di Riccardo Achilli
Mentre l’intero interesse
dell’opinione pubblica viene concentrato su fasulle politiche per una fasulla
fuoriuscita dalla crisi del debito sovrano, in questi giorni, nella più totale
indifferenza del peggior Governo della storia repubblicana (peggiore anche
rispetto ai Governi Berlusconi, peggiore del Governo Tambroni-Scelba) si
consuma forse l’atto finale della lunga crisi di un settore portante della
nostra industria: la siderurgia.
A Taranto una inutile bonifica ambientale,
fatta perlopiù di interventi annunciati anni fa e mai realizzati quando era (forse)
utile farlo, consente a vertici politici e sindacali, azienda, società civile
di tornare a mettere la testa sotto la sabbia, evitando di sfruttare
l’occasione per fare un revamping strutturale dell’impianto, che consenta di
risolvere definitivamente il problema ambientale e collocare lo stabilimento
alla frontiera tecnologica del settore, rendendolo competitivo con le realtà
più avanzate. Mentre intanto il gruppo Riva accusa perdite di esercizio
preoccupanti (con un risultato di esercizio negativo per 614 Meuro nel 2009-2010,
solo in parte compensato da un utile di 327 Meuro nel 2011, mentre le
previsioni per il 2012 appaiono nere, con una fermata di alcuni impianti, a
Taranto, già effettuata per motivi di mercato a giugno, prima cioè del
sequestro operato dalla magistratura) e scende costantemente nella graduatoria
dei maggiori produttori mondiali di acciaio, in un settore in cui le dimensioni
contano e le economie di scala sono un fattore competitivo strategico.
A Piombino l’acciaieria ex
Lucchini, rilevata nel 2005 dalla russa Severstal, emette gli ultimi rantoli di
una lunghissima agonia, rispetto alla quale la politica, nazionale e regionale,
non ha trovato niente di meglio, per oltre 15 anni, che sedersi ed aspettare
gli eventi. Il periodo concesso dal tribunale per il piano di ristrutturazione
del debito aziendale si conclude questo mese, e non vi è stato alcun acquirente
pronto a rilevare lo stabilimento, da cui l’azienda controllante si sta
chiaramente disimpegnando. 2.000 operai hanno sfilato a fine luglio, per
difendere il loro lavoro ed il futuro della siderurgia italiana in un comparto
strategico come quello dei prodotti lunghi, nel più assordante silenzio degli
organi di stampa e del Paese. Penso in queste ore con angoscia agli ex colleghi
piombinesi con cui lavorai oltre 10 anni fa, che non sanno cosa ne sarà della
loro vita. Stiamo per perdere un impianto che produceva prodotti ad alto
contenuto di know how, rotaie speciali per treni TAV, vergella in acciaio
speciale per usi particolari (ad esempio il wire rod for tyres) ecc.
Adesso i soliti, anche a
sinistra, diranno che il ciclo produttivo siderurgico a ciclo integrale è
obsoleto, che non può più reggere alla concorrenza cinese, indiana o russa,
basata su costi di produzione più bassi, che l’aumento del prezzo delle materie
prime associato al rallentamento della domanda globale è un mix fatale, che la
siderurgia italiana è penalizzata dall’assenza di giacimenti di ferro e
carbone, qualche sciocco forse tirerà fuori la vecchia e fasulla storiella che
i nuovi materiali sostituiscono l’acciaio (ciò è vero grosso modo per il 10%
delle applicazioni possibili dell’acciaio, in realtà).
Ebbene io sostengo che questo mix
di argomenti è grosso modo erroneo. Non perché molte di queste cose non siano
vere, ma perché non sono determinanti nel creare una crisi generalizzata come
quella attuale. Perché l’acciaio a ciclo integrale tedesco, dove i costi del
lavoro sono alti, e che affronta lo stesso scenario di mercato di quello
italiano, non è così in crisi? Non può mica essere attribuito ai giacimenti di
lignite, peraltro quasi esauriti, della ex DDR, o soltanto ad un costo
dell’energia effettivamente più basso di quello italiano. Perché la siderurgia
a ciclo integrale giapponese, altro Paese ad elevato costo del lavoro, non
subisce la stessa crisi?
La verità è che questa situazione
discende dalle sciagurate privatizzazioni dell’ILVA effettuate nel 1993-95 dai
Governi Ciampi, Berlusconi e Dini, con l’attiva collaborazione dei Presidenti
dell’IRI, di allora, ovvero Romano Prodi e Michele Tedeschi, sotto l’ombrello
del cosiddetto “patto Andreatta-Van Miert”, che fu una vera e propria cessione
di sovranità nazionale nelle politiche industriali italiane a favore della
tecnocrazia liberista comunitaria, legata ad interessi economici del
capitalismo internazionale, voglioso di papparsi i pregiati bocconi industriali
delle partecipazioni statali italiane, cui ovviamente la borghesia italiana di
piccolo cabotaggio si precipitò immediatamente, per raccogliere le briciole.
Così, senza alcuna logica
economica ed industriale, ed esclusivamente per accontentare pro quota tutti
gli interessi privati in gioco, l’ILVA, che unitariamente era il settimo
produttore mondiale di acciaio, e godeva delle economie di scala e delle
sinergie produttive e commerciali derivanti dalla sua unitarietà, venne
spezzettata in tre tronconi, corrispondenti alle sue tre divisioni industriali
(prodotti piani, prodotti lunghi, acciai speciali). Quest’ultima divisione, la
più avanzata tecnologicamente e la più interessante in termini di mercato ed
economici, venne ovviamente ceduta agli interessi capitalistici esterni al
Paese, vendendo l’acciaieria di Terni ai tedeschi della Thyssen Krupp. Le altre
due divisioni, quasi interamente imperniate su stabilimenti a ciclo integrale
(Taranto, Piombino, Servola, Cornigliano, ecc.) vennero vendute, per un piatto
di lenticchie (si stima che l’acquisizione della divisione prodotti piani, per
1.740 miliardi di lire, costò a Riva un decimo del suo effettivo valore
economico, posto che tale divisione fatturava circa 13.000 miliardi di lire
all’anno, e quest’ultimo si rifiutò anche di pagare il prezzo concordato,
avviando un lungo processo giudiziario) a due imprenditori lombardi del settore
dell’acciaio elettrico (un settore che presenta problematiche impiantistiche,
produttive, organizzative e commerciali completamente diverse da quelle del
ciclo integrale).
In questo modo, una realtà
produttiva che, unitariamente e sotto il controllo dello Stato, aveva chiuso il
suo ultimo bilancio di esercizio in utile (487 miliardi di lire distribuite
all’azionista-Stato nel 1995, al netto di un accantonamento enorme al fondo
rischi, effettuato esclusivamente in vista della privatizzazione, di 453
miliardi) venne trasformata in uno spezzatino, perdendo, come si è detto, le
economie di scala e le sinergie di cui il gruppo aveva goduto, e le ex
divisioni prodotti piani e prodotti lunghi vennero messe in mano ad
imprenditori privi di esperienza nella gestione di stabilimenti a ciclo
integrale. Nel periodo in cui lavorai nello stabilimento di Piombino ricordo
bene la girandola di direttori della produzione nominati da Brescia e subito bruciati,
l’arroganza e la supponenza con cui i bresciani trattavano i lavoratori
piombinesi ex ILVA, gli unici che avrebbero potuto insegnare loro come gestire
una realtà complessa come Piombino, la sconfitta storica nella gara delle
forniture di rotaie per treni ad alta velocità di Trenitalia nel 1997, vinta
dall’austriaca Voest Alpine, nonostante i contatti politici di Lucchini, e così
via.
Questo capolavoro di
privatizzazioni che ha contribuito ad estinguere la siderurgia nazionale è
costato allo Stato 1.700 miliardi di lire di svalutazioni “ad hoc” degli
impianti dell’ILVA pubblica, effettuate ad arte dall’advisor dell’IRI, l’IMI,
per venire incontro agli acquirenti privati; 10.000 miliardi di lire di costi
legati ad operazioni di scissione e di messa in liquidazione delle attività
non-core dell’ILVA, una ulteriore favolosa cifra per il prepensionamento di
circa 14.000 lavoratori siderurgici espulsi all’atto della privatizzazione, a
fronte di ricavi da privatizzazione ridicoli (600 miliardi per Terni, 1.460
miliardi per Taranto, una cifra analoga per Piombino).
Di fatto, la imminente chiusura
dello stabilimento di Piombino, e le difficoltà economiche di Taranto, sono
principalmente il frutto di quella privatizzazione, che consegnò un’azienda
artificiosamente spezzettata in tre tronconi in mani sbagliate. Piombino, in
particolare, paga l’impossibilità, da parte di Severstal, che lo rilevò dopo il
sostanziale fallimento di Lucchini, di raddrizzare una situazione finanziaria e
di mercato oramai largamente compromessa dalla catastrofica gestione dei
bresciani e di porre rimedio all’esigenza di ammodernare un impianto obsoleto
con ingenti investimenti di revamping che i bresciani non avevano fatto. Riva
finora è riuscito a galleggiare solo perché sfrutta le economie di scala dello
stabilimento siderurgico più grande d’Europa e anche grazie a pingui vendite di
pezzi del patrimonio immobiliare dell’ILVA, degne più di un immobiliarista che
di un imprenditore dell’acciaio.
Ma il canto del cigno della
siderurgia a ciclo integrale italiana deriva altresì dalla totale assenza di
una politica industriale da parte del ragionier Monti, incapace di rimettere
urgentemente mano al settore in caduta verticale, rinazionalizzando gli
impianti o quantomeno predisponendo una programmazione pubblica a sostegno
della siderurgia nazionale. Il nuovo decreto
sulla “golden power”, che peraltro, rispetto alla precedente normativa
della golden share, non a caso contestata dai liberisti di Bruxelles al
servizio dei liquidatori dell’industria nazionale, prevede poteri di intervento
pubblici molto più limitati, non contempla nel suo perimetro di azione settori
di base portanti per la stessa sopravvivenza di un’industria nazionale, come la
siderurgia e la chimica di base. Nessuno si chiede come mai tutti i Paesi
manifatturieri del mondo mantengano e difendano una importante presenza nazionale
nei due citati settori (USA, Giappone, Cina, Germania, Francia, Corea del Sud,
persino l’India e l’emergente Brasile) mentre da noi il rag. Monti non sente la
necessità di proteggere tali settori. Nessuno si chiede quanto importanti
possano essere esigenze di prossimità geografica delle produzioni industriali
di base rispetto ai settori industriali utilizzatori, come sia importante
garantirsi la sicurezza della produzione e degli approvvigionamenti nazionali
in tali settori, da cui dipende l’attività produttiva dell’intera industria
manifatturiera, di quella delle costruzioni, e di numerosi settori del
terziario (i trasporti navali ed il settore portuale, ad esempio). Quando i
sindacati sono andati a discutere con il governo del dossier-Piombino, si sono
ritrovati a dover discutere con un sottosegretario! Un sottosegretario? Nessun
Ministro si è sentito in dovere di discutere della vicenda che rischia di
lasciare il Paese senza più una produzione siderurgica importante nei prodotti
lunghi, con un intero sottosettore produttivo che scompare? Nessuno capisce che
questa vicenda segna un passaggio determinante verso la stessa cessazione della
vocazione manifatturiera del nostro Paese?
L’unica soluzione oggi sarebbe
quella di una rinazionalizzazione di quel poco che resta della gloriosa storia
dell’acciaio nazionale, vero fulcro del miracolo economico italiano, o
quantomeno di una ripresa di programmazione pubblica di settore. Ma oggi,
persino una parte cospicua della sinistra appare rassegnata, per non dire quasi
felice, della fine di questa storia, ansiosa di potersi liberare, in nome di
una modernità idiota, degli ultimi segmenti di proletariato industriale (gli
unici ad avere un potenziale di lotta sociale propulsivo)cui non ha più niente
da proporre, e nei confronti dei quali si è sputtanata, proponendo
economicamente improbabili (ed ambientalmente impossibili) riconversioni delle
aree ex siderurgiche, verso i servizi (soprattutto il turismo, ma non manca
chi, cavalcando la moda, propone di riconvertirle verso la produzione di
energia rinnovabile o di servizi Ict, spuntano poi le consuete proposte di
costruire centri commerciali laddove c’erano gli altiforni) o verso
l’artigianato, legato ai servizi turistici e commerciali.
Occorrerebbe insegnare Marx ai bambini
della prima elementare, per spiegare a questo popolo rincoglionito da un mito
di modernità e di progresso nell’alveo del capitalismo terziarizzato, di
economisti raffazzonati e venduti, a
questa sinistra post moderna e post ideologica (che finisce spesso per
diventare anche post-sinistra) il ruolo fondamentale dell’industria per lo
sviluppo economico (che non a caso spiega i
miracoli della Cina, di Taiwan, del Brasile, e di altre economie
emergenti anche in passato) ed il ruolo sostanzialmente improduttivo e
redistributivo di gran parte delle
attività terziarie. Pensiamo ad un futuro in cui avremo solo camerieri,
commesse di negozio, viticoltori e produttori di formaggio, ed in cui lasceremo
ad altri la produzione di ricchezza reale? Non c’è futuro per i parassiti, nel
capitalismo. Per costoro, c’è solo il declino verso una povertà sempre
maggiore. Ognuno merita la nemesi che si è guadagnato.
E possiamo dire addio anche ai viticoltori ed ai produttori di formaggio.Quanto ai camerieri, la classe imprenditoriale italiana fa scuola.
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