di Giuseppe Angiuli
In questi ultimi tempi,
nei quali la Lega dei Socialisti sta cercando – non senza qualche
difficoltà - di definire la sua identità politica ed il suo ruolo
strategico per l’avvenire, sento molti compagni esprimere delle
riflessioni inquiete che investono alcuni concetti-chiave dell’agire
politico.
Ma siamo diventati un
soggetto della “sinistra radicale” o vogliamo puntare ad essere
“sinistra di governo”?
Che ci facciamo con le
nostre insegne alla manifestazione del NO MONTI DAY del 27 ottobre?
Ma non è che ci stiamo
trasformando in un luogo di “gruppettari” e che ci stiamo
“isolando” dagli altri soggetti della sinistra (PD, SEL, ecc.)?
La risposta a simili
interrogativi richiede un esame che vada alla radice semantica delle
parole, intese nel loro corretto significato.
Che vuol dire oggi
essere “socialisti”?
Che significa essere
“sinistra di governo”?
Rispetto a chi ed a
che cosa occorre evitare di “isolarsi”?
Un detto antico recita:
HISTORIA MAGISTRA VITAE.
Basterebbe studiare a
fondo la storia del socialismo italiano sin dalle sue origini per
trovare una bussola che permetta di dare risposte credibili ad
interrogativi importanti come quelli a cui si è fatto cenno sopra.
Una prima cosa decisiva
da capire è che, se la costruzione di una nuova società giusta
costituisce (o dovrebbe costituire) da sempre l’orizzonte
strategico di tutti i socialisti (ossia il famoso “sol
dell’avvenire” a cui alludeva Giuseppe Garibaldi in una celebre
lettera all’amico Celso Ceretti), la tattica del breve-medio
periodo che i socialisti hanno perseguito nel corso della loro storia
è sempre mutata, risentendo inevitabilmente del preciso momento
storico in cui essi si sono concretamente trovati ad operare.
Come ho ricordato nel
corso del mio intervento all’assemblea romana della Lega dei
Socialisti del 14 ottobre scorso, quando i pionieri della nostra
tradizione politica (tra gli altri, Andrea Costa, Filippo Turati e
Antonio Labriola) misero mano alla fondazione del socialismo
italiano, il primo obiettivo che essi si posero davanti non fu
quello di conquistare il potere mediante la partecipazione alla
competizione elettorale interna alle istituzioni dello Stato liberale
ottocentesco; né per loro ebbe ad acquisire un valore affatto
decisivo il rapportarsi con il tradizionale quadro politico che,
all’epoca dell’Italia post-unitaria, occupava la scena, allora
dominata dal confronto tra Destra e Sinistra storica.
Al contrario, per i
pionieri del socialismo italiano, l’obiettivo prioritario in quella
precisa fase storica fu quello di costruire una chiara e netta
identità politica, mediante l’adattamento al contesto nazionale
delle idee del socialismo scientifico loro consegnate da Marx ed
Engels.
E quelle nuove idee erano
talmente forti e dirompenti che essi compresero benissimo che la loro
efficace diffusione tra i lavoratori italiani non sarebbe potuta mai
avvenire se i socialisti non si fossero presentati come qualcosa di
nettamente distinto e di diverso rispetto a tutto il
panorama che fino a quel momento aveva occupato lo scenario politico
dello Stato liberale.
Per comprendere a fondo
la questione in parola, è emblematico analizzare la fase embrionale
delle più significative esperienze organizzative del socialismo
italiano (anteriori alla fondazione del PSI a Genova nel 1892).
Ad esempio, Andrea
Costa, dopo avere in un primo momento diffuso idee anarchiche sul
solco della Prima Internazionale dei Lavoratori, si decise a
costituire il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna:
tale soggetto politico per diverso tempo si mosse unicamente nelle
campagne e nei borghi della Romagna, organizzando una fitta rete di
leghe, cooperative e associazioni solidaristiche (prototipo degli
odierni sindacati), il cui spirito unitario fu cementato dai fogli
della propaganda socialista, che plasmavano una nuova coscienza di
classe nelle genti che da tempo immemore erano state solamente
abituate ad obbedire a soggetti che al giorno d’oggi definiremmo
come “poteri forti”.
Anche l’azione politica
di un altro pioniere del socialismo italiano, Camillo Prampolini,
originario di Reggio Emilia, fu avviata in un primo momento solo sul
terreno squisitamente sociale e non certo su quello
politico-istituzionale (il socialista reggiano è passato alla storia
principalmente quale antesignano del movimento cooperativo emiliano e
nazionale).
Camillo
Prampolini, pioniere del movimento cooperativo
|
L’insegnamento che deve
essere tratto dalla rilettura di queste vicende storiche è che il
socialismo italiano giunse a rivestire un ruolo politico incisivo
all’interno delle istituzioni parlamentari soltanto dopo anni di
lenta incubazione delle proprie idee all’interno della società e
dopo che i primi socialisti ebbero a discutere a lungo tra di loro
sulla stessa opportunità di partecipare alle competizioni
elettorali, cosa che molti di loro – a cominciare proprio da Andrea
Costa e da Antonio Labriola (il cui contributo di pensiero per la
fondazione del PSI fu assai importante) – non davano affatto per
scontata!
Soltanto dopo avere
organizzato efficacemente le classi lavoratrici all’interno della
società italiana, partendo dalle campagne e dalle officine, i primi
socialisti poterono fare eleggere Andrea Costa alla Camera dei
Deputati, in una posizione di assoluta indipendenza ed autonomia
dalla “Sinistra” storica di Agostino De Pretis - cosa che gli
consentì, tra le altre cose, di condannare autorevolmente il
nascente imperialismo coloniale inaugurato dal Governo Crispi con la
spedizione di Adua del 1896 - ma assumendo al contempo una grande
incisività e azione politica autonoma presso le classi lavoratrici
italiane.
E fu soltanto al
passaggio del secolo, e cioè dopo che i socialisti si erano messi a
capo di vasti moti popolari para-insurrezionali tra il 1893 (Fasci
siciliani) e il 1898 (i moti del pane di Milano), e dopo che Filippo
Turati ebbe provato perfino a respirare l’aria delle patrie galere,
che i socialisti poterono contribuire a sbloccare il sistema politico
bipolare e classista dell’età liberale e trovarono per la prima
volta uno sbocco partecipativo al governo Giolitti-Zanardelli e, in
tale quadro politico inedito, fecero approvare le prime radicali
riforme del sistema sociale e del lavoro.
Un’immagine
dei moti popolari del pane a Milano nel 1898
|
Ponendoci una domanda
paradossale, cosa sarebbe accaduto se il PSI, sin dalla sua
fondazione, avesse puntato da subito ad andare al Governo del Paese
se prima non si fosse forgiato in anni ed anni di generose lotte dal
basso, grazie alle quali conquistò la fiducia di milioni di
lavoratori italiani, condotti per la prima volta ad assumere un ruolo
di soggettività politica nel Paese?
E comunque la si pensi
sul senso della collaborazione turatiana ai governi dell’età
giolittiana, resta chiaro un concetto: la partecipazione dei
socialisti italiani a quelle esperienze di Governo restò sempre
legata a precisi punti qualificanti dell’azione governativa e portò
all’approvazione di riforme vere (tra cui la prima forma di
tutela del lavoro femminile e minorile), che migliorarono non di poco
le condizioni materiali delle plebi italiane.
E dunque, se per i
socialisti, a prescindere dal mutare delle condizioni storiche, la
bussola dell’agire politico deve restare sempre l’obiettivo di
trasformare la società e favorire l’elevazione sociale e culturale
delle classi lavoratrici, si comprende bene che la loro
partecipazione al Governo del Paese ed alla vita delle istituzioni
non può rappresentare un fine in sé e per sé dell’attività
politica ma può tutt’al più costituire un mero strumento di lotta
politica, praticabile in alcuni contesti storici ma non certo in
tutte le fasi.
Anche i socialisti di
seconda generazione, come Pietro Nenni, dovettero vivere una prima
lunga fase di battaglie nella società, in momenti storici in cui era
diventato necessario fare perfino le barricate in piazza per poter
conquistare un minimo di agibilità politica (come Nenni fece,
giovanissimo, nella sua Faenza), prima di potere arrivare a porsi la
concreta possibilità di entrare nella “stanza dei bottoni”, cosa
che lo stesso Nenni accettò di fare solo nel 1963 con la nascita del
primo governo di centro-sinistra dell’età repubblicana1.
Pertanto, se per i
socialisti la conquista del governo nelle istituzioni non può che
costituire soltanto un mezzo per trasformare la società (nel
senso, ovviamente, di favorire un miglioramento delle condizioni
sociali e materiali delle classi lavoratrici) e non può essere un
fine immanente dell’agire politico, allora si comprende quanto sia
riduttivo e fuorviante – per tornare ai giorni nostri – ragionare
in termini in cui molti compagni sono oggi soliti ragionare: “Ma ci
alleiamo o no con S.E.L.”?; “Ma siamo o no sinistra di
governo”?; “Ma vogliamo consegnare il Paese alla Destra?” e
così via dicendo.
Quel che prima di tutto
occorre capire è la particolare congiuntura storica in cui ci
troviamo oggi a vivere e ad operare, in Italia come in Europa.
Siamo all’interno della
più grave crisi che il capitalismo occidentale abbia mai affrontato
da prima della seconda guerra mondiale ad oggi.
In questa fase, dovrebbe
risultare evidente a chiunque abbia spirito libero e non sia
condizionato da “secondi fini” di carattere opportunistico, che
le forze del capitalismo finanziario stanno portando a compimento un
lungo programma di “lotta di classe”, messo in atto da almeno un
ventennio a questa parte.
Tale programma mira
essenzialmente a due obiettivi: realizzare un colossale
spostamento di ricchezze dai ceti medio-bassi a quelli alti della
nostra piramide sociale e, in secondo luogo, attuare una
ristrutturazione oligarchica della nostra società, con una
progressiva e inarrestabile azione di svuotamento di tutti i poteri
delle istituzioni democratiche e con un progressivo azzeramento della
sovranità popolare.
Tutto ciò avviene in un
contesto di istituzioni sovra-nazionali (l’Unione Europea dei
Trattati di Maastricht e di Lisbona) che non consente ai
Parlamenti nazionali di adottare alcun tipo di politica
redistributiva e di rilancio dell’occupazione.
E quel che è più grave
è che nel nostro panorama politico nazionale, il quadro realistico
sopra descritto (di sostanziale “sabotaggio” della democrazia
rappresentativa) viene sottaciuto da tutte le principali forze
politiche della “Sinistra” italiana, da quelle più imponenti,
come il P.D. (che di popolare non ha più nulla ma che è anzi il
primo referente delle oligarchie oggi al comando, come dimostrano
le amicizie non nascoste del “rottamatore” Renzi) a quelle
minori, come S.E.L. e il piccolo P.S.I. di Nencini le quali – in
buona o cattiva fede, sarà la storia a rivelarcelo – non muovono
di fatto alcuna critica pregnante verso i principi fondativi
dell’Unione Europea ultra-liberista di Maastricht e di Lisbona,
accettando così di risultare del tutto subordinati alle relative
logiche.
E a tutto ciò si
aggiunga che ormai una buona metà dell’elettorato italiano –
soprattutto quello afferente alle classi popolari ed ai ceti medi –
sembra ormai avere bene compreso la natura sostanzialmente omogenea
dei due principali schieramenti del circo politico-mediatico
nazionale (centro-sinistra e centro-destra) di fronte a tutti i punti
nodali dell’economia e della società, a partire dalla conclamata
incapacità di entrambe le coalizioni di dare una risposta seria al
bisogno di lavoro, casa e diritti promanante da milioni di cittadini
in estrema difficoltà, che vedono di giorno in giorno peggiorare le
proprie condizioni di vita.
E allora, se il quadro è
quello appena descritto, ragionando in un’ottica storica ma
guardando all’autunno del 2012, coloro i quali intendono assumere
su di sé l’onerosissimo incarico di ricostruire una cultura del
socialismo italiano, rispetto a quali soggettività devono
preoccuparsi di non “isolarsi”?
Diventa più essenziale,
per loro, intavolare oggi trattative con Bersani, Renzi o Vendola
oppure interagire con milioni di lavoratori italiani che, non solo
non sanno che farsene delle primarie interne al centro-sinistra ma
che non hanno alcuna intenzione nemmeno di andare a votare alle
prossime elezioni politiche, di cui percepiscono fin da ora la
sostanziale inutilità?
E’ più importante oggi
per i socialisti essere presenti alle primarie del centro-sinistra
(ossia partecipare ad un gioco farsesco in cui si sa fin da ora quale
futuro reciproco ruolo toccherà a ciascuna di esse) o è più
importante porsi alla guida dei movimenti sociali di lavoratori
ventenni e trentenni disoccupati o precari che rischiano di non avere
più nella loro vita un lavoro stabile, una casa di proprietà e una
posizione pensionistica?
E’ da “gruppettari”
partecipare al NO MONTI DAY il prossimo 27 ottobre, vale a dire ad
una delle pochissime situazioni in cui ai veri socialisti può
toccare il compito che nella loro storia essi hanno spesso saputo
assumere, cioè quello di porsi alla guida dei movimenti, per offrire
loro uno sbocco politico realistico ed adeguato ai tempi?
Al giorno d’oggi è
“anti-politico” appassionarsi agli squallidi talk-show tra
Renzi e Bersani o provare a ridare una rappresentanza politica a
milioni di persone che se ne sentono prive?
E può essere mai così
decisivo per i socialisti, nel contesto odierno, porsi come obiettivo
tattico prioritario quello di come raggiungere nel modo più facile
l’occupazione di scranni parlamentari dal cui conseguimento potrà
ricavarsi, nella migliore delle ipotesi, soltanto il ruolo di
passacarte e di ratificatori di un impianto legislativo
ultra-liberista che, ormai da un ventennio, viene concepito non più
a Montecitorio ma nei freddi uffici della B.C.E. e della Commissione
Europea?
Quale margine di
visibilità atta a rilanciare la loro gloriosa storia potrebbero mai
ricavarsi, al giorno d’oggi, i socialisti, all’interno di uno
schieramento di centro-sinistra “di governo” il cui programma
appare già cristallizzato sulla carta e non è passibile di alcuna
sostanziosa modifica che metta in discussione quanto meno il fiscal
compact e lo scellerato principio del pareggio di bilancio
inserito addirittura nella nostra carta costituzionale?
Quali “riforme”
migliorative delle condizioni delle classi lavoratrici italiane
potrebbero mai ottenere i socialisti dalla partecipazione ad un
futuro Governo di “centro-sinistra” quando è da 20 anni che i
ceti medio-bassi italiani al solo sentire nominare la parola
“riforma” hanno solo da tremare?
E allora, se siamo onesti
fino in fondo, dobbiamo rispondere nel modo seguente al più
importante dei quesiti amletici da cui ha mosso i suoi passi il
presente scritto.
Se la Lega dei Socialisti
si sta trasformando in una banda di “gruppettari”, come insinuato
da diversi compagni scettici rispetto alla linea decisa a maggioranza
all’assemblea del 14 ottobre, vuol dire che anche Andrea Costa,
Filippo Turati, Antonio Labriola e Camillo Prampolini erano dei
“gruppettari” ante litteram.
21 ottobre 2012
21 ottobre 2012
1
E non si dimentichi che il PSI di Nenni, prima di imbarcarsi nella
sua prima esperienza al Governo del paese, ottenne delle importanti
rassicurazioni dalla D.C., che poi trovarono effettiva attuazione,
tra le quali la nazionalizzazione dell’ENEL, la riforma agraria e
la riforma scolastica curata da Tristano Codignola.
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