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lunedì 22 ottobre 2012

IL RAPPORTO TRA I SOCIALISTI E IL CONCETTO DI “GOVERNO”







di Giuseppe Angiuli



In questi ultimi tempi, nei quali la Lega dei Socialisti sta cercando – non senza qualche difficoltà - di definire la sua identità politica ed il suo ruolo strategico per l’avvenire, sento molti compagni esprimere delle riflessioni inquiete che investono alcuni concetti-chiave dell’agire politico.

Ma siamo diventati un soggetto della “sinistra radicale” o vogliamo puntare ad essere “sinistra di governo”?
Che ci facciamo con le nostre insegne alla manifestazione del NO MONTI DAY del 27 ottobre?
Ma non è che ci stiamo trasformando in un luogo di “gruppettari” e che ci stiamo “isolando” dagli altri soggetti della sinistra (PD, SEL, ecc.)?

La risposta a simili interrogativi richiede un esame che vada alla radice semantica delle parole, intese nel loro corretto significato.
Che vuol dire oggi essere “socialisti”?
Che significa essere “sinistra di governo”?
Rispetto a chi ed a che cosa occorre evitare di “isolarsi”?

Un detto antico recita: HISTORIA MAGISTRA VITAE.
Basterebbe studiare a fondo la storia del socialismo italiano sin dalle sue origini per trovare una bussola che permetta di dare risposte credibili ad interrogativi importanti come quelli a cui si è fatto cenno sopra.

Una prima cosa decisiva da capire è che, se la costruzione di una nuova società giusta costituisce (o dovrebbe costituire) da sempre l’orizzonte strategico di tutti i socialisti (ossia il famoso “sol dell’avvenire” a cui alludeva Giuseppe Garibaldi in una celebre lettera all’amico Celso Ceretti), la tattica del breve-medio periodo che i socialisti hanno perseguito nel corso della loro storia è sempre mutata, risentendo inevitabilmente del preciso momento storico in cui essi si sono concretamente trovati ad operare.
Come ho ricordato nel corso del mio intervento all’assemblea romana della Lega dei Socialisti del 14 ottobre scorso, quando i pionieri della nostra tradizione politica (tra gli altri, Andrea Costa, Filippo Turati e Antonio Labriola) misero mano alla fondazione del socialismo italiano, il primo obiettivo che essi si posero davanti non fu quello di conquistare il potere mediante la partecipazione alla competizione elettorale interna alle istituzioni dello Stato liberale ottocentesco; né per loro ebbe ad acquisire un valore affatto decisivo il rapportarsi con il tradizionale quadro politico che, all’epoca dell’Italia post-unitaria, occupava la scena, allora dominata dal confronto tra Destra e Sinistra storica.
Al contrario, per i pionieri del socialismo italiano, l’obiettivo prioritario in quella precisa fase storica fu quello di costruire una chiara e netta identità politica, mediante l’adattamento al contesto nazionale delle idee del socialismo scientifico loro consegnate da Marx ed Engels.
E quelle nuove idee erano talmente forti e dirompenti che essi compresero benissimo che la loro efficace diffusione tra i lavoratori italiani non sarebbe potuta mai avvenire se i socialisti non si fossero presentati come qualcosa di nettamente distinto e di diverso rispetto a tutto il panorama che fino a quel momento aveva occupato lo scenario politico dello Stato liberale.

Per comprendere a fondo la questione in parola, è emblematico analizzare la fase embrionale delle più significative esperienze organizzative del socialismo italiano (anteriori alla fondazione del PSI a Genova nel 1892).
Ad esempio, Andrea Costa, dopo avere in un primo momento diffuso idee anarchiche sul solco della Prima Internazionale dei Lavoratori, si decise a costituire il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna: tale soggetto politico per diverso tempo si mosse unicamente nelle campagne e nei borghi della Romagna, organizzando una fitta rete di leghe, cooperative e associazioni solidaristiche (prototipo degli odierni sindacati), il cui spirito unitario fu cementato dai fogli della propaganda socialista, che plasmavano una nuova coscienza di classe nelle genti che da tempo immemore erano state solamente abituate ad obbedire a soggetti che al giorno d’oggi definiremmo come “poteri forti”.
Anche l’azione politica di un altro pioniere del socialismo italiano, Camillo Prampolini, originario di Reggio Emilia, fu avviata in un primo momento solo sul terreno squisitamente sociale e non certo su quello politico-istituzionale (il socialista reggiano è passato alla storia principalmente quale antesignano del movimento cooperativo emiliano e nazionale).


Camillo Prampolini, pioniere del movimento cooperativo


L’insegnamento che deve essere tratto dalla rilettura di queste vicende storiche è che il socialismo italiano giunse a rivestire un ruolo politico incisivo all’interno delle istituzioni parlamentari soltanto dopo anni di lenta incubazione delle proprie idee all’interno della società e dopo che i primi socialisti ebbero a discutere a lungo tra di loro sulla stessa opportunità di partecipare alle competizioni elettorali, cosa che molti di loro – a cominciare proprio da Andrea Costa e da Antonio Labriola (il cui contributo di pensiero per la fondazione del PSI fu assai importante) – non davano affatto per scontata!

Soltanto dopo avere organizzato efficacemente le classi lavoratrici all’interno della società italiana, partendo dalle campagne e dalle officine, i primi socialisti poterono fare eleggere Andrea Costa alla Camera dei Deputati, in una posizione di assoluta indipendenza ed autonomia dalla “Sinistra” storica di Agostino De Pretis - cosa che gli consentì, tra le altre cose, di condannare autorevolmente il nascente imperialismo coloniale inaugurato dal Governo Crispi con la spedizione di Adua del 1896 - ma assumendo al contempo una grande incisività e azione politica autonoma presso le classi lavoratrici italiane.
E fu soltanto al passaggio del secolo, e cioè dopo che i socialisti si erano messi a capo di vasti moti popolari para-insurrezionali tra il 1893 (Fasci siciliani) e il 1898 (i moti del pane di Milano), e dopo che Filippo Turati ebbe provato perfino a respirare l’aria delle patrie galere, che i socialisti poterono contribuire a sbloccare il sistema politico bipolare e classista dell’età liberale e trovarono per la prima volta uno sbocco partecipativo al governo Giolitti-Zanardelli e, in tale quadro politico inedito, fecero approvare le prime radicali riforme del sistema sociale e del lavoro.


Un’immagine dei moti popolari del pane a Milano nel 1898



Ponendoci una domanda paradossale, cosa sarebbe accaduto se il PSI, sin dalla sua fondazione, avesse puntato da subito ad andare al Governo del Paese se prima non si fosse forgiato in anni ed anni di generose lotte dal basso, grazie alle quali conquistò la fiducia di milioni di lavoratori italiani, condotti per la prima volta ad assumere un ruolo di soggettività politica nel Paese?

E comunque la si pensi sul senso della collaborazione turatiana ai governi dell’età giolittiana, resta chiaro un concetto: la partecipazione dei socialisti italiani a quelle esperienze di Governo restò sempre legata a precisi punti qualificanti dell’azione governativa e portò all’approvazione di riforme vere (tra cui la prima forma di tutela del lavoro femminile e minorile), che migliorarono non di poco le condizioni materiali delle plebi italiane.

E dunque, se per i socialisti, a prescindere dal mutare delle condizioni storiche, la bussola dell’agire politico deve restare sempre l’obiettivo di trasformare la società e favorire l’elevazione sociale e culturale delle classi lavoratrici, si comprende bene che la loro partecipazione al Governo del Paese ed alla vita delle istituzioni non può rappresentare un fine in sé e per sé dell’attività politica ma può tutt’al più costituire un mero strumento di lotta politica, praticabile in alcuni contesti storici ma non certo in tutte le fasi.

Anche i socialisti di seconda generazione, come Pietro Nenni, dovettero vivere una prima lunga fase di battaglie nella società, in momenti storici in cui era diventato necessario fare perfino le barricate in piazza per poter conquistare un minimo di agibilità politica (come Nenni fece, giovanissimo, nella sua Faenza), prima di potere arrivare a porsi la concreta possibilità di entrare nella “stanza dei bottoni”, cosa che lo stesso Nenni accettò di fare solo nel 1963 con la nascita del primo governo di centro-sinistra dell’età repubblicana1.

Pertanto, se per i socialisti la conquista del governo nelle istituzioni non può che costituire soltanto un mezzo per trasformare la società (nel senso, ovviamente, di favorire un miglioramento delle condizioni sociali e materiali delle classi lavoratrici) e non può essere un fine immanente dell’agire politico, allora si comprende quanto sia riduttivo e fuorviante – per tornare ai giorni nostri – ragionare in termini in cui molti compagni sono oggi soliti ragionare: “Ma ci alleiamo o no con S.E.L.”?; “Ma siamo o no sinistra di governo”?; “Ma vogliamo consegnare il Paese alla Destra?” e così via dicendo.

Quel che prima di tutto occorre capire è la particolare congiuntura storica in cui ci troviamo oggi a vivere e ad operare, in Italia come in Europa.
Siamo all’interno della più grave crisi che il capitalismo occidentale abbia mai affrontato da prima della seconda guerra mondiale ad oggi.
In questa fase, dovrebbe risultare evidente a chiunque abbia spirito libero e non sia condizionato da “secondi fini” di carattere opportunistico, che le forze del capitalismo finanziario stanno portando a compimento un lungo programma di “lotta di classe”, messo in atto da almeno un ventennio a questa parte.
Tale programma mira essenzialmente a due obiettivi: realizzare un colossale spostamento di ricchezze dai ceti medio-bassi a quelli alti della nostra piramide sociale e, in secondo luogo, attuare una ristrutturazione oligarchica della nostra società, con una progressiva e inarrestabile azione di svuotamento di tutti i poteri delle istituzioni democratiche e con un progressivo azzeramento della sovranità popolare.
Tutto ciò avviene in un contesto di istituzioni sovra-nazionali (l’Unione Europea dei Trattati di Maastricht e di Lisbona) che non consente ai Parlamenti nazionali di adottare alcun tipo di politica redistributiva e di rilancio dell’occupazione.

E quel che è più grave è che nel nostro panorama politico nazionale, il quadro realistico sopra descritto (di sostanziale “sabotaggio” della democrazia rappresentativa) viene sottaciuto da tutte le principali forze politiche della “Sinistra” italiana, da quelle più imponenti, come il P.D. (che di popolare non ha più nulla ma che è anzi il primo referente delle oligarchie oggi al comando, come dimostrano le amicizie non nascoste del “rottamatore” Renzi) a quelle minori, come S.E.L. e il piccolo P.S.I. di Nencini le quali – in buona o cattiva fede, sarà la storia a rivelarcelo – non muovono di fatto alcuna critica pregnante verso i principi fondativi dell’Unione Europea ultra-liberista di Maastricht e di Lisbona, accettando così di risultare del tutto subordinati alle relative logiche.

E a tutto ciò si aggiunga che ormai una buona metà dell’elettorato italiano – soprattutto quello afferente alle classi popolari ed ai ceti medi – sembra ormai avere bene compreso la natura sostanzialmente omogenea dei due principali schieramenti del circo politico-mediatico nazionale (centro-sinistra e centro-destra) di fronte a tutti i punti nodali dell’economia e della società, a partire dalla conclamata incapacità di entrambe le coalizioni di dare una risposta seria al bisogno di lavoro, casa e diritti promanante da milioni di cittadini in estrema difficoltà, che vedono di giorno in giorno peggiorare le proprie condizioni di vita.





E allora, se il quadro è quello appena descritto, ragionando in un’ottica storica ma guardando all’autunno del 2012, coloro i quali intendono assumere su di sé l’onerosissimo incarico di ricostruire una cultura del socialismo italiano, rispetto a quali soggettività devono preoccuparsi di non “isolarsi”?
Diventa più essenziale, per loro, intavolare oggi trattative con Bersani, Renzi o Vendola oppure interagire con milioni di lavoratori italiani che, non solo non sanno che farsene delle primarie interne al centro-sinistra ma che non hanno alcuna intenzione nemmeno di andare a votare alle prossime elezioni politiche, di cui percepiscono fin da ora la sostanziale inutilità?

E’ più importante oggi per i socialisti essere presenti alle primarie del centro-sinistra (ossia partecipare ad un gioco farsesco in cui si sa fin da ora quale futuro reciproco ruolo toccherà a ciascuna di esse) o è più importante porsi alla guida dei movimenti sociali di lavoratori ventenni e trentenni disoccupati o precari che rischiano di non avere più nella loro vita un lavoro stabile, una casa di proprietà e una posizione pensionistica?

E’ da “gruppettari” partecipare al NO MONTI DAY il prossimo 27 ottobre, vale a dire ad una delle pochissime situazioni in cui ai veri socialisti può toccare il compito che nella loro storia essi hanno spesso saputo assumere, cioè quello di porsi alla guida dei movimenti, per offrire loro uno sbocco politico realistico ed adeguato ai tempi?

Al giorno d’oggi è “anti-politico” appassionarsi agli squallidi talk-show tra Renzi e Bersani o provare a ridare una rappresentanza politica a milioni di persone che se ne sentono prive?

E può essere mai così decisivo per i socialisti, nel contesto odierno, porsi come obiettivo tattico prioritario quello di come raggiungere nel modo più facile l’occupazione di scranni parlamentari dal cui conseguimento potrà ricavarsi, nella migliore delle ipotesi, soltanto il ruolo di passacarte e di ratificatori di un impianto legislativo ultra-liberista che, ormai da un ventennio, viene concepito non più a Montecitorio ma nei freddi uffici della B.C.E. e della Commissione Europea?

Quale margine di visibilità atta a rilanciare la loro gloriosa storia potrebbero mai ricavarsi, al giorno d’oggi, i socialisti, all’interno di uno schieramento di centro-sinistra “di governo” il cui programma appare già cristallizzato sulla carta e non è passibile di alcuna sostanziosa modifica che metta in discussione quanto meno il fiscal compact e lo scellerato principio del pareggio di bilancio inserito addirittura nella nostra carta costituzionale?

Quali “riforme” migliorative delle condizioni delle classi lavoratrici italiane potrebbero mai ottenere i socialisti dalla partecipazione ad un futuro Governo di “centro-sinistra” quando è da 20 anni che i ceti medio-bassi italiani al solo sentire nominare la parola “riforma” hanno solo da tremare?

E allora, se siamo onesti fino in fondo, dobbiamo rispondere nel modo seguente al più importante dei quesiti amletici da cui ha mosso i suoi passi il presente scritto.
Se la Lega dei Socialisti si sta trasformando in una banda di “gruppettari”, come insinuato da diversi compagni scettici rispetto alla linea decisa a maggioranza all’assemblea del 14 ottobre, vuol dire che anche Andrea Costa, Filippo Turati, Antonio Labriola e Camillo Prampolini erano dei “gruppettari” ante litteram.


21 ottobre 2012



1 E non si dimentichi che il PSI di Nenni, prima di imbarcarsi nella sua prima esperienza al Governo del paese, ottenne delle importanti rassicurazioni dalla D.C., che poi trovarono effettiva attuazione, tra le quali la nazionalizzazione dell’ENEL, la riforma agraria e la riforma scolastica curata da Tristano Codignola.

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