di Norberto Fragiacomo
Di questi tempi si discute più volentieri di futilità (un esempio: le primarie alle cime di rapa) che di questioni serie: sarà per colpa dell’aria vacanziera portata da Caligola & co., dell’eccitazione diffusa dai cinque cerchi o del montismo spread, ma la cosa non ci piace granché. Soprattutto quest’atteggiamento svagato nuoce a coloro che, avendo il vento contro, non possono spacciare per idee gli sloganrilanciati da stampa e tivù e, ambendo a cambiare la situazione, non hanno modo di trovare comodo rifugio nella sua pretesa ineluttabilità.
Se la Sinistra - perché a loro ci riferiamo, cioè a noi - afferma: “there is an alternative (TIAN)”, ha poi l’onere di spiegare, ai potenziali sostenitori, in cosa essa consista. Scrivere un programma è complicato, lo so bene: richiede competenze, immaginazione, senso della misura e un pizzico di coraggioso utopismo.
Un “programma” non è un saggio, perché deve confrontarsi con la realtà quotidiana; ma non è manco una lista della spesa, in primis perché chi lo redige non può contare su risorse certe, in secondo luogo perché dai suoi estensori si pretende una coerenza di fondo, una visione a lungo raggio… e tanta, tantissima pazienza.
Pazienza? Sì: noi social-comunisti, per quanto vaste siano le nostre lacune, tendiamo a pensare “in grande”, a ricercare un personalissimo rimedio alle ingiustizie del mondo – e, di conseguenza, il confronto con l’altro ci infastidisce, lo consideriamo una perdita di tempo, se non peggio; ci rattrista specialmente l’idea che qualcuno possa mettere le mani sul nostro “prodotto intellettuale”, modificandolo, riplasmandolo, deturpandolo (?). Serve imporsi umiltà, dunque: soltanto attraverso la mediazione, e grazie al contributo di molti, è possibile forgiare una proposta che vada bene per una società umana, non solo per egolandia.
Un “programma” non è un saggio, perché deve confrontarsi con la realtà quotidiana; ma non è manco una lista della spesa, in primis perché chi lo redige non può contare su risorse certe, in secondo luogo perché dai suoi estensori si pretende una coerenza di fondo, una visione a lungo raggio… e tanta, tantissima pazienza.
Pazienza? Sì: noi social-comunisti, per quanto vaste siano le nostre lacune, tendiamo a pensare “in grande”, a ricercare un personalissimo rimedio alle ingiustizie del mondo – e, di conseguenza, il confronto con l’altro ci infastidisce, lo consideriamo una perdita di tempo, se non peggio; ci rattrista specialmente l’idea che qualcuno possa mettere le mani sul nostro “prodotto intellettuale”, modificandolo, riplasmandolo, deturpandolo (?). Serve imporsi umiltà, dunque: soltanto attraverso la mediazione, e grazie al contributo di molti, è possibile forgiare una proposta che vada bene per una società umana, non solo per egolandia.
Diamo allora avvio a questo brainstorming, a questa “tempesta di cervelli” che forse potrà produrre una pioggerella feconda, anziché estemporanee bombe d’acqua.
Da persona di modesta cultura giuridica, depositaria di basilari nozioni di economia politica, mi limiterò ad offrire alcuni spunti, al solo scopo di dare il la al dibattito.
Da dove partire?
Evidentemente da quello che, alle scuole elementari, definivamo “problema”, cioè dall’esposizione dei dati che introduce il quesito.
Evidentemente da quello che, alle scuole elementari, definivamo “problema”, cioè dall’esposizione dei dati che introduce il quesito.
La crisi, causata dalla finanza creativa anglosassone, sta mandando in malora l’Europa: il cavallo di troia è il debito pubblico, cresciuto quasi ovunque a causa dell’esigenza, imposta dalle “circostanze”, di salvare gli istituti bancari dal fallimento.
Come direbbe un bravo studente bocconiano, si implementano (dall’inglese to implement=attuare) nuove politiche, che mirano:
1) a concentrare la ricchezza rimanente, ridistribuendola a favore dell’elite;
2) conseguentemente, a moltiplicare le occasioni di guadagno per (cert)i privati, erodendo o piuttosto azzerando la spesa sociale (ospedali, scuole, servizi pubblici locali ecc.);
3) ad instaurare uno stato di emergenza permanente, in grado di giustificare la revoca dei diritti sociali e democratici.
Come direbbe un bravo studente bocconiano, si implementano (dall’inglese to implement=attuare) nuove politiche, che mirano:
1) a concentrare la ricchezza rimanente, ridistribuendola a favore dell’elite;
2) conseguentemente, a moltiplicare le occasioni di guadagno per (cert)i privati, erodendo o piuttosto azzerando la spesa sociale (ospedali, scuole, servizi pubblici locali ecc.);
3) ad instaurare uno stato di emergenza permanente, in grado di giustificare la revoca dei diritti sociali e democratici.
Un golpe “morbido” - ma non troppo, e non dappertutto -, organizzato dalle tecnocrazie finanziarie con l’ausilio dei politici di destra e dei sedicenti “riformisti” (in Italia il PD, e i quattro gatti nenciniani).
La strada è ormai segnata, e tanto le guide dichiaratamente conservatrici quanto quelle del fantomatico “centrosinistra” sanno il percorso a memoria: spetta a noi, antagonisti del sistema capitalista, rendere la via impraticabile, e condurre i pellegrini (lavoratori, pensionati, studenti, cittadini comuni, negozianti e piccoli imprenditori che, pur credendosi aquile, sono polli da spennare anche loro) all’agognato rifugio.
La ricchezza, dicevamo, si va polarizzando – e il processo non è iniziato nel 2008, ma almeno vent’anni prima.
Prendiamo l’IRPEF, l’imposta regina dell’ordinamento tributario italiano. Istituita nel 1973, a seguito di un riordino dell’imposizione fiscale, l’imposta sui redditi delle persone fisiche prevedeva, all’inizio, la bellezza di 32 (!) aliquote, che andavano dal 10 al 72%. Insomma, i poveri pagavano poco, le persone agiate - evasione a parte – parecchio. Oggi, quarant’anni dopo, di aliquote ne sono rimaste 5: la più bassa è pari al 23%, la più elevata al 43. Un parziale correttivo alla… progressiva omogeneizzazione del trattamento tra benestanti ed indigenti è rappresentato dalle deduzioni (sulla base lorda imponibile) e dalle detrazioni (sull’imposta da pagare) riconosciute a chi versa in situazioni particolari; presto, tuttavia, al presente toccherà sostituire l’imperfetto, visto che deduzioni e detrazioni sono nel mirino del Governo Monti, che accampa la solita scusa: fare cassa. Nel frattempo, non risulta sia stata accantonata l’idea di ridurre ulteriormente le aliquote, portandole a tre: al momento non ci sono i soldi per farlo, ma prima o dopo, confidiamo, le risorse si troveranno – per favorire i ricchi, questo ed altro.
Ora, si dà il caso che tutte queste semplificazioni puzzino di incostituzionalità – o siano perlomeno contrarie allo spirito della Carta fondamentale. L’IRPEF è, nei fatti, l’unica imposta progressiva [1] del nostro ordinamento fiscale: gli altri tributi hanno carattere proporzionale. Chiariamo il concetto: il banchiere ed il disoccupato che acquistano un paio di scarpe o un giocattolo in Italia pagano sempre il 21% di IVA sul prodotto, anche se il primo è milionario e il secondo, prima di mettere piede in negozio, ha dovuto impegnare l’orologio del nonno.
In pratica, è la progressività dell’imposta che assicura all’erario il maggior gettito - quella sui redditi delle persone fisiche - a garantire il (formale) rispetto dell’articolo 53 della nostra Costituzione, ai sensi del quale “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e, di conseguenza, “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. La perdita di aliquote va, quindi, nella direzione opposta a quella tracciata dai costituenti: un esecutivo di sinistra dovrebbe fare dietrofront, aumentando l’imposizione fiscale sui percettori di redditi elevati ed abbassandola drasticamente per i più poveri. E’ inconcepibile che chi guadagna più di 250 mila euro l’anno versi, sull’eccedenza, il 70 o il 75% al fisco, cioè alla collettività? Direi che, al contrario, sarebbe espressione di quel dovere inderogabile di solidarietà economico-sociale sancito dall’articolo 2 della Costituzione repubblicana, e riecheggiato dall’articolo 53. Una scelta politica siffatta consentirebbe di ridurre il divario tra le classi sociali, con benefici effetti sulla domanda aggregata.
Bisognerebbe poi reintrodurre l’imposta sulle successioni, anch’essa a carattere progressivo, furbescamente abolita da un precedente Governo Berlusconi. Stiamo parlando, in fondo, del tributo meno odioso ed ingiustificato, perché colpisce una manifestazione di capacità contributiva che non deriva dall’attività lavorativa svolta dal contribuente, bensì da quanto accumulato dalle generazioni passate. Per non penalizzare chi ha già poco, basterebbe fissare un imponibile minimo abbastanza alto (un milione di euro, ad esempio), e prevedere aliquote “importanti” per i patrimoni cospicui: in fondo, anche economisti non tacciabili di socialismo, come Amartya Sen, ritengono opportuna una sostanziale uguaglianza delle condizioni di partenza, che viene resa impossibile dalla presenza di ingiustificati accumuli di ricchezza.
Contrariamente a quanto asserito da Berlusconi (che ha dato voce alle convinzioni di milioni di professionisti, manager e imprenditori), è fondamentale per il benessere del corpo sociale che il figliolo dell’operaio abbia chance paragonabili a quelle del figlio del commercialista, per il semplice motivo che, come insegnano Confucio e Platone, non sempre le qualità morali ed intellettuali si trasmettono di generazione in generazione, e talvolta il figlio del contadino è più dotato del rampollo principesco.
Contrariamente a quanto asserito da Berlusconi (che ha dato voce alle convinzioni di milioni di professionisti, manager e imprenditori), è fondamentale per il benessere del corpo sociale che il figliolo dell’operaio abbia chance paragonabili a quelle del figlio del commercialista, per il semplice motivo che, come insegnano Confucio e Platone, non sempre le qualità morali ed intellettuali si trasmettono di generazione in generazione, e talvolta il figlio del contadino è più dotato del rampollo principesco.
Evitando il rischio di doppie imposizioni, sarebbe poi il caso di introdurre una patrimoniale stabile, anch’essa improntata a progressività; contemporaneamente – sempre in un’ottica di equità e di rilancio dell’economia – si dovrebbero abbassare le imposte indirette sui beni di largo consumo (IVA, accise sui carburanti ecc.).
Attuando intelligentemente misure come quelle descritte i redditi inizierebbero a riequilibrarsi, ferma restando la necessità di imporre dei tetti per mettere un freno a quelle che persino chi è incapace di invidia definirebbe “ingiustizie manifeste”[2] (peraltro caratteristiche ineliminabili del sistema capitalista, che monetizza l’essere umano).
Altro tema cruciale è quello del diritto al lavoro, consacrato dall’articolo 4 della Costituzione. I giuristi ammoniscono che, più che di un diritto soggettivo, siamo in presenza di un compito che la Carta assegna ai governi, quello di favorire la piena occupazione. Una legge che consenta, a determinate condizioni, il licenziamento non è dunque incostituzionale, ma lo è – senza forse – una normativa che istituzionalizzi il precariato (da estirpare alla radice); inoltre, se si vuol rispettare la Costituzione (si consideri anche il precetto dell’articolo 41, amente del quale “l’iniziativa privata (…) non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale), non è lecito tollerare il triste fenomeno delle delocalizzazioni. Per disincentivare queste ultime va studiato un sistema di sanzioni dissuasive, che vadano dall’obbligo – per l’imprenditore – di restituire, con interessi maggiorati (a ristoro del danno sociale), eventuali sovvenzioni ed incentivi ricevuti alla nazionalizzazione/ socializzazione degli stabilimenti. Una stretta sulle delocalizzazioni comporterebbe uno scontro con la UE e la sua Corte di (presunta) Giustizia, cani da guardia delle lobby: giuridicamente, il problema non si porrebbe neppure, dal momento che – per quanto prevalenti sulla legislazione ordinaria degli Stati – regolamenti e direttive europee non possono derogare ai principi cardine del nostro ordinamento, puntualmente individuati dalla Carta fondamentale.
I beni comuni siano res extra commercium: sanità, istruzione, acqua pubblica ecc. vengano sottratti alle ingerenze del privato che, perseguendo un fine egoistico, deve necessariamente cedere il passo a chi incarna le istanze collettive.
I beni comuni siano res extra commercium: sanità, istruzione, acqua pubblica ecc. vengano sottratti alle ingerenze del privato che, perseguendo un fine egoistico, deve necessariamente cedere il passo a chi incarna le istanze collettive.
Anche le aziende strategiche devono rimanere in mano pubblica. La svendita dell’industria di Stato, attuata in fretta e furia vent’anni fa, ha portato a situazioni deplorevoli e, in qualche caso, drammatiche – come dimostra la vicenda dell’Ilva di Taranto, replicata in tono minore a Trieste (Ferriera ex Italsider).
Come altri, più competenti di me, hanno già scritto l’alternativa per i lavoratori non può essere tra ammalarsi e crepare di fame: ove siano disponibili tecnologie atte a minimizzare l’inquinamento, queste vanno adottate, indipendentemente dai costi. Se il privato nicchia, tocca allo Stato intervenire, riappropriandosi di ciò che, in ultima istanza, è patrimonio comune.
Come altri, più competenti di me, hanno già scritto l’alternativa per i lavoratori non può essere tra ammalarsi e crepare di fame: ove siano disponibili tecnologie atte a minimizzare l’inquinamento, queste vanno adottate, indipendentemente dai costi. Se il privato nicchia, tocca allo Stato intervenire, riappropriandosi di ciò che, in ultima istanza, è patrimonio comune.
Come si vede, i temi sono infiniti, e potremmo proseguire, ma temendo di tediare il lettore – e desiderando rispettare la promessa d’esordio di fornire solamente qualche spunto – chiudiamo qui la nostra esposizione, invitando compagni e cittadini a riflettere sulle questioni poste e ad avanzare suggerimenti.
Alla Sinistra serve un programma; ai suoi attivisti l’ispirazione, la fiducia ed il massimo supporto possibile da parte dei concittadini italiani ed europei.
[1] Per progressività si intende il fatto che, al crescere del reddito, l’imposta aumenta in termini percentuali.
[2] E che dire del divieto, vigente per i dipendenti pubblici di basso rango, di esercitare una seconda attività lavorativa nel tempo libero (c.d. incompatibilità nel pubblico impiego, di cui all’art. 53 del D. Lgs. 165/2001)? Come mai il legislatore si preoccupa che nemmeno un briciolo delle “energie lavorative” dei travet sia sottratto alla P.A., mentre permette a medici e professori universitari (e, mutatis mutandis, ai magistrati) di esercitare le rispettive, lucrose professioni in privato? Forse, chissà, l’apposizione di un timbro richiede più “energia” di quella necessaria ad eseguire un’operazione in un ospedale pubblico… oppure, più probabilmente (ed assai italicamente), quod licet Iovi non licet bovi.
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