, più che
altro, un modo per attrarre la simpatia delle popolazioni, che, deluse dal
nuovo Stato unitario, ricordano di “come si stava meglio quando si stava
peggio”, e per calamitare aiuti economici e militari dal Governo lealista in
esilio. Dice infatti lo storico lucano Tommaso Pedio: “oppressi da una miseria
che non consente loro alcuna via di uscita, tormentati dalla fame e dalla
disperazione, ascoltano ora i nostalgici dell’antico regime e si lasciano
suggestionare da nuove promesse. Dimenticando quella che era stata la loro
esistenza prima del 1860, le classi popolari si illudono che una eventuale
restaurazione borbonica possa loro arrecare vantaggi e benefici e, soprattutto,
rendere possibile l’assegnazione delle terre demaniali che, promessa dai
liberali, oggi viene praticamente negata”.
Lo stesso deputato Massari, nella
famosa relazione della Commissione Parlamentare d’inchiesta, espresse esattamente
questo punto di vista: "Il contadino sa che le sue fatiche non gli
fruttavano né benessere né prosperità; sa che il prodotto della terra
innaffiata dai suoi sudori non sarà suo. Il brigantaggio diventa, in tal guisa,
la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari
ingiustizie".
La tesi del brigantaggio come
forma di un salto di qualità della lotta di classe nella società meridionale,
in direzione di uno scontro fra proletariato agricolo e borghesia, è sostenuta anche
da Pedio, che afferma che l'adesione della borghesia lucana alla causa unitaria
fosse strumentale agli interessi della stessa. Questo portò, sempre secondo lo
storico potentino, ad un conflitto tra la borghesia dei galantuomini liberali e
le classi povere, che non poteva che tracimare in uno scontro con il nuovo
Stato sabaudo. Egli afferma infatti che “l’entusiasmo con cui i contadini
meridionali hanno seguito le forze insurrezionali e accolto le avanguardie
garibaldine, si trasforma rapidamente in aperta ostilità non appena il
movimento liberale, conseguito il potere nelle province, si oppone alla
risoluzione della questione demaniale per non disgustarsi la classe de’
proprietari che sono stati i sostegni veri del movimento che ha portato
l’attuale ordine di cose (…) Gli uomini scesi dal Nord per amministrare le
nuove province italiane, non concepiscono che gli oppressi possano aspirare a
un migliore sistema di vita e, ravvisando nelle richieste dei contadini
manifestazioni antiliberali, considerano costoro nemici del nuovo regime e
assumono atteggiamenti da conquistatori che irritano i contadini e provocano la
loro ribellione contro l’ordine costituito”.
La storia del brigantaggio in Lucania
Carmine Crocco
In Basilicata, i primi segnali di
brigantaggio si hanno, nell’area del Vulture, con la formazione di bande armate
già immediatamente dopo il plebiscito, come si è visto macchiato del sangue di
alcune rivolte popolari. La banda più importante, che arrivò al suo culmine ad
avere 2.000 unità, fu quella comandata da Carmine Crocco, di Rionero in
Vulture. Testimone e vittima di una gravissima ingiustizia quando aveva appena
6 anni (un possidente locale picchiò la madre in cinta e fece incarcerare il
padre) che sicuramente lo segnò per tutta la vita, arruolatosi nell’esercito
borbonico, disertò dopo aver ucciso un commilitone, per una questione
passionale. Incarcerato ed in seguito evaso, si unì ad altri criminali comuni
in una banda che operava nella zona di Monticchio. Si arruolò poi nell’esercito
garibaldino, con la promessa che avrebbe ricevuto la grazia, ma quando si
presentò a Potenza per reclamare la grazia, venne immediatamente fatto
arrestare (il che, ancora una volta, testimonia dell’assoluta inaffidabilità
delle promesse dei nuovi padroni). Riuscì
ad evadere e a rifugiarsi nei boschi del Vulture, formando una piccola banda di
grassatori. Deluso dalla promessa non mantenuta, fu approcciato da membri di
comitati filoborbonici che gli diedero l'opportunità di diventare il capo
dell'insurrezione legittimista contro lo stato Italiano appena unificato,
offrendogli un solido supporto di uomini, soldi e armi.
Con questo supporto, e con un esercito
fatto di renitenti alla leva, contadini nullatenenti e delusi, ex militari
dell’esercito borbonico, criminali comuni, Crocco formò 43 piccole bande
decentrate, in modo da massimizzare l’efficacia di una strategia di guerriglia,
e nel periodo di Pasqua del 1861, conquistò la zona del Vulture nel giro di
dieci giorni. In ogni territorio conquistato, Crocco dichiarava decaduta
l'autorità sabauda, istituiva una giunta provvisoria e ordinava che fossero
esposti nuovamente gli stemmi di Francesco II. Persone appartenenti,
prevalentemente, alla classe borghese e liberale venivano ricattate, rapite o
uccise da Crocco in persona o dai suoi uomini e le loro proprietà venivano
depredate. Nella maggior parte dei casi, egli e le sue bande venivano accolti
positivamente e supportati dal ceto popolare. Lo stesso governatore della
Basilicata, Giacomo Racioppi, dopo l'invasione del comune di Trivigno, affermò:
«la plebe si aggiunge ai predoni [...], la colta cittadinanza o fugge, o si
nasconde, o muore con le armi alla mano». Anche Del Zio ammise che il brigante
«aveva proseliti in ogni comune, era il terrore dei commercianti» e dei «grandi
proprietari, o coloni di vaste ed estese masserie, ai quali un semplice
biglietto di Crocco per aver denari, vitto ed armi, era più che sufficiente a
gettarli nel terrore».
Il 10 aprile i briganti entrarono
a Venosa e la saccheggiarono. Il popolo, accorso entusiasta incontro ai
briganti, indicò loro le case dei galantuomini. Durante l'occupazione di
Venosa, venne assassinato Francesco Saverio Nitti, medico ex carbonaro, nonno
dell'omonimo statista, e la sua abitazione fu razziata. Fu poi la volta di
Lavello, in cui Crocco fece istituire un tribunale che giudicò 27 liberali e le
casse comunali furono svuotate di 7.000 ducati, 6.500 dei quali furono
distribuiti al popolo. Dopo Lavello toccò a Melfi (15 aprile), dove Crocco fu
accolto trionfalmente. Con l'arrivo di rinforzi piemontesi da Potenza, Bari e
Foggia, Crocco fu costretto ad abbandonare Melfi e, con i suoi fedeli, si
spostò verso l'avellinese. Il suo arrivo in Irpinia diede uno scossone a
diverse popolazioni locali: comuni come Trevico e Vallata insorsero contro i
piemontesi e sotto la sua influenza si formarono altre bande nella zona
comandate da un suo nuovo luogotenente, il brigante Ciriaco Cerrone.
L'espansione di Crocco riuscì anche a valicare i confini pugliesi, grazie anche
all'appoggio del suo subalterno Giuseppe "Sparviero" Schiavone di
Sant'Agata di Puglia, occupando la stessa Sant'Agata, Bovino e Terra di Bari.
Nell'agosto 1861, però,
preoccupato dall’aumento esponenziale di forze militari piemontesi, e
dall’incremento della repressione politica, Crocco decise improvvisamente di
sciogliere le proprie bande, intenzionato a trattare con il nuovo governo. Il
barone piemontese Giulio De Rolland, nominato nuovo governatore della
Basilicata al posto del dimissionario Giacomo Racioppi, era disposto a trattare
con lui. Il Governo legittimista in esilio, allora, decise di accorrere in
aiuto di Crocco, per impedirgli di arrendersi. Il 22 ottobre 1861 per ordine
del generale borbonico Tommaso Clary, arrivò il generale catalano Josè Borjes,
veterano delle guerre carliste. Il generale comunicò a Crocco la promessa del
governo in esilio riguardo ad un imminente rinforzo di soldati. Borjes voleva
trasformare la sua banda in un esercito regolare, quindi adottando disciplina e
precise tattiche militari; inoltre programmò di assoggettare i centri minori,
dar loro nuovi ordinamenti di governo e arruolare nuove reclute per poter
conquistare Potenza, ancora un solido presidio sabaudo. Crocco gli diede retta,
sebbene non nutrisse alcuna simpatia per il generale sin dall'inizio, temendo
che Borjes volesse sottrargli il comando dei propri territori. Nel frattempo
giunse da Potenza un nuovo rinforzo, il francese Augustin De Langlais, che si
presentò come agente legittimista al servizio dei Borbone. De Langlais,
personaggio ambiguo di cui Borjes ebbe a dire nel suo diario «si spaccia come
generale e agisce come un imbecille», per certi aspetti, fu il coordinatore
principale dei movimenti delle bande.
Spinto quindi a riconquistare,
per i Borboni, l’intera Basilicata, Crocco lasciò il suo territorio del Vulture
per spingersi verso il Basento, ove riuscì a reclutare nuovi combattenti, e
occupò Trivigno. Caddero sotto la sua occupazione altri centri come Calciano,
Salandra, Aliano. Il 10 novembre, ottenne una netta vittoria su un gruppo di
bersaglieri e guardie nazionali durante la battaglia di Acinello, uno dei più
importanti conflitti del brigantaggio postunitario. In tale battaglia, circa
1.000 briganti, agli ordini di Crocco e Borjes, affrontarono 1.200 bersaglieri
e guardie nazionali, ben armati ed disciplinati. Lo svolgimento della battaglia
mostra come Crocco avesse oramai adottato strategie militari molto avanzate, da
vero generale, in grado di utilizzare in modo coordinato sia la fanteria che la
cavalleria: la banda di Crocco inviò la prima compagnia per attaccare di fronte
i bersaglieri, seguito da un altro contingente per proteggerli. Ninco Nanco,
comandante della cavalleria, ricevette l'ordine di colpire il nemico sul
fianco. Borjes, a capo del resto della fanteria, marciò in colonna al centro
delle due ali per proteggerle in caso di scacco. Dopo un furioso scontro di
fucileria, Ninco Nanco e la sua cavalleria attraversarono il fiume e
aggredirono sul fianco le guardie nazionali che, dopo un duro combattimento, si
diedero alla fuga. Un gruppo di bersaglieri, rimasti soli, indietreggiarono e
presero posizione presso il Mulino di Acinello. Vedendoli in una posizione
critica, Borjes fece avanzare una sezione della compagnia di riserva per
prenderli alle spalle, mentre la prima compagnia lo attaccava di fronte e la
seconda a sinistra. I bersaglieri, tentando di difendersi, attaccarono alla
baionetta ma il loro sforzo di resistenza si rivelò vano. Morirono 40 militari
italiani, ed altri 5 furono catturati come prigionieri, mentre le perdite
dell’esercito dei briganti furono del tutto trascurabili.
Alcuni dei luogotenenti di Crocco: all'estrema sinistra. "Zì Beppe" Caruso, che lo tradirà
L'esercito di Crocco giunse nelle
vicinanze di Potenza il 16 novembre ma
esplosero le divergenze sotterranee sempre avute con Borjes e di
conseguenza la spedizione verso il capoluogo non venne effettuata. L'armata dei
briganti riversò verso Pietragalla, un errore fatale, che segnò la sconfitta di
Crocco, ma che evidenzia anche il carattere poco avvertito politicamente dello
stesso Crocco. Con l'arrivo dell'ennesimo rinforzo militare piemontese, Crocco,
infatti, esaurì le risorse per sostenere altre battaglie, perdendo quindi per
sempre la possibilità, conquistando Potenza, di far cadere sotto il suo
controllo tutta la Basilicata, e ordinò ai suoi uomini la ritirata verso i
boschi di Monticchio. Appena tornato, Crocco decise di rompere i rapporti con
il generale Borjes, perché era insicuro di vincere e non credeva più alla
promessa del governo borbonico di un contingente maggiore. Il generale catalano,
sconcertato dal suo cambio di rotta, si recò a Roma con i suoi uomini per fare
rapporto al re, ma durante il suo tragitto fu catturato da alcuni regi soldati
e fucilato a Tagliacozzo. De Langlais sparì, inspiegabilmente, dalla scena poco
dopo. Con la fuoriuscita dei legittimisti stranieri, Crocco si ritrovò isolato,
e dovette iniziare a fronteggiare i primi segnali di insubordinazione dei suoi
uomini, scoraggiati circa la possibilità della vittoria finale. Nei giorni
successivi tutti i paesi insorti e occupati furono riconquistati, ristabilendo
l'autorità sabauda e, in base al diritto di rappresaglia, briganti e civili
accusati (o sospettati) di manutengolismo furono arrestati o fucilati con esecuzioni
sommarie o persino senza processo.
Da quel momento il brigante
rionerese, rimasto senza un sostegno militare ed economico, ritornò ad azioni
di mero banditismo, compiendo depredazioni, ricatti e sequestri di personalità
importanti delle zone, al fine di estorcere migliaia di ducati, ed alla
guerriglia per piccole bande autonome che aveva praticato prima di conoscere
Borjes. Nel 1863, il generale Fontana organizzò negoziati con i briganti.
Crocco, Caruso, Coppa e Ninco Nanco si presentarono di propria volontà. Durante
un banchetto, Crocco assicurò di condurre tutti i suoi uomini alla resa e se ne
andò. In realtà il capobrigante, ormai diffidente davanti alle promesse del
regio governo, non fece più ritorno e l'accordo saltò. Gli scontri tra briganti
e truppe unitarie non accennarono a placarsi. Nel marzo 1863 le sue bande (tra
cui quelle di Ninco Nanco, Caruso, Caporal Teodoro, Coppa, Sacchetiello e
Malacarne), attaccarono un gruppo di cavalleggeri di Saluzzo, uccidendo circa
venti di loro, in risposta all'assassinio e all'incendio dei cadaveri di alcuni
briganti nei pressi di Rapolla, perpetrato dagli stessi cavalleggeri.
Ma oramai la disciplina interna
era diventata sempre più problematica: l’efficacia della repressione militare
sabauda era infatti cresciuta, ed il nervosismo, per il cerchio che si
stringeva sempre più, aumentava fra gli uomini di Crocco, che spesso dovevano
anche affrontare il lutto di parenti ed amici, spesso assolutamente non
coinvolti nel supporto ai briganti, che venivano fucilati dai carabinieri, per
pura ritorsione. L’autonomia di azione delle diverse bande, resa necessaria per
una conduzione efficiente di una campagna di guerriglia, le rendeva sempre più
indipendenti, e refrattarie al comando centrale di Crocco.
Inoltre, con l’approvazione della
famigerata legge Pica, il 15 agosto 1863, la repressione sabauda ebbe una
svolta particolarmente cruenta ed efficace. Venivano istituiti sul territorio
delle province definite come "infestate dal brigantaggio" i tribunali
militari, con la possibilità, di fatto, di sottoporre a giudizio sommario,
senza molte delle garanzie previste dalla legge, chiunque fosse sospettato
anche solo di complicità con i briganti. Il nuovo corpo normativo stabiliva che
poteva essere qualificato come brigante chiunque fosse stato trovato armato in
un gruppo di almeno tre persone, in pratica attribuendo la qualifica di
brigante sulla base di meri indizi. Veniva concessa la facoltà di istituire
delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stabiliti dei premi
in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso. Le pene andavano
dall'incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione. Coloro che prestavano
aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere puniti con i
lavori forzati a tempo o con la detenzione. Veniva punito con la deportazione
chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come
bande brigantesche. Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al
brigantaggio. Venivano istituiti i Consigli inquisitori, con il compito di
stendere delle liste con i nominativi dei briganti. L'iscrizione nella lista
costituiva di per sé prova d'accusa. In sostanza, veniva introdotto il criterio
del sospetto: in base ad esso, chiunque avrebbe potuto avanzare accuse, anche
senza fondamento, anche per consumare una vendetta privata. La legge, inoltre,
aveva effetto retroattivo.
La fine iniziò a manifestarsi
quando uno dei più fidi luogotenenti di Crocco, Giuseppe Caruso, soprannominato
“Zì Beppe”, per motivi mai chiariti, si arrese al generale Fontana il 14
settembre 1863, offrendosi come collaboratore per catturare Crocco. Grazie alla
sua conoscenza esatta dei nascondigli e delle tattiche di Crocco, con il suo
aiuto i carabinieri riuscirono ad assestare colpi durissimi a quest’ultimo. A
marzo 1864, Crocco sfuggì per miracolo ad una imboscata organizzata dallo
stesso Caruso. Meno fortunato fu uno dei suoi principali luogotenenti, Giuseppe
Nicola Summa, detto “Ninco Nanco”, la
cui banda venne sterminata dai carabinieri l’8 febbraio 1864, e lui stesso venne
catturato con due compagni, il mese successivo, fucilato senza processo, ed il
suo cadavere esposto, come monito, nella piazza di Avigliano. A Luglio 1864,
Giuseppe Schiavone, detto “Sparviero”, a seguito delle informazioni date dal
traditore Caruso, venne catturato e fucilato. Giovanni Fortunato, detto
“Coppa”, era già morto, assassinato da un suo sottoposto per questioni
passionali. A febbraio 1865 dovette arrendersi anche la banda di Teodoro
Gioseffi, soprannominato “Caporal Teodoro”, così come si arrese anche Vito di
Gianni, detto “Totaro”.
Il cadavere di Ninco Nanco, fucilato dai piemontesi
L’epilogo
Il 25 luglio 1865, l’esercito di
Crocco venne sterminato, lungo l’Ofanto, dalle truppe del generale Pallavicini.
Rimasto senza forze, Crocco cercò di scappare nello Stato Pontificio, memore
del sostegno che il papa aveva dato, in chiave anti-piemontese, alla corona
borbonica. Ma Crocco non era un politico molto furbo: i tempi erano
cambiati; il Governo lealista in esilio
a Roma non gli aveva perdonato l’abbandono del tentativo di riconquistare la
Basilicata; il Papa non voleva creare motivi di ulteriore frizione con i Savoia,
ed era soprattutto preoccupato dall’estensione del brigantaggio nel suo stesso
territorio, in particolare in Ciociaria. I soldati del Papa lo catturarono a
Veroli. Durante la sua detenzione nello stato papale Crocco ebbe anche contatti
con Francesco II, esortandolo ad intervenire in suo favore poiché aveva
combattuto in suo nome, ma il sovrano, secondo le dichiarazioni del brigante,
non volle intromettersi per non
compromettersi con le potenze straniere. Dopo vari passaggi da un carcere
all’altro, Crocco fu infine rinchiuso a Potenza. Nel 1873 venne condannato a
morte, ma la sentenza venne immediatamente commutata, con decreto regio, in
lavori forzati a vita, forse, come sostiene Del Zio, per pressioni politiche
francesi. Morì nel carcere di Portoferraio, dopo aver più volte ritrattato il
suo passato, arrivando ad elogiare Re Vittorio Emanuele II, e chiesto una
grazia che non arrivò mai, nel 1905, all’età di 75 anni.
Dopo l’arresto di Crocco,
rimasero soltanto alcuni focolai di brigantaggio nel materano, costituiti da
bande che non facevano parte dell’esercito di Crocco. La banda di Rocco
Chirichigno, detto “Coppolone”, fu sconfitta nel febbraio 1865; l’ultima banda
operante in Basilicata, quella capeggiata da Eustachio Chita, detto
“Chitaridd’”, resisté fino al 1896, in condizioni di estremo isolamento nella
zona circostante le gravine di Matera.
La repressione militare sabauda
fu selvaggia. Ecco alcuni degli episodi più brutali: A Trivigno, una pattuglia
dell'esercito italiano fece un rastrellamento, fucilò alcuni prigionieri ed
emanò un bando che prevedeva il perdono a chi si fosse costituito alle
autorità. 28 ricercati si presentarono e, nonostante la promessa, furono
fucilati senza processo. A Ruvo del Monte, dopo l'assedio di Crocco in cui
vennero uccise 17 persone tra possidenti e liberali, un reparto di 1500 soldati
ordina la perlustrazione e la fucilazione di un numero imprecisato di ruvesi.
Dopo lo sterminio, il comandante Guardi ordinò ai notabili del posto di
provvedere ai bisogni della truppa e, davanti al loro rifiuto, comandò il loro
arresto con l'accusa di attentato allo stato e manutengolismo. A Lavello, 20
briganti furono fucilati da un contingente di ussari. Altri eccidi si
registrarono a Venosa e Barile. Con la legge Pica, in meno di sei mesi, in
Basilicata furono incarcerate per sospetto di aderenza ai briganti 2.400
persone; di questi, 525 persone, tra cui 140 donne, finirono al confino.
Non vi è una stima del numero di
morti, di villaggi e case distrutte, di persone recluse a vita o inviate al
confino nella sola Basilicata. Ma certamente furono numeri da guerra civile. Dopo
questa sconfitta, inizierà il crescente distacco economico del Mezzogiorno dal
Centro Nord, l’emigrazione, il soggiogamento delle classi popolari meridionali.
Nascerà la questione meridionale.
Bibliografia
-
Francesco Barra, Cronache del Brigantaggio Meridionale
(1806-1815), Salerno, S.E.M., 1981
-
Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di
Napoli, Lacaita, 1998
-
Salvatore Lupo, L'unificazione italiana. Mezzogiorno,
Rivoluzione, Guerra civile, Donzelli, 2011
-
Gaetano Salvemini, Scritti sulla Questione Meridionale
1896-1955, Torino, 1955
-
Tommaso Pedio, Brigantaggio e questione meridionale,
Edizioni Levante, Bari, 1982
-
M. Lacava, Le condizioni igienico-sanitarie della
provincia di Basilicata nell'anno 1885, p.82, in Sezione Lucana, Biblioteca
Provinciale –Matera
-
G.Bronzini, Vita tradizionale in Basilicata, Montemurro
Editori, Matera, 1964.
Grazie. Mi è utile.
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