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martedì 3 luglio 2012

PER UNA PROPOSTA POLITICA DI SINISTRA SULLA SANITÀ di Riccardo Achilli




di Riccardo Achilli 




Quale modello vogliamo?

La sanità pubblica italiana è il settore in cui non si fa in tempo a metabolizzare uno scandalo che se ne verifica un altro, oppure se non si tratta di scandali si tratta di bislacche, e spesso orrende, “sperimentazioni”, alle spese del contribuente medio, come l’ASL di Milano che sta lanciando una vergognosa “sperimentazione” per la “cura” dell’omosessualità (sic).
Il tema della sanità e delle politiche socio-assistenziali è centrale per disegnare una piattaforma politica della sinistra. Non solo perché la salute è un bene pubblico essenziale, ed appartiene a quelle “capacitazioni” di base senza il cui accesso paritario per tutti i cittadini non è possibile costruire una società egualitaria, nell’approccio di economia del benessere di A. Sen, ma anche perché nel futuro la domanda di salute nel nostro Paese, come in tutta Europa, sarà destinata a crescere inevitabilmente, se, come ci segnala l’Istat, la popolazione con 65 anni e più, che oggi rappresenta il 20,3% del totale, arriverà al 33,1% nel 2050, e gli ultraottantacinquenni passeranno dall’attuale 2,8% al 7,6%.
Il dibattito su quale modello sanitario si voglia per il futuro, e quale la sinistra intenda promuovere, è come al solito passato sotto silenziatore, nonostante l’importanza fondamentale che la sanità riveste per i cittadini, e sempre più rivestirà in una società di anziani, ed in cui, complici le riforme della Fornero, si andrà in pensione sempre più tardi. Come spesso avviene in tale settore, quindi, sono gli scandali a promuovere una riflessione su questo tema, che però è il perno di qualsiasi risposta alla cruciale domanda “quale welfare vogliamo?”
Lo scandalo, in particolare, riguarda l’inchiesta recente della Gdf, che ha smascherato irregolarità di fatturazione delle prestazioni da parte di medici che praticavano l’intramoenia, ovvero questa modalità tramite cui i medici operanti i strutture pubbliche possono, utilizzando tali strutture, anche esercitare l’attività privata libero professionale, previo pagamento alla strutture pubblica di una quota dei loro ricavi.

Il modello ibrido italiano

E ciò ci ricorda un modo di approcciare i problemi delicati socialmente e politicamente che è tipico del nostro Paese, e che è fondamentalmente molto ipocrita.
La verità fondamentale, che nessuno osa dichiarare pubblicamente, è che nel nostro Paese si sta andando progressivamente in direzione di un modello sanitario privato, mutualistico, abbandonando quel sistema sanitario pubblico che, a dispetto di tante critiche (strumentalmente gonfiate) di “malasanità”, è ancora un modello di eccellenza, dal punto di vista dei benefici sociali che genera. Che si vada verso una sanità privatizzata è ovvio: troppi interessi economici ruotano attorno a tale settore, che in pratica sembra essere l’unico a non risentire degli effetti della crisi. Una quota importante della classe imprenditoriale italiana, in larga misura incapace di competere su mercati privati, da sempre vivacchia su mercati pubblici protetti, mediante reti di consociativismo politico/finanziario. E la sanità sembra essere il settore ideale in cui attivare questo modello di economia privata che si regge sulla domanda pubblica. Tanto che miriadi di immobiliaristi che hanno fatto i soldi con un altro bene pubblico, ovvero il diritto alla casa, oggi, esauritosi il ciclo del mattone, si gettano famelici sulla sanità.
Ed allora ecco che si realizza un sistema misto, in cui formalmente la sanità rimane pubblica, ma concede spazi, sempre più ampi, ai privati. Il modello italiano è infatti basato sui DRG (diagnosis-related groups) che suddivide i pazienti dimessi da strutture sanitarie per gruppi omogenei in base al costo dell’attività diagnostica e terapeutica erogata. Tale modello serve quindi per determinare il compenso pubblico erogabile, in regime convenzionale, al privato che ha assistito il paziente, ma anche per avere la base metodologica per la determinazione dell’ammontare dei ticket sulla specialistica, ovverosia della compartecipazione dell’assistito al costo della prestazione specialistica erogatagli dalla struttura pubblica o privata convenzionata.
I numeri, d’altra parte, parlano chiaro. Il 21,5% dei 144 miliardi di spesa sanitaria italiana è privato; la spesa sanitaria privata, peraltro, è in crescita dell’8,1% fra 2007 e 2010, soprattutto nel comparto ambulatoriale (+11,1%) e ospedaliero (+8,1%). Ogni famiglia spende, per ragioni familiari, una media di circa 960 euro all’anno. La spesa per ticket, che poi è una forma parziale di tariffazione del servizio sanitario, quindi una maniera, seppur indiretta, di privatizzare parte della prestazione, raggiunge il valore complessivo di circa 4 miliardi nel 2011, in crescita forte dai 2,7 miliardi del 2009 (stime di Giuliani-Cislaghi, Agenas, 2012). La spesa sanitaria privata, oramai, raggiunge circa 3 punti di PIL, ed è  un business non solo per ex immobiliaristi, ma anche per pesi massimi del capitalismo italiano, come De Benedetti, ed ovviamente per la Chiesa cattolica.
La natura semi-privata del sistema sanitario italiano è anche attestata dalla spesa sanitaria pro capite nel 2007: rispetto alla spesa sanitaria pro capite pubblica, l’Italia è in quartultima in Europa, davanti soltanto a Spagna, Portogallo e Grecia (fonte: Ocse-Who). 

Di fatto, il modello sanitario italiano realizza una commistione fra sistema pubblico e privato. Nel sistema puramente pubblico, non esiste competizione di mercato. I costi del sistema sono fiscalizzati sull’intera comunità, nella logica solidaristica secondo cui l’intera comunità deve farsi carico dei suoi soggetti svantaggiati. Poi può anche esistere il servizio privato, per chi ha voglia di spendere per avere un trattamento diverso da quello offerto dal pubblico, ma senza che il secondo eroghi compensazioni, o travasi il suo personale (come nel caso dell’intramoenia) sul primo. I soldi ed il personale sanitario del sistema pubblico sono intoccabili, e devono essere utilizzati solo per garantire il servizio pubblico migliore possibile per tutti.
E’ quindi chiaro che il modello misto italiano è già un passo avanti verso l’abbandono di una sanità pubblica, e costituisce probabilmente la premessa per una completa privatizzazione: l’utente è già tenuto a pagare, tramite i ticket, una tariffa per le prestazioni ed i farmaci; i finanziamenti pubblici del Fondo Sanitario Nazionale coprono, in parte, i costi di gestione dei privati, incentivando quindi lo sviluppo del mercato privato della salute a spese del contribuente; i medici che operano nel sistema pubblico vengono incentivati ad utilizzare le ore che dedicano all’ospedale pubblico soltanto al fine di catturare clientela da trasportare, tramite l’intramoenia, in più lucrose prestazioni libero professionali.



Modello di sanità pubblica vs modello di sanità privata: un confronto

Qual è la giustificazione principale di tale sistema, addotta dai suoi interessati cultori? Che consente al pubblico di risparmiare, perché la quota non convenzionata della prestazione erogata dal privato non ricade sul pubblico, come avverrebbe se la prestazione fosse da quest’ultimo interamente erogata, e peraltro i privati, essendo più efficienti, riescono ad avere costi inferiori rispetto alle stesse prestazioni erogate dal pubblico.
Siamo sicuri che le cose stiano così? Il sistema sanitario statunitense è, ancora oggi, il più privatizzato del mondo, nonostante le flebili riforme di Obama, peraltro ancora non operative, perché sottoposte a procedure giudiziarie attivate da alcuni governatori di Stati. Ebbene, l’efficienza del sistema sanitario americano è pessima.  Il rapporto 2011 della Organizzazione Mondiale della Salute dell’ONU ci dice che gli USA, nel 2008, spendono il 15,2% del PIL in spese sanitarie; con una spesa per abitante pari a 7.164 dollari espressi in parità di potere di acquisto. La media dei Paesi ad alto reddito è pari, rispettivamente, all’11,1% del PIL ed a 2.589 dollari pro capite.
Si tratta quindi di una spesa elevatissima, prevalentemente privata: la quota di spesa sanitaria pubblica negli USA, infatti, è pari ad appena il 47,8% del totale, a fronte del 62,2% della media dei Paesi ad alto reddito.
Ed i risultati sono a dir poco scadenti: la speranza di vita media alla nascita, negli USA, è pari a 79 anni, a fronte degli 80 anni della media della fascia dei Paesi ricchi; il tasso di mortalità infantile è pari al 7 per mille, a fronte del 3 per mille italiano; la probabilità di morire giovani (fra i 15 ed i 60 anni) è di 106 per mille, a fronte dell’88 per mille della media dei Paesi ricchi.
Viceversa, nei Paesi a sanità totalmente pubblica, come Cuba, si registrano dati di spesa inferiori alla media dell’area e risultati migliori in termini di salute del cittadino: ad esempio Cuba ha solo un 12% di spesa sanitaria rispetto al PIL, un valore ben più basso del 15,2% statunitense, ma una speranza di vita alla nascita di 78 anni, di ben dieci anni superiore alla media della fascia dei Paesi a reddito medio-basso, ed un tasso di mortalità infantile del 5 per mille, incomparabilmente inferiore al dato della fascia dei Paesi a reddito medio/basso (42 per mille) ed addirittura inferiore al dato statunitense (che come si ricorderà è del 7 per mille).
Ancora, la Croazia, che è il Paese europeo a più alta percentuale di spesa sanitaria pubblica (85% del totale) espone un dato di spesa sanitaria complessiva basso (7,8% del PIL, a fronte di una media europea dell’8,5%) nonché dei risultati sanitari molto buoni: la speranza di vita alla nascita è di cinque anni superiore alla media dei Paese della stessa fascia di reddito, e di un anno più alta della media europea; la mortalità infantile è pari a meno della metà del dato europeo.
Quindi, il dato di fondo è che i sistemi sanitari privatizzati sono molto meno efficienti rispetto a quelli pubblici: tendono a gonfiare la spesa sanitaria complessiva, a fronte di risultati, in termini di stato di salute della popolazione, meno soddisfacenti. Perché? I motivi sono ovvi. Nei sistemi sanitari privatizzati, la spesa complessiva viene gonfiata dall’esigenza del sistema di fare profitti: quindi si ordinano esami diagnostici non sempre utili, si tendono a replicare le visite specialistiche oltre ciò che sarebbe strettamente indispensabile, si prescrivono terapie più costose di quelle alternative. Lo stesso sistema delle assicurazioni sanitarie induce gli utenti a ricorrere al numero massimo di visite ed esami che la loro polizza consente, anche oltre ciò che sarebbe ragionevole rispetto al loro stato di salute. D’altra parte, le polizze assicurative per soggetti anziani o affetti da patologie sono particolarmente costose (perché devono ripagare un maggiore esborso probabilistico da parte della compagnia) e ciò ovviamente tende a far crescere la spesa complessiva per la sanità. Infine, i sistemi sanitari privatizzati non hanno alcun incentivo a spingere per maggiori investimenti in prevenzione primaria.
D’altro canto, in tali sistemi i risultati in termini di stato di salute della popolazione sono compromessi dall’esigenza di comprimere i costi da parte dei soggetti privati (per cui, a parità di tariffa e di Drg, lo stesso percorso diagnostico e terapeutico tenderà ad essere meno “ricco” e completo di quello offerto da un soggetto pubblico privo dell’esigenza di fare profitti) e dal semplice fatto che una quota importante della popolazione (la popolazione più povera, generalmente quella che ha la maggiore frequenza di eventi patologici cronici, per via di stili di vita inadeguati) è estromessa dal sistema sanitario, perché non può permettersi di pagare la polizza assicurativa. Negli USA, il Paese più ricco del mondo, il 15% della popolazione non ha copertura assicurativa sanitaria, per cui se si ammala, a meno che non possa proprio evitarlo, cercherà in ogni modo di evitare qualsiasi ricorso al sistema sanitario, spesso quindi aggravando a dismisura stati patologici non affrontati in tempo. Ciò si riflette in un particolare tipo di diseguaglianza distributiva, forse il tipo più grave, perché non incide sulla possibilità di comprarsi l’automobile nuova o di andare in vacanza a Rimini, ma sulla stessa vita delle persone. Chi è povero statisticamente muore prima e vive in condizioni di salute peggiori di chi è ricco.
Il liberista con il pelo sullo stomaco potrebbe obiettare però che il sistema privato consente di realizzare economie sul bilancio pubblico, e di non alzare la pressione fiscale per finanziare la sanità di Stato, cosa che notoriamente ha effetti depressivi sulla crescita economica. Si tratta di una osservazione solo apparentemente vera, ed in realtà fallace. Tralasciando il dibattito teorico sull’impatto del sistema fiscale sulla crescita, ed in particolare gli evidenti fallimenti, in termini di andamento dei saldi di bilancio pubblico e di produttività totale dei fattori, che le ricette di Laffer (meno tasse sui redditi medio/alti e meno spesa pubblica) hanno generato quando sono state applicate con la reaganomics, siamo sicuri che tale obiezione sia fondata?

Intanto, i sistemi sanitari privati generano, come si è visto, una maggiore spesa complessiva per la salute. La spesa sanitaria, normalmente, attraverso le deduzioni e detrazioni sulle imposte per i redditi per le spese sanitarie sostenute, riduce il gettito fiscale per le imposte sui redditi. Certo, produce utili per il business sanitario privato, ma tali utili, tassati con l’imposta sulle società, generano un impatto fiscale meno rilevante di quello garantito dall’imposta sui redditi: in Italia, il gettito di quest’ultima è mediamente pari a 1,3 volte quello delle imposte sugli affari (MEF, 2011). Quindi la sanità privata, gonfiando la spesa, genera un effetto di reddito negativo sul versante del gettito fiscale.
Inoltre, come si è visto, la sanità privata genera effetti meno soddisfacenti rispetto a quella pubblica sul versante dei risultati, in termini di stato di salute della popolazione. E ciò ha effetti negativi sulla crescita, e quindi, nuovamente, sul gettito fiscale e sulle finanze pubbliche. Secondo Jamison (2004), per ogni punto percentuale di aumento del tasso di sopravvivenza degli adulti, il PIL, nei Paesi sviluppati, cresce di 0,2 punti. In base a tale stima, se l’Italia avesse un sistema sanitario totalmente privatizzato, e quindi un tasso di sopravvivenza pari a quello statunitense, cioè avesse un tasso inferiore di 4,7 punti rispetto a quello attuale, perderebbe circa 0,9 punti di PIL, e quindi, in base all’attuale pressione fiscale, si verificherebbe una perdita di gettito fiscale pari a 6,7 miliardi di euro all’anno. Addirittura, secondo lo studio di Bloom e Canning (2005) ogni riduzione di un punto del tasso di sopravvivenza comporta una contrazione di 2,8 punti della produttività del lavoro, e quindi, se l’Italia scendesse a tassi di sopravivenza analoghi a quelli degli USA, a causa del completamento del processo di privatizzazione del suo sistema sanitario, il bilancio pubblico italiano soffrirebbe di una riduzione di 1,5 punti di PIL, quindi subirebbe una contrazione di 10,7 miliardi all’anno nel gettito fiscale!
Questa perdita di gettito, combinata con l’effetto-reddito negativo di cui sopra (e legato alla maggiore spesa indotta dai sistemi sanitari privati) rende molto meno appetibile il risparmio, in termini di spesa pubblica, di abbandonare la sanità al mercato. E peraltro ostacola anche la crescita dell’economia.  Quindi, in realtà, chi canta le lodi della sanità privata in termini di contributo alla crescita sta mentendo: in realtà la sanità privata apre opportunità di business in certi settori (farmaceutico, ambulatoriale, ospedaliero, assicurativo, ecc.) ma, a livello globale dell’intero sistema economico, danneggia la sua crescita complessiva, poiché non raggiunge gli stessi risultati della sanità pubblica, in termini di stato di salute della popolazione, e ciò danneggia la produttività del lavoro (e quindi indirettamente anche la crescita ed il gettito fiscale).

Una possibile proposta di sinistra sulla sanità italiana

Per quanto sopra, quindi, credo che una piattaforma di proposta politica sulla sanità, da parte di una forza politica di sinistra, non potrebbe che battersi per contrastare questa deriva verso una progressiva privatizzazione, e quindi contro le caratteristiche miste, spurie, del sistema sanitario italiano. In particolare, una simile piattaforma dovrebbe, a mio parere:

A) Battersi per la cancellazione totale dei ticket su farmaceutica, specialistica e per il pronto soccorso, chiedendo che il relativo costo venga fiscalizzato. Come si è detto, l’incasso da ticket dovrebbe essere, al 2011, di circa 4 miliardi di euro. Secondo una recente stima della CGIL, una imposta patrimoniale sul 5% di italiani con ricchezze patrimoniali superiori agli 800.000 euro potrebbe generare un gettito annuo pari a 18 miliardi: quanto basta sia per coprire il mancato gettito dei ticket abrogati, sia per coprire, in larga misura, il maggior fabbisogno finanziario per la gestione del sistema sanitario, stimato in 17 miliardi aggiuntivi per il 2015. I restanti 3 miliardi potrebbero essere reperiti da un incremento di 2,3 punti dell’aliquota Irpef per lo scaglione più alto di reddito (oltre i 75.000 euro di reddito annuo; stima effettuata dallo scrivente sulla base dei dati Bankitalia sui bilanci delle famiglie italiane 2010).
Tra l’altro, è necessario anche chiarire che i ticket hanno fallito nel loro scopo teoricamente più importante, ovvero quello di calmierare la spesa sanitaria: la riduzione del 12,5% della spesa farmaceutica fra 2007 e 2011 non può essere collegata realisticamente con l’introduzione del ticket sulla farmaceutica nel 2011, atteso che il trend discendente era in atto già prima di tale introduzione, ed è invece probabilmente legata alla crisi economica, che ha ridotto la propensione a consumare farmaci non indispensabili; viceversa, sulle prestazioni specialistiche, che hanno un ticket già dal 1993, esteso nel 2006, si registra un incremento di spesa sanitaria del 19% circa fra 2008 e 2011, nonostante il ticket. Logicamente, l’effetto deterrente del ticket su spese che riguardano la salute e la vita dei soggetti è molto modesto: se sto male e mi devo curare, farò un sacrificio ma la prestazione sanitaria, anche affetta da un ticket, la comprerò; al limite risparmierò su altre spese, non su quelle per la mia vita ed il mio benessere. Il vero anello che consente al sistema di evitare spese farmaceutiche o specialistiche inutili è il medico, che deve essere formato e sensibilizzato ad evitare prescrizioni superflue, o a scegliere sempre fra la prescrizione meno costosa, quando ha la possibilità di scegliere.
Tra l’altro, il ticket è anche affetto da distorsioni nell’importo, fra le varie regioni, che non hanno alcuna razionalità economica e che creano iniquità territoriali: ad esempio, il cittadino piemontese paga un ticket farmaceutico pari a 2 euro a confezione; il siciliano paga da 2 a 4 euro. Sulla specialistica, il cittadino friulano paga 46 euro a prestazione, il calabrese 56 euro, il tutto nonostante il fatto che i servizi sanitari offerti in Calabria o Sicilia siano mediamente di peggiore qualità rispetto a quelli offerti in Piemonte o in Friuli Venezia Giulia. Le esenzioni sono un’altra giungla di regole diverse da regione a regione: in Calabria, i redditi fino a 12.000 euro sono esenti da ticket, mentre in Puglia no. Tutto ciò incide in modo grave sull’equità del sistema e sulla parità di accesso alla sanità da parte di tutti i cittadini.

B) Riperimetrare la sanità privata, rivedendo i regimi convenzionati e di intramoenia. Ovviamente non è pensabile realisticamente un ritorno “sic et simpliciter” ad una sanità totalmente pubblica. Tuttavia, il modello misto italiano genera costi occulti, non stimabili, che escono fuori ad ogni inchiesta giudiziaria che fa luce su spezzoni dei legami malsani fra politica e business privato (o ecclesiastico) e che generano una enorme corruzione e dilapidazione di denaro pubblico. E sarebbe quindi utile monitorare in modo serio le convenzioni ospedaliere private oggi in essere, per verificare che queste corrispondano effettivamente a servizi che il pubblico non offre per il bacino territoriale di riferimento della convenzione, o se invece non siano per specialità che fanno concorrenza (oltretutto sussidiata) al pubblico. In quel caso le convenzioni andrebbero annullate.
Rispetto al tema dell’intramoenia, va fatta chiarezza: è vero che le ASL guadagnano qualcosa dalla differenza fra costi e ricavi di tale sistema (circa 160-170 milioni all’anno, che peraltro sono in costante riduzione, perché i costi aumentano più rapidamente delle entrate; è del tutto prevedibile che ) però lo Stato investe notevoli quattrini nelle spese per l’adeguamento funzionale delle strutture destinate a tale attività, quindi il saldo finanziario netto è negativo. Inoltre è poco chiaro il motivo per il quale i medici dovrebbero esercitare l’attività libero professionale in strutture pubbliche. Perché è un modo per il pubblico per evitare di pagarli di più? Ma che senso ha questo ragionamento? Nessuno impedisce al medico pubblico, dopo il suo orario istituzionale, di esercitare attività libero professionale, ma perché farlo usufruendo di spazi e servizi pubblici che potrebbero invece essere destinati al miglioramento del servizio pubblico? Tra l’altro, non è neanche vero che il differenziale di stipendio fra pubblico e privato priverebbe il pubblico dei migliori luminari: tutti sanno che per il luminare, il fatto di esercitare nella struttura pubblica è fondamentale proprio per crearsi il suo bacino di utenza da convogliare nello studio privato. Quindi sarebbe ora di smetterla con false contrapposizioni fra pubblico e privato.

C) investire con decisione nella prevenzione.  Le regole di utilizzo del fondo sanitario nazionale prevedono che il 5% del 98% di questo fondo sia destinato alla prevenzione. Tuttavia, tale regola non viene ottemperata, per cui oggi, in Italia, la spesa per prevenzione è pari soltanto allo 0,8%. Eppure, gli studi internazionali (cfr. Meridiano Sanità in proposito) evidenziano tutti come per ogni euro investito in prevenzione primaria, si generino tre euro di risparmio sulla spesa sanitaria. In Italia, 9 miliardi aggiuntivi di spesa in prevenzione genererebbero 26 miliardi di risparmio complessivo, ovvero un risparmio netto di 17 miliardi (quanto basterebbe per coprire il gap di spesa sanitaria rispetto ai fabbisogni stimato da qui al 2015, senza sborsare un euro in più dal pubblico bilancio). Da questo punto di vista, anziché fare risparmi inutili, che si riverberano sulla qualità della vita, come la riduzione dei presidi territoriali di guardia medica, tali presidi potrebbero essere rilanciati per svolgere una funzione di sensibilizzazione e promozione della prevenzione. E’ utile ricordare che i sistemi sanitari privati sono pessimi nel diffondere la cultura della prevenzione (per il semplice fatto che se la gente si ammala di meno, il business sanitario privato perde soldi) e quindi anche per ciò serve avere un sistema sanitario prevalentemente pubblico.

Sono proposte radicali? Forse. Però a chi teme troppo radicalismo, sarebbe il caso di ricordare che lo stesso Presidente della Corte dei Conti, notoriamente un bolscevico, in occasione della presentazione dei dati sull’esercizio 2011 del Ssn, ha dichiarato che “a differenza di ciò che magari accade in altri settori, in quello sanitario la validità di una gestione non può essere sempre affermata solo sulla base di conti che quadrano (quando quadrano…), ma va vista anche e soprattutto in funzione dell’interesse pubblico sostanziale perseguito (tutela della salute)” e inoltre che “sarà bene, che si faccia anche una attenta riflessione sulle possibili conseguenze negative che una eccessiva contrazione delle risorse potrà avere sul funzionamento del sistema e sull’adeguato mantenimento dei livelli essenziali di assistenza” ed inoltre, ha detto che “non è possibile pensare di utilizzare i ticket all’infinito”. Evidentemente, quindi, il tema esiste.



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