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sabato 21 luglio 2012

LA DESTABILIZZAZIONE DELLA SIRIA di Giuseppe Angiuli





LA DESTABILIZZAZIONE DELLA SIRIA E’ UN PUNTO IRRINUNCIABILE PER I FAUTORI DEL NEW BIG MIDDLE EAST
di Giuseppe Angiuli



L’attentato dello scorso 18 luglio, in cui sono rimasti uccisi il ministro siriano della Difesa, Dawoud Rajiha, e il suo vice Assef Shawkat (cognato del Presidente Bashar al-Assad), avvenuto con tecnica da kamikaze all’interno delle mura del quartier generale della sicurezza a Damasco, dove era in corso un vertice tra il governo e i capi dell'intelligence siriana, segna finora il punto più alto dell’assalto al governo della nazione araba: fonti di queste ore da Damasco ci fanno sapere che all’attentato bombarolo contro i vertici della sicurezza nazionale ha fatto seguito un’irruenta azione messa in atto su larga scala da bande paramilitari composte da mercenari provenienti prevalentemente dalla Libia e fatti dirottare in Siria per portare a termine quello che, nella testa dei cospiratori contro il regime di Damasco, dovrebbe costituire l’assalto finale [1].

Appare fin troppo evidente la coincidenza tra l’escalation dello scontro in atto a Damasco con le parole di aperta minaccia rivolte ad Assad, solo pochi giorni prima dell’attentato, da una impaziente e acidissima Hillary Clinton, che aveva chiesto al legittimo Presidente siriano di togliere quanto prima il disturbo onde risparmiare al suo Paese “un attacco catastrofico”.

Il progetto volto a destabilizzare la Siria di Assad è in corso di svolgimento ormai da circa 1 anno e mezzo e si è apparentemente inserito in quel vasto processo politico regionale che, nel gergo mediatico-giornalistico di casa nostra, ha preso il nome di “rivoluzioni arabe”.

Mentre il progettato cambio di potere in Tunisia ed Egitto è stato (quasi) repentino e, tutto sommato, di facile realizzazione, per destabilizzare la Giamairiha libica di Gheddafi è stato necessario ricorrere ad intensi bombardamenti NATO mentre la Siria di Assad è sembrata fino ad oggi essere ancora in grado di reggere lo scontro con i suoi nemici, soprattutto a causa di due fattori: il diffuso sostegno di una parte significativa del popolo siriano (che ovviamente non è facile determinare quantitativamente ma che molti osservatori seri sono propensi a ritenere molto alto, quasi attorno ai 2/3 del totale della popolazione) e l’appoggio di potenze come Russia e Cina, il cui esercizio del diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha finora consentito alla Siria di sottrarsi a bombardamenti di tipo “libico” [2].

E’ molto importante esaminare da vicino la natura delle forze che compongono la coalizione aggressiva – attiva a partire dai primi mesi del 2011 – disposta a ricorrere a qualunque mezzo pur di abbattere il regime laico-nazionalista siriano fondato sulla centralità del Partito Baath.

Quali sono queste forze? E perché per loro è così importante abbattere il governo Assad?

Per offrire una risposta a tali interrogativi è necessario fare un passo indietro di alcuni anni e comprendere la progressiva evoluzione delle strategie dell’imperialismo USA-NATO e del conseguente quadro geopolitico nel vicino oriente (a proposito, è decisamente più corretto, per noi italiani, parlare di “vicino oriente” anziché di “medio oriente” in quanto tale ultima locuzione riflette passivamente l’angolatura statunitense, che considera “medio oriente” quell’arco di Paesi situati ad est del mediterraneo, mentre il “vicino oriente”, sempre per Washington, saremmo sostanzialmente noi, ossia i popoli europei).

Con l'avvento di George W.Bush alla Casa Bianca, nell'anno 2000, il gruppo di Neocons che si pone alla guida degli Stati Uniti(Cheney, Rumsfed, Wolfowitz, Rice) mette in atto la strategia del cosidetto "scontro delle civiltà". Tale disegno prevedeva la mobilitazione generale  di tutti i popoli del cosidetto "occidente" che si sarebbero dovuti convincere a compiere una guerra di lunga durata (avente i caratteri di vera e propria crociata a guida statunitense) contro i popolidi religione islamica, indicati come nemico strategco ed immanente, brutalmente disumanizzati e descritti come portatori di un odio intrinseco verso il nostro stile di vita, la nostra religione, i nostri costumi, ecc.
La ideologia dello scontro frontale tra “occidente civilizzato” ed “islam barbaro” era stata accuratamente congegnata nei laboratori del pensiero Made in U.S.A. e aveva avuto uno dei suoi primi fautori nel professore di Harward Samuel Huntington, autore nel 1993 dello scritto icasticamente titolato “Scontro delle civiltà” e pubblicato su Foreign Affairs, la rivista del Council on Foreign Relations[3].

Il presupposto della teoria dello “scontro delle civiltà” era il seguente: una volta crollata la potenza comunista URSS (già definita da Ronald Reagan “l’impero del male”), gli Stati Uniti, al fine di preservare per un lungo periodo il proprio ruolo di incontrastata egemonia unipolare, avrebbero dovuto indirizzare i propri sforzi principalmente verso il contenimento della Cina, la cui crescita economica impetuosa, già registrata nei primi anni ’90 del secolo scorso, aveva fatto sobbalzare sulle poltrone gli strateghi di Washington, consci del rischio di dover fronteggiare un nuovo concorrente emergente e difficile da contenere nel medio-lungo periodo.
Non potendo però permettersi di ingaggiare uno scontro frontale e diretto con la stessa Cina, per i maggiorenti di Washington occorreva creare un nemico immaginario, da agitare agli occhi dell’opinione pubblica dei Paesi occidentali al fine di creare compattezza psicologica nelle masse, elemento indefettibile ogniqualvolta il Potere desideri creare un clima di guerra: questo nemico inventato era appunto l’Islam, con tutti i suoi contorni di Al Qaeda, del “mostro” Osama bin Laden [4] e dei nostri giornalisti-megafono interessati al richiamo del Padrone (come Giuliano Ferrara) o semplicemente affetti da demenza senile (come la Fallaci dell’ultimo periodo).

L’evento catalizzatore che fu prodromico e funzionale a questo clima da mobilitazione generale per una nuova “guerra santa” verso l’Islam è stato rappresentato – come tutti sappiamo – dagli attentati dell’11 settembre 2001, nella cui organizzazione ormai moltissimi osservatori al mondo, unitamente ad una grossa fetta di opinione pubblica globale, danno per scontata la co-partecipazione di pezzi significativi delle forze armate e dei servizi di sicurezza americani [5].

Col pretesto di una nuova e lunga “guerra al terrorismo”, dunque, è arrivata prima l’invasione dell’Afghanistan (dichiaratamente motivata dalla necessità di catturare bin Laden ma in realtà attuata per consentire l’installazione di basi militari in una regione strategica alle porte della Cina) e poi quella dell’Iraq (portatore del secondo giacimento petrolifero più capiente al mondo).
Nella folle strategia di attacco frontale all’Islam concepita dai Neocons (ma, come si è detto, in realtà si trattava di una strategia di avvicinamento e di accerchiamento della Cina) era stata fin dall’inizio messa in conto l’estensione del conflitto di tipo tradizionale anche alla Siria ed all’Iran, in quanto, nella mente degli strateghi di Washington, si pensava che le operazioni militari nei teatri afghano ed iracheno non avrebbero dovuto creare quei problemi inattesi che poi, di fatto, hanno intralciato non poco i piani di dominio imperiale della potenza a stelle e strisce [6].

Ma ad un certo punto del secondo mandato alla presidenza di George W. Bush, qualcuno ai piani alti dell’establishment americano si rende conto del carattere propriamente folle della strategia dello “scontro di civiltà” e della non praticabilità a lungo andare di una logica di guerra infinita.
Infatti, nonostante nessuna potenza al mondo possa ancora oggi contrastare il predominio tecnologico dell’armamentario bellico U.S.A., è noto che nella storia recente le truppe statunitensi si siano spesso dimostrate poco efficaci sul terreno dello scontro militare diretto in campo aperto e pertanto incapaci, alla lunga distanza, di controllare un territorio di ampie dimensioni.

Inoltre, a Washington ci si rende conto che una strategia basata sull’islamofobia (intesa quale strumento di propaganda mediatica) e sull’occupazione diretta di territori di Stati sovrani da parte dell’esercito a stelle e strisce, oltre a comportare una ricaduta pesantissima in termini di bilancio  del Pentagono, avrebbe finito presto per attirare sugli Stati Uniti (percepiti come potenza neo-coloniale in senso stretto) un odio generale da parte di circa 4/5 dell’umanità.

A questo punto, durante l’ultimo biennio della Presidenza Bush, dopo la grave sconfitta elettorale subita dai Repubblicani alle elezioni di mid terme per il rinnovamento del parlamento, si corre ai ripari concependo una revisione generale della strategia del New Big Middle East (ossia “Nuovo grande Medio Oriente”): la svolta avviene alla fine del 2006 con la rimozione del “falco” Donald Rumsfeld dalla posizione di Segretario di Stato alla Difesa, a cui fa seguito, pochi mesi dopo, la defenestrazione del Capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Peter Pace, di non lontane origini pugliesi.

Ai vertici del Pentagono si insedia in quel momento Robert Gates, il quale comincia a farsi interprete di una nuova linea strategica definita “realista” (una linea solo apparentemente più moderata di quella dei Neocons) non più basata sui toni da crociata verso l’Islam bensì su piani di attacco più sottili e subdoli. I veri strateghi della nuova linea “realista” sono l’immarcescibile Henry Kissinger (di marca repubblicana, mente del colpo di Stato contro Salvador Allende in Cile nel 1973, anno in cui fu destinatario anche del Premio Nobel per la pace) e l’ex Consigliere alla Sicurezza nazionale del Presidente Carter, il polacco Zbigniew Brzezinski.


La nuova linea “realista” – elaborata dai due prefati strateghi - comporta la necessità per gli U.S.A. di abbandonare lo scenario della fantomatica “guerra al terrorismo islamico” ed anzi, di fare leva proprio sull’islam radicale quale preziosa risorsa politica e quale fraterno alleato da impiegare su larga scala come fattore di destabilizzazione in operazioni di “guerra sporca” o “coperta” (molto simile alla guerra a bassa intensità attuata dai contras in Nicaragua).



Questa operazione di maquillage dinanzi al mondo esigeva di porre alla Casa Bianca una figura che potesse illudere soprattutto i Paesi in via di sviluppo (Africa, America latina, sud-est asiatico) sul presunto cambio di rotta attuato ai vertici della prima potenza globale: ed ecco che l’individuo ritenuto più idoneo al raggiungimento di un’operazione che è soprattutto da intendersi quale trucco mediatico viene trovato in Barack Hussein Obama, nero (a metà) e dal secondo nome vagamente arabofono. Ma quel che conta di più nella figura di Obama è che lui è, prima di ogni altra cosa, un pupillo di Zbigniew Brezinski [7], nel cui laboratorio politico è stato interamente forgiato.

In sostanza, con l’avvento di Obama alla Casa Bianca, gli obiettivi di fondo degli Stati Uniti rimangono intatti, quantunque ne mutino lo stile e la strategia per conserguirli: occorre ridisegnare politicamente l’intero mondo arabo e islamico, un immenso territorio che va dal Maghreb africano fino quasi alle porte della Cina, per cingere d’assedio il gigante asiatico ed incunearsi in una zona strategica con l’obiettivo di impedire alla stessa Cina ed alla Russia (ora nuovamente temuta da Brezinski e dagli americani) di integrarsi reciprocamente, come di fatto sta avvenendo nell’ambito dell’inedita alleanza militare di Shangai (S.C.O.). E, laddove non è più possibile instaurare governi direttamente rispondenti a Washington, secondo la linea di Obama-Brezinski bisogna comunque e prima di tutto seminare confusione e provocare scontri inter-religiosi, cosa ben possibile sia in Egitto che in Siria, data la presenza di ampie comunità cristiane al fianco di maggioranze musulmane: è la cosiddetta geopolitica del caos.

Due sono i momenti che segnano simbolicamente la svolta di Obama-Brezinski: il primo è costituito dal discorso del Presidente americano pronunciato dinanzi all’Università islamica Al-Azhar del Cairo il 4.6.2009, in cui Obama ha parlato di un “nuovo inizio” nei rapporti tra occidente e islam.
E un “nuovo inizio” c’è stato per davvero, dato che, a partire da quel momento, gli Stati Uniti (d’intesa con la Gran Bretagna), al fine di perseguire l’obiettivo di attuare il regime change nei Paesi non ad essi allineati, hanno sostituito la tecnica della tradizionale guerra d’invasione con l’impiego di milizie di mercenari irregolari addestrati e motivati proprio con il valore unificante dell’islamismo radicale!

Il secondo momento simbolico che ha segnato il passaggio da una strategia ad un’altra è rappresentato dalla clamorosa messinscena, celebrata il 2 maggio 2011, della finta cattura e uccisione dell’orco cattivo Osama bin Laden, dichiaratamente sepolto nei fondali marini dell’oceano indiano giusto al fine di sottrarlo agli occhi indiscreti dei più scettici.

Come in tutte le migliori fiction televisive americane, la saga della “guerra al terrorismo islamico” non poteva dunque che concludersi, per soddisfare le aspettative del grande pubblico televisivo, con la cattura e l’uccisione del capo dei capi, finalmente sistemato a dovere [8].

Nella destabilizzazione di Libia e Siria, pertanto, si è segnalato e si sta segnalando un impiego abbondante e decisivo, da parte degli USA e dei loro alleati, di milizie islamiche reclutate nelle aree più depresse e arretrate dei paesi arabi, a cominciare dalla Cirenaica (est della Libia), dove quel “matto” di Mohammar Gheddafi non a caso aveva segnalato fin dai primi istanti della rivolta la presenza di cellule legate ad Al Qaeda!

Al contempo, nella retorica americana (e, conseguentemente, di tutti i nostri mass media) è quasi totalmente scomparso il pericolo del terrorismo islamico: il “Ministero della Paura” di orwelliana memoria ha recentemente trovato nella gravissima crisi capitalistica scoppiata nel 2007-2008 il nuovo argomento per traumatizzare e paralizzare le masse, potendo dunque mettere da parte il pericolo islamico.

Nell’opera di destabilizzazione della Siria (e della Libia) gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno trovato degli alleati solidissimi: in primis la Turchia di Erdogan, a cui nel nuovo scenario verrebbe affidato il compito di sub-potenza regionale, alimentandone i fasti e le ambizioni legate all’esperienza storica dell’Impero ottomano; in second’ordine, alla partecipazione dell’aggressione armata alla Siria ed al suo legittimo governo partecipa, con un ruolo di primo piano, un arco di forze legate da un collante ideologico-religioso fondato sull’islam radicale: i monarchi assoluti dell’Arabia Saudita e del Qatar (entrambi affiliati alla corrente salafita, per i quali il laico Bashar al- Assad è un governante “impuro” e “sacrilego”) stanno contribuendo al grande piano con un ingente apporto di finanziamenti e, quanto all’emiro del Qatar, anche con il decisivo apporto mediatico fornito da Al Jazeera, network pan-arabo che ha sempre sostenuto, fin dal primo istante, le cosiddette rivolte arabe. A quest’arco di forze aggressive, inoltre, si lega l’azione politica dei Fratelli Musulmani (da poco insediatisi ai vertici del potere egiziano e anch’essi largamente supportati dagli americani) e del movimento palestinese integralista Hamas, il cui gruppo dirigente, non a caso, ha abbandonato il suo storico quartier generale di Damasco mettendosi sotto la protezione di Turchia e Qatar.

Nello scenario descritto, la Siria di Bashar al-Assad deve necessariamente essere destabilizzata per fare posto ad un nuovo governo egemonizzato da islamisti radicali proni agli interessi della Turchia e dell’occidente. Non può esserci più posto per l’ultimo governo ispirato da principi di nazionalismo laico e pan-arabo di derivazione nasseriana.

Assad deve andarsene!” pronunciano all’unisono tutti gli autori dell’intrigo contro la Siria [9], senza ormai nemmeno preoccuparsi di salvare l’apparente conservazione dei principi più basilari del sistema di diritto internazionale, che con l’art. 2 della carta fondativa dell’O.N.U., dovrebbe fare sempre salvo il principio di sovranità delle nazioni (senza che su tanto possa minimamente influire la particolare forma di governo o il tipo di organizzazione politico-istituzionale da esse sposate).

Un ultimo accenno, doloroso e davvero deprimente, meritano le parole del Ministro (o ambasciatore?) Terzi del nostro governo coloniale a guida Mario Monti.

Giulio Terzi di Sant'Agata, forse confondendo il ruolo di titolare di dicastero di un governo di un Paese sovrano - come è (o dovrebbe essere) l’Italia - con quello di mero portavoce di governi stranieri, ha dichiarato ineffabilmente, a margine degli attentati di Damasco del 18 luglio in cui sono morte personalità di primo piano di un altro governo sovrano di una nazione aderente alla comunità internazionale, che deve essere Assad a fare le valigie (e non i terroristi islamisti che seminano morte e terrore per tutta la Siria), senza spendere una sola parola di condanna per gli autori di un attentato che dovrebbe imbarazzare non poco tutti i Paesi che stanno impunemente lavorando alla distruzione di una nazione pacifica, multi-religiosa e multi-culturale come è la Siria.


Come siamo caduti in basso! E’ triste notare come al dicastero che un tempo fu occupato da Pietro Nenni e Aldo Moro, ora siede un mero portavoce del Dipartimento di Stato americano.




Note

[1] Thierry Meyssan (Réseau Voltaire), La battaglia di Damasco è iniziata, 19 luglio 2012, in http://aurorasito.wordpress.com/2012/07/19/la-battaglia-di-damasco-e-iniziata/


[2] Per la terza volta in pochi mesi, il 19 luglio scorso la Russia e la Cina sono tornate ad opporre il diritto di veto ad una bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che contemplava l’uso di maniere forti contro Damasco.

[3] Il Council of Foreign Relations è considerato uno degli organismi più decisivi nello studio e nella definizione delle strategie globali della potenza statunitense (http://www.cfr.org/)

[4] I bene informati sanno che lo sceicco Osama bin Laden ha lavorato fin dai primi anni ’80 del Novecento al servizio della C.I.A., che gli affidò il compito di formare un esercito di combattenti islamici col fine di destabilizzare l’Afghanistan allora occupata dall’esercito sovietico. Successivamente, negli anni ’90, diversi testimoni, tra cui Giulietto Chiesa, hanno ricostruito un ruolo analogo dello stesso bin Laden all’interno del conflitto jugoslavo, dove lo sceicco saudita avrebbe collaborato a creare delle milizie islamiche contigue al Presidente bosniaco musulmano Alija Izetbegović. Per un “assaggio” visivo dei mujahideen arabi operanti a suo tempo in Bosnia, cfr. http://www.youtube.com/watch?v=vFsfCD4Z_RQ&feature=youtu.be.

[5] Il testo più completo tra quelli che approfondiscono l’interpretazione “dietrologica” degli eventi dell’11 settembre 2001 è quello scritto dall’analista americano Webster Griffin Tarpley, “La fabbrica della menzogna”, pubblicato in Italia da Arianna Editrice.

[6] I fallimenti più clamorosi degli obiettivi strategici connessi alle guerre di Afghanistan ed Iraq sono stati i seguenti: nel primo caso, l’insediamento delle truppe di occupazione non ha comunque impedito ai Paesi dell’area asiatica post-sovietica (Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tagikistan, Uzbekistan) di integrarsi nella inedita alleanza militare con Russia e Cina, la S.C.O., cosiddetta “NATO dell’Est” (http://www.sectsco.org/); nel caso iracheno, gli USA, nonostante le apparenze, non sono riusciti a mettere propriamente le mani sul petrolio, mentre, con l’avvento della componente sciita al governo di Baghdad, si è dato spazio ad una influenza iraniana sull’Iraq impensabile fino a pochi anni fa.

[7] Per una biografia “unauthorized” di Obama, cfr. Webster Griffin Tarpley,Obama dietro la maschera. La strategia dell'illusione: golpismo mondiale sotto un fantoccio di Wall Street”,  2011, Fuoco Edizioni.

[8] In realtà, moltissime testimonianze sembrano accreditare la tesi secondo cui bin Laden fosse morto al più tardi nel 2006, come pure asserito dall’ex Presidente pakistana Benazir Bhutto in una delle sue ultime apparizioni televisive (cfr. www.youtube.com/watch?v=L2Twb8WwD1U).

[9] Cfr. Alessandro Lattanzio, “Intrigo contro la Siria. La Siria Baathista tra geopolitica, imperialismo e terrorismo”,  edizioni Anteo.





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