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martedì 13 novembre 2012

GIOVENTÙ BRUCIATA di Gaspare Serra



GIOVENTù BRUCIATA
di Gaspare Serra




“Se i giovani non hanno sempre ragione, la società che li ignora e li emargina ha sempre torto…”
(François Mitterand)




DALLA “BEAT” ALLA “NEET” GENERATION:
GIOVANI SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI…



SOMMARIO:

1.                   L’ITALIA? NON UN PAESE PER GIOVANI…
4.                   GIOVANI IN “STAND-BY”: IL FENOMENO DEI “NEET”
5.                   ETERNI MAMMONI? IL FENOMENO DEI “BAMBOCCIONI”
6.                   I “DIVERSAMENTE OCCUPATI”: GLI STAGISTI
7.                   VITE PRECARIE: “GENERAZIONE 1.000 EURO”
8.                   L’ULTIMA SPIAGGIA: LA FUGA DEI “CERVELLI”
9.                   L’“EQUAZIONE PERFETTA” PER USCIRE DALLA CRISI

 


NON UN PAESE PER GIOVANI…

Saranno forse “non + disposti a tutto” -ricalcando un noto slogan sindacale- ma i giovani italiani dovranno al più presto farsi le ossa per crescere in un Paese di “lupi travestiti d’agnello”, pronti a sbatterli sommariamente sul banco degli accusati.
Vivete coi genitori? “Ma che bamboccioni!” (le parole paterne dell’ex ministro Padoa Schioppa);
Siete dei “Neet”? “Ma che lazzaroni!” (il pensiero tagliente di Vittorio Feltri, firma storica del giornalismo italiano);
Non siete ancora laureati? “Ma che sfigati!” (il commento pungente del viceministro Martone);
Siete alla ricerca di prima occupazione? “Ma andate ai mercati a scaricare cassette!” (l’invito fraterno dell’ex ministro Brunetta);
Cercate un lavoro? “Non siate choosy, per carità!” (l’esortazione spocchiosa del ministro Fornero);
Volete un consiglio? “L’agricoltura rende le persone sempre giovani…” (altro suggerimento materno di Elsa Fornero);
Non trovate lavoro? “È ovvio, lo cercate accanto a mammà!” (lo sfogo seccato del ministro Cancellieri);
Ancora non lavorate? “Che poveri disgraziati!” (sempre parole di Renato Brunetta);
Siete precari? “Semplicemente l’Italia peggiore!” (altra perla di saggezza dell’on. Brunetta);
Guadagnate appena 500 euro al mese? “Ma quanto siete sfigati…” (la chiosa dell’on. Straquadagno);
Cercate un posto fisso? “Ma che monotonia…” (il pensiero borioso del premier Monti);
Lo avete trovato, ma nel pubblico impiego? “I soliti fannulloni!” (la sintesi ideale del Brunetta-pensiero);
Lo state ancora cercando, non più giovanissimi? “Che generazione perduta…” (la conclusione pilatesca del senator Monti…).

Al bando ogni senilismo demagogico o giovanilismo di comodo, è solare che sia facile scovare, nel mucchio dell’intera “generazione Y” nata a cavallo tra gli anni ‘80 e ’90, adolescenti viziati e menefreghisti, pronti a prendersela col mondo intero pur di non assumersi le proprie responsabilità; studenti parcheggiati all’università, che preferiscono vivere di rendita piuttosto che cercarsi un lavoro; giovani fannulloni impiegati nella pubblica amministrazione i quali, conquistato il “posto fisso”, ripongono il minimo impegno nel proprio lavoro.
Di “mele marce” se ne trovano in qualsiasi paniere: chi fa politica, anzi, ha meno autorità di chicchessia nel dare lezioni di morale…
Esiste, però, un’Italia “per bene” di cui andare fieri: una “meglio gioventù”, silenziosa ma pur sempre maggioritaria, che tutti i giorni si fa in quattro per formarsi al meglio nelle nostre università, per mantenersi in qualche modo negli studi o per farsi strada nel mondo del lavoro puntando sulle proprie forze.
È accettabile, allora, che lo sport nazionale preferito da certi politici -ultimamente praticato con successo anche dai tecnici- sia divenuto il “tiro al bersaglio dei giovani”, una gara senza regole ad offendere, umiliare, bistrattare un’intera generazione (ieri sconsideratamente cresciuta a “pane e televisione”, oggi maldestramente rabbonita con “bastoni e carote”)?

Il ministro del Lavoro ha esortato i giovani ad “accontentarsi” nella ricerca di prima occupazione.
Il vero problema, semmai, è che ci si accontenta fin troppo: i più non sono affatto “schizzinosi”, né nella ricerca del primo né del secondo, terzo od ennesimo lavoro!
Il 71% dei giovani under 35 è disponibile ad accettare qualsiasi lavoro, purché remunerato: solo il 20% preferisce aspettare il posto che lo soddisfi al meglio (fonte Cisl).
Chiedere quantomeno d’essere pagati, fosse anche per il più umile mestiere, vuol forse dire esser “choosy”?
Un recentissimo studio di Bankitalia, inoltre, ha rivelato che, tra i giovani entrati nel mondo del lavoro tra il 2009 e il 2011:
il 25% dei laureati si è adatto benissimo a svolgere un’occupazione con bassa o nessuna qualifica, più dei propri coetanei tedeschi (in Germania il dato scende al 18%);
oltre il 30%, invece, svolge un’occupazione del tutto diversa da quella per la quale ha studiato.
Forse il mondo reale assume tutt’altro aspetto dall’alto di una cattedra…
Prendersela con Elsa Fornero, però, è come sparare sulla croce rossa, avendo il Ministro già abbondantemente dato prova -dopo le sue prime “lacrime di coccodrillo” - di aver la stessa sensibilità di un procione in calore!
Non si tratta forse della medesima persona che si è rivolta ai malati di Sla con queste parole: Anche la vita da ministro è dura…?!

Liquidare il problema dei giovani senza lavoro con un “vadano a scaricare la frutta al mercato”, poi, è quanto di più banale e demagogico si possa affermare.
Qual è la funzione della Politica?
Preparare sommessamente i giovani “al peggio” oppure tentare di offrir loro opportunità, ricercando qualsiasi soluzione per sciogliere i nodi e lacciuoli che legano il mercato del lavoro e bloccano l’economia?
Qua è il compito di un ministro del Lavoro?
Invitare i ragazzi a competere con la manodopera rumena e la manovalanza tunisina o stimolarli a misurarsi con i giovani ingegneri indiani e i nuovi imprenditori cinesi?
Se s’inculca nei giovani la convinzione che il lavoro serva soltanto a guadagnarsi da vivere e “portare a casa lo stipendio”, non anche a realizzarsi e mettere in campo le proprie capacità, come stupirsi del fatto che i laureati diminuiscono sempre di più, mentre crescono gli inattivi e gli sfiduciati?
Se s’inibisce nei giovani finanche la capacità di sognare un futuro migliore, che ne sarà di loro?

L’impressione è che, dietro queste ripetute “gaffe”, si celi una strategia ben mirata: la ricerca dell’“alibi perfetto” per sottacere le gravi responsabilità di un’intera classe dirigente nell’affrontare i problemi della mancanza di occupazione, crescita e sviluppo, che certo non dipendono solo da fattori esogeni (l’assenza di un’Europa politica, la crisi finanziaria internazionale o la congiuntura economica sfavorevole).
Un esempio chiarificatore?
Tra il 1999 ed il 2007 l’Italia ha beneficiato del c.d. “dividendo dell’euro”, ovvero di bassi tassi d’interesse sul debito pubblico che hanno consentito di risparmiare centinaia di miliardi (secondo alcuni economisti, addirittura “100 miliardi” di euro all’anno).
Un enorme “tesoretto” che, se oculatamente speso in politiche d’investimento e affiancato da riforme strutturali, avrebbe consentito all’Italia di essere tra i paesi più virtuosi d’Europa, piuttosto che tra gli stati “pigs” citati come modello negativo persino nella campagna elettorale americana.
Di chi la responsabilità se l’Italia negli anni Duemila ha “dilapidato” queste risorse?
Se in capo ad ogni italiano grava un debito pubblico di oltre “30.000 euro”, in termini assoluti il terzo al mondo (tra il 1950 e il 1969 la media del debito pubblico in rapporto al Pil era del 30%, oggi ha sfondato quota 126%)?
Se la spesa pubblica è lievitata a dismisura (nel 1950 si attestava sotto il 25% in rapporto al Pil, oggi supera il 50%)?
Se la pubblica amministrazione è divenuta un ente erogatore di stipendi, piuttosto che di servizi (Sicilia docet)?
Se il nostro regime tributario è il più opprimente al mondo (nel 1951 la pressione fiscale era del 18,2%, oggi supera il 55%)?
Se i costi del lavoro e dell’energia sono nettamente più alti della media europea?
Se le ultime grandi imprese italiane (vedi la Fiat) e le poche multinazionali straniere presenti (vedi l’Alcoa) pagherebbero penali pur di delocalizzare?
Se la corruzione ci costa “60 miliardi” di euro l’anno, mentre l’evasione fiscale il doppio?

Di chi la responsabilità se l’Italia si è ridotta ad un Paese “a corto di futuro”, con il cappio al collo del debito e la pistola dei mercati alla tempia?
Tutto questo è forse imputabile ai giovani che solo oggi si affacciano sul mercato del lavoro, magari illusi che il mondo reale non fosse poi così distante da quello rappresentato da “mamma Tv”?
È colpa dei giovani italiani se un loro coetaneo su tre è senza lavoro?
Se la loro generazione è divenuta “precaria” per antonomasia?
Se l’ingresso nel mercato del lavoro solitamente passa attraverso la scorciatoia obbligata di un’occupazione in nero e senza tutele?
Se il mondo delle professioni è chiuso a camera stagna da caste autoreferenziali, mentre il mercato del lavoro è drogato dal precariato?
Se gli stipendi degli italiani sono in media i più bassi d’Europa, per molti insufficienti a garantire una piena indipendenza economica dalla famiglia d’origine?
Se molti di loro -i migliori o i più audaci- preferiscono scappare all’estero piuttosto che accontentarsi di un lavoro tanto dequalificato quanto malpagato?
Su un punto ha perfettamente ragione il viceministro Martone: essere giovani in Italia vuol dire aver ricevuto in dote dalla sorte una “sfiga” pazzesca!

A chi il compito di indicare una qualche via d’uscita, “una luce in fondo al tunnel”?
A una classe politica “novecentesca”, la stessa che fin oggi ha scavato la fossa sotto i piedi dei propri figli?
Ad un governo tecnico -il più sobrio degli ultimi 150 anni- che, definendo “perduta” la generazione dei 30/40enni, ha già giudicato spacciati un quinto dei cittadini che rappresenta?
Che futuro può avere un Paese che, piuttosto che riconoscere i giovani come un “organo vitale” del Sistema, li liquida sbrigativamente come un “arto in cancrena” da amputare per salvare il resto del Corpo sociale?


L’ALLARME DISOCCUPAZIONE

Articolo 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro…”.
Si, ma quale?
La Repubblica italiana pare piuttosto “affondare” sul lavoro: un lavoro che sempre più manca, si fa “nero” o diviene precario.

Secondo gli ultimi dati Eurostat:
nell’Eurozona (nell’area dei 17 paesi che adottano l’Euro) la disoccupazione è salita a settembre all’11,6% (appena un anno prima si fermava solo al 10,3%);
in tutti i 27 stati dell’Unione, i senza lavoro hanno raggiunto quota 10,6% (contro il 9,8% del’anno precedente);
in un solo mese, il numero di disoccupati è salito di 169 mila unità nell’Ue a 27 (di 146 mila nel’’Eurozona);
in un solo anno, i senza lavoro sono cresciuti di 2,145 milioni di unità nell’intera Ue (2,174 milioni solo nell’area della moneta unica);
in termini assoluti, l’esercito di disoccupati ha raggiunto quota 25,751 milioni in Europa (18,49 milioni solo nell’Eurozona).

E in Italia?
Nel nostro Paese, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 10,8% (fonte Istat):
a far peggio di noi i paesi più direttamente travolti dalla crisi finanziaria del 2008 (Irlanda 15,1%), i paesi del sud Europa più colpiti dalla crisi dei debiti sovrani del 2010 (Spagna 25,8%, Grecia 25,1% e Portogallo 15,7%) ed i paesi dell’Est europeo (Lettonia 15,9%, Slovacchia 13,9%, Bulgaria 12,4% e Lituania 12,9%);
a far nettamente meglio, invece, i paesi del nord Europa e dello “zoccolo duro” europeo (Danimarca 8,1%, Gran Bretagna 7,9%, Finlandia 7,9%, Svezia 7,8%, Belgio 7,4%, Germania 5,4%, Olanda 5,4%, Lussemburgo 5,2% ed Austria 4,4%).
L’Italia, così, si pone apparentemente in una posizione mediana: a fronte di quasi 23 milioni di occupati (pari al 56,9% della popolazione attiva), sono “2,8 milioni” i disoccupati: “554 mila” unità in più in un solo anno.
Per intendersi, è come se nel 2012 tutti gli abitanti di una città come Genova, la sesta più popolosa d’Italia, avessero perso il posto di lavoro!
Ma, come se non bastasse, questa è solo un’illusione statistica che nasconde una realtà del “non lavoro” ben più drammatica.
La ragione?

PRIMO:
Annoverando tra i disoccupati anche coloro che un lavoro hanno smesso di cercarlo -i cd. “scoraggiati”-, il tasso di disoccupazione salirebbe al “12,5%”, attestandosi come il sesto più alto dell’Eurozona (fonte Bce).

SECONDO:
Il “trend” della disoccupazione è allarmante: per il 2013 si prevede che i senza lavoro raggiungeranno i “3 milioni” e sfonderanno il muro del’11%, giungendo a quota “11,4%” (fonte Istat); tra il 2011 e il 2020, inoltre, il numero dei disoccupati aumenterà di oltre “1,5 milioni” di unità (fonte Cnel).

TERZO:
Dal novero ufficiale dei senza lavoro restano esclusi:
i cd. “Neet”, giovani che né studiano né si specializzano né cercano lavoro (oltre “2 milioni” in Italia);
i giovani che studiano e non lavorano (non a caso in Italia ci si laurea più tardi che nel resto d’Europa);
le donne che hanno rinunciato a cercare un lavoro, preferendo dedicarsi a tempo pieno alla famiglia (non a caso il mercato del lavoro italiano è tra i più penalizzanti e discriminatori per le donne);
i cassintegrati, lavoratori dipendenti per il quali il sussidio, il più delle volte, precede un formale licenziamento (500 mila);
i precari, tutti coloro che non hanno un contratto a tempo indeterminato (quasi “4 milioni”);
i cd. “precari mascherati”, ovvero i falsi collaboratori e le false partite Iva con un solo committente (circa 400 mila).

In conclusione, allargando la platea dei senza lavoro a chi un lavoro non lo cerca, lo ha precario o rischia seriamente di perderlo, si sfiora quota9 milioni” di italiani!


IL DRAMMA DELLA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

“Giovani e lavoro”. Un ossimoro o un binomio ancora possibile?
Secondo l’ultimo rapporto di Eurostat (sempre più somigliante a un “bollettino di guerra” aggiornante il conto dei “caduti dal lavoro”), il quadro occupazionale si fa sempre più drammatico per i giovani: a settembre, tra gli under 25 il tasso di disoccupazione ha raggiunto quota 23,3% in Europa (contro il 21% dell’anno scorso) e i giovani disoccupati sono 5,520 milioni nel Vecchio Continente (3,493 milioni solo nell’Eurozona).
Secondo l’Oil, inoltre, quest’anno la disoccupazione giovanile raggiungerà quota 12,7% a livello globale, salendo al 17,5% nelle economie sviluppate.

E in Italia?
Il nostro Paese detiene un primato ben poco invidiabile nell’Eurozona, raggiungendo il podio della disoccupazione giovanile collocandosi al terzo posto, insieme al Portogallo, con il 35,1%:
a far peggio di noi solo i cd. stati “pigs”, dove anche più della metà degli under 25 non lavora (54,2% in Spagna e 55,6% in Grecia);
a far nettamente meglio i paesi del centro Europa, dove la disoccupazione giovanile non supera nemmeno la doppia cifra (4,4% in Austria, 5,2% in Lussemburgo, 5,4% in Olanda e Germania).

Il “tallone d’Achille” del Bel Paese si conferma, dunque, la mancanza d’impiego fra i più giovani: circa “2,8 milioni” i senza lavoro (fonte Istat), un numero pari al totale dei residenti della Capitale!
Se un giovane italiano impiega mediamente 33 mesi -quasi 3 anni!- per trovare il primo impiego, negli Stati Uniti di mesi ne bastano cinque (fonte Cerp).
E non fanno ben sperare le previsioni del Cnel, secondo le quali, tra il 2011 e il 2020, i giovani attivi italiani si ridurranno di oltre “515 mila” unità.

La disoccupazione giovanile è un fenomeno di per sé “fisiologico”, dovuto alla maggiore inesperienza e alla minore ricerca di lavoro da parte dei giovani.
Quando raggiunge simili livelli da “codice rosso”, però, si è di fronte ad una “patologia del Sistema”, che non può fronteggiarsi né con dosi massicce di ottimismo né con un arrendevole fatalismo!


IL FENOMENO DEI “NEET”

Una “gioventù bruciata”, senza né arte né parte e con il futuro alle spalle, sta crescendo in Europa.
La Banca d’Italia li ha definiti “scoraggiati”, l’Istat “inattivi”, lo Svimez -prendendo in prestito un termine coniato nel Regno Unito- Neet” (“not in employment, education or training”): comunque li si chiami, giovani d’età compresa tra i 15 e i 29 anni, non iscritti ad alcun percorso formale di istruzione, non frequentanti alcun corso di formazione, senza lavoro e rinuncianti a cercarne alcuno.

Quanti sono i Neet?
Nel triennio 2005-2008 erano poco meno di 2 milioni, pari al 20% della popolazione nella stessa fascia d’età; nel 2010 sono saliti a “2,3 milioni”, circa il 23,4% (fonte Banca d’Italia e Ministero del Lavoro).
Solo in Bulgaria gli “scoraggiati” sono più numerosi: in Francia e nel Regno Unito sono il 14,6% della popolazione giovanile, in Germania appena il 10,7%.
Se i Neet italiani fossero messi tutti insieme, costituirebbero la seconda città del Paese, essendo pari alla somma degli abitanti di Napoli e Torino messi insieme: se non si interviene in tempo a fronteggiarne la crescita, così, il rischio è che in pochissimo tempo l’immaginaria “città dei Neet” diventi la prima!

I soggetti più a rischio di trovarsi in tale “limbo”, secondo un’indagine di Eurofound, sono i giovani:
presentanti delle disabilità (un individuo con disabilità ha il 40% in più delle possibilità di appartenere a questo gruppo);
con un background di immigrazione (i giovani immigrati, rispetto ai coetanei autoctoni, hanno il 70% in più delle probabilità di diventare Neet);
con un basso livello di istruzione (o i cui genitori hanno un basso livello di istruzione);
con un reddito familiare basso (o con genitori disoccupati);
meridionali (le città che detengono il primato negativo di giovani che né lavorano né studiano sono tutte concentrate al Sud: Napoli 37%, Catania 36,4%, Brindisi 36,3% e Palermo 36,3%).

Perché non si può restare indifferenti?
Per una ragione semplice: i Neet sono il termometro di un crescente “malessere sociale” che rischia di contagiare tutto il Sistema!
Il “neetismo” comporta un enorme costo sociale, legato non solo all’inattività di una parte della popolazione in età lavorativa ma anche ai sussidi per la disoccupazione e alle altre forme di sostegno cui tali soggetti necessariamente faranno affidamento.
Secondo Eurofound, nei 21 Paesi membri UE presi in esame, i costi economici della mancata partecipazione dei Neet al mercato del lavoro ammonterebbero ad oltre “90 miliardi” di euro l’anno (2 miliardi a settimana): l’inserimento nel mercato del lavoro di solo il 10 % dei Neet, quindi, comporterebbe un risparmio di quasi “10 miliardi”.
Solo in Italia, il costo economico dei Neet supererebbe i “26 miliardi” di euro l’anno, pari all’1,7% del Pil.

Il profilo medio di un Neet fotografato dall’Istat è quello di un giovane che vive coi genitori, non va al teatro né al cinema, legge meno dei propri coetanei, non fa sport e naviga poco su internet: dispone ovviamente di più tempo libero ma, generalmente, lo spreca dormendo, mangiando e lavandosi di più, guardando la tv, fumando e bevendo molto.
Una generazione “vivacchiante”, sonnecchiante, apatica, annoiata, nichilista, rassegnata... un po’ fannullona e bambocciona, eternamente in attesa che improbabili occasioni di lavoro bussino alla porta
Ma è giusto “generalizzare”?
È possibile credere che l’Italia sia un Paese con un esercito di oltre 2 milioni di “fannulloni”?
E la loro sarebbe una “scelta di vita”?

L’impressione è che i veri “sfaccendati” siano un’esigua minoranza, anche fra i Neet.
Cosa ce lo suggerisce?
I Neet “disoccupati” sono 729 mila. Ma è corretto giudicare sfaticati chi semplicemente un lavoro lo ha perso, per di più in un paese profondamente in crisi come il nostro?
I Neet “inattivi”, che non si dedicano alla ricerca di un lavoro in quanto scoraggiati ma disposti a lavorare se solo cogliessero un’occasione, sono 746 mila. È forse loro la colpa di vivere in una realtà dove spesso bravura e passione non contano nulla, piuttosto servono le amicizie o, al limite, l’utilizzo del corpo come merce di scambio?
I Neet “non disponibili” al lavoro sono 635 mila. Di questi, però, quasi la metà (279 mila) rinunciano per dedicarsi a tempo pieno alla famiglia. È giusto stigmatizzare tale scelta in un Paese che non offre adeguati servizi alle famiglie ed in cui per le donne è ancor più difficile trovare lavoro e ottenere una retribuzione dignitosa?
Di Neet “per scelta” -i veri “scansafatiche”, punto e basta- ne rimarrebbero soli 356 mila: sempre tanti, ma pur sempre lontani da quota 2 milioni!

Stereotipare i Neet come “fannulloni” non aiuta a comprendere questa realtà sociale.
Non a caso, secondo l’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro), per molti giovani l’inattività non è una scelta ma il risultato di scoraggiamento e marginalizzazione, determinato da un insieme di fattori (la mancanza di qualifiche, problemi di salute e povertà, altre forme di esclusione sociale…).
Se non si interviene tempestivamente per ridare stimoli e speranze ad una generazione sfiduciata, il rischio è che presto sia troppo tardi.
Come sarà possibile disinnescare questa “bomba sociale” tra 10 o 15 anni, quando i Neet di oggi non potranno più contare sul sostentamento familiare e saranno troppo vecchi anche per i lavori più umili e dequalificati?
Che futuro aspetta un’intera generazione senza un lavoro stabile, una casa e l’opportunità di formarsi una famiglia?


IL FENOMENO DEI “BAMBOCCIONI”

In Giappone li chiamano “parasaito shinguru” (“single parassiti”), in Germania “nesthockers” (“quelli che non abbandonano il nido”), in Francia “Tanguy” (da un omonimo film uscito nel 2001), in Inghilterra “kippers” (acronimo di “kids in parents pockets eroding retiremen saving”, tradotto “quelli che restano a casa ed erodono la pensione e i risparmi dei genitori”).
In Italia è stato il compianto Padoa Schioppa, nel 2007 ministro dell’Economia, a coniare l’infelice neologismo “bamboccioni” per definire quei giovani incapaci di affrancarsi dai genitori, continuando a vivere sotto il loro stesso tetto ben oltre il termine degli studi e l’ingresso nel mondo del lavoro.
Da allora, l’interesse verso tale fenomeno sociale sembra essere cresciuto di pari passo al fenomeno stesso.

Quante sono le vittime di quest’apparente “sindrome di Peter Pan”?
Più del 31% degli italiani maggiorenni abita con almeno un genitore: tra i 18-29enni coabita con i genitori il 60,7%, tra i 30-45enni il 26% (fonte Censis).
Anche se il fenomeno non è esclusivamente italiano, nel nostro Paese si resta in famiglia fino ad un’età che non ha pari nel resto d’Europa: in media, 28 anni.

Quando parlò per la prima volta Padoa Schioppa della necessità di “mandare i bamboccioni fuori di casa”, lo scandalo dei subprime americani era solo agli inizi.
Tuttavia la crisi economica ha segnato virtualmente uno spartiacque: se, prima del 15 settembre 2008 (data del fallimento della Lehman Brothers), la causa dei cd. “mammoni” era per lo più sociologica (convenienza, pigrizia, riluttanza ad assumersi responsabilità), adesso la causa è sempre più meramente economica (bamboccioni lo si è rimasti -o lo si è divenuti- “per necessità”).
Non più solo la “paura del futuro” bensì le problematicità del presente sono le cause prime della cd. “sindrome del ritardo”, per cui si esce in età più avanzata dalla scuola e dalla famiglia.
Disoccupazione, difficoltà ad arrivare a fine mese, impossibilità a pagarsi l’affitto o ad accedere a un mutuo per l’acquisto di una casa: rendersi indipendenti, in questo contesto, è un “lusso” per pochi!

La famiglia è divenuta l’unico welfare efficiente, un provider impeccabile di servizi e tutele, un modello eccezionale di solidarietà tra generazioni.
Nulla di deprecabile, sennonché, quando la casa natia diviene più che un’opportunità una prigione, il rischio per giovani disabituati alle responsabilità della vita è di non riuscire più a venirne fuori!
Come se non bastasse, le famiglie italiane si stanno progressivamente impoverendo (dati Istat):
mentre nel 1995 una famiglia riusciva a mettere da parte il 22% delle proprie entrate, nel 2011 la quota di reddito accantonato si è ridotta all’11,5%;
oltre il 15,7% delle famiglie italiane vive in condizioni di disagio economico, con una percentuale che supera il 25% nel Mezzogiorno;
una su tre, infine, non riesce più a sostenere spese impreviste, ricorrendo all’indebitamento.
Per quanto tempo ancora la rete familiare di protezione sociale saprà contenere l’onda montante del disagio giovanile?


GLI STAGISTI

“Uno su mille ce la fa”.
Quale altra canzone candidare ad “inno ufficiale” della Repubblica degli stagisti?!

Gli stagisti (o tirocinanti) sono studenti (o neolaureati) interessati a fare esperienza pratica nel mondo del lavoro per essere avviati ad una professione.
In Italia:
oltre 300 mila giovani ogni anno fanno stage nelle imprese private (fonte Unioncamere);
circa il 55% dei laureati, sia triennali che specialistici, svolge un tirocinio appena concluso il proprio percorso di studi (fonte Almalaurea);
il 13,3% delle imprese italiane, nel 2010, ha accolto stagisti.

Lo stage può rappresentare una valida opportunità per “farsi le ossa” offerta a giovani ancora “vergini” professionalmente: non è un rapporto di lavoro, bensì un’esperienza formativa.
Ma è sempre così?
In realtà, molte aziende abusano dello “specchietto per le allodole” di promettenti stage per arruolare tra i propri dipendenti giovani senza tutele né stipendio, “disposti a tutto” pur di ben figurare dinanzi a un possibile futuro datore di lavoro.
Non si contano più i casi di tirocini impostati come rapporti di lavoro a tutti gli effetti (in cui gli stagisti vengono chiamati ad assolvere compiti e mansioni privi di alcun contenuto formativo) o di tirocinanti privati non solo di alcun compenso economico ma persino del rimborso spese (in Italia, diversamente da paesi come la Francia, la legge non impone alle aziende di pagare gli stagisti: ciascun ente o azienda ha la facoltà di decidere autonomamente se concedere o meno un emolumento).
Il risultato?
Più della metà degli stagisti non percepisce nulla (per molti di loro svolgere un tirocinio vuol dire lavorare non tanto gratis quanto “a proprie spese”!), mentre solo al 12% di loro, concluso il periodo di formazione, viene proposto un contratto di assunzione (fonte Unioncamere).

Lo stage è divenuto una catena di montaggio funzionale allo sfruttamento di manodopera giovanile qualificata e a bassissimo costo.
Eppure per molti neolaureati ottenere un posto da stagista entro i fatidici 12 mesi dalla laurea rimane un’opportunità imperdibile: l’ultima spiaggia cui naufragare per non affondare nel mare di concorsi ad ostacoli e colloqui infiniti che si prospetta all’orizzonte.


“GENERAZIONE 1.000 EURO”

In Italia non solo è difficile trovar lavoro ma, allorché trovato, è una pia illusione ambire al famigerato “posto fisso”: l’80% dei giovani finisce impigliati nella rete della precarietà, da cui non è affatto facile liberarsi.
“Flessibilità” e “precarietà” sono concetti diversi: la flessibilità è un’opportunità professionale, la precarietà una drammatica condizione esistenziale.
Eppure oggi flessibile fa sempre più rima con precario.

Per molti rimane un “totem” l’idea che la precarizzazione del lavoro costituisca l’unica via possibile per perseguire la crescita e lo sviluppo.
Tutte le riforme del mercato del lavoro susseguitesi negli anni (dalla “legge Treu” del 1997 -che ha introdotto i famigerati “co.co.co.”- alla “legge Biagi” del 2003 -che ha creato i contratti di lavoro “a progetto” ed “a chiamata”-) hanno introdotto una crescente deregolamentazione del lavoro, non accompagnata da adeguate tutele per i nuovi lavoratori “atipici”.
Ed i frutti di queste politiche oramai, più che maturi, sono cadenti!
Lavoro a tempo determinato o part-time, ma anche contratti di somministrazione (ex interinali) o di collaborazione (a progetto, coordinata e continuativa, mini co.co.co., occasionale), ed ancora associati in partecipazione, prestatori d’opera con partita Iva, cessione di diritti d’autore, vouchers, lavoratori dello sport: richiede un duro lavoro anche solo orientarsi in questa inesplicabile “giungla” contrattuale!

Quanti sono i lavoratori precari?
Circa “4 milioni”:
1,4 milioni i lavoratori “atipici” in senso stretto (collaboratori a progetto dei settori privati, co.co.co. della pubblica amministrazione, associati in partecipazione, collaboratori occasionali e lavoratori che cedono i diritti d’autore nei settori dell’informazione e dello spettacolo);
2,5 milioni i lavoratori a tempo determinato o con contratti di somministrazione (gli ex interinali);
400 mila le false partite Iva.

Questa la fotografia più aggiornata del mondo del lavoro in Italia (fonte Datagiovani):
tra gli under 35, i precari sono raddoppiati in otto anni, passando dal 20% del 2004 al 39% del 2011;
nel biennio 2009-2010, oltre il 76% delle assunzioni è stata fatta a tempo determinato, mentre i contratti di lavoro standard sono stati solo il 20,8% del totale (su quattro lavoratori neoassunti, tre sono precari!);
nel 2011 i contratti a termine in Italia ammontavano al 50% del totale (nel 2001 erano solo il 9,6%!);
lo stipendio di un precario regolarmente è inferiore dal 20% al 33% rispetto alla retribuzione netta mensile di un collega stabilizzato;
la retribuzione media di un precario si attesta sugli 836 euro netti al mese: 927 euro mensili per i maschi, 759 euro per le donne (fonte Cgia di Mestre).
Secondo gli ultimi dati di Unioncamere, nell’ultimo trimestre del 2012, su oltre 218 mila assunzioni nelle imprese dell’industria e dei servizi, “solo il 19%” (circa un contratto su cinque) sarà a tempo indeterminato o apprendistato.
E tutto questo senza considerare che i precari di oggi saranno destinati a divenire i poveri di domani: secondo uno studio del Cerp di Torino, dopo 40 anni di contributi, beneficeranno di una pensione media di 7.303 euro lordi l’anno, pari a “608 euro” mensili!

I cultori della “flexibility no limits” difendono la tesi per cui il riconoscimento alle aziende di una piena libertà di assunzione e licenziamento produrrebbe maggiore mobilità dei lavoratori, occupazione e retribuzioni più alte.
Non tutti gli economisti, però, concordano.
Guglielmo Forges Davanzati (docente presso la Facoltà di Economia dell’Università “Federico II” di Napoli), ad esempio, sostiene che la “flessibilità spinta” sarebbe la principale causa della riduzione dei salari, dei consumi e dell’occupazione.
La deregolamentazione del mercato del lavoro, a suo avviso:
1- disincentiverebbe gli investimenti in innovazione (se un’impresa può fare profitti comprimendo i salari ed i costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori, non avrà convenienza ad investire nell’innovazione tecnologica);
2- ridurrebbe la propensione al consumo (l’incertezza dei lavoratori in ordine al reddito futuro li spinge ad aumentare i risparmi);
3- ridurrebbe l’occupazione (la possibilità di aumentare la produttività dei lavoratori con la minaccia di un licenziamento o di un mancato rinnovo contrattuale riduce il ricorso a nuove assunzioni);
4- incentiverebbe la “finanziarizzazione” dell’economia (la compressione della domanda di beni e servizi, conseguente alla riduzione di salari e consumi, disincentiva gli investimenti produttivi, dirottando quote crescenti del capitale in investimenti speculativi).
Proprio quest’ultima è la causa prima della crisi mondiale che stiamo attraversando, che, scoppiata negli Usa, ha subito contagiato l’Europa.

La precarietà è in grado di ridurre i lavoratori a fantasmi di un “limbo senza regole”: costretti ad elemosinare un nuovo rinnovo contrattuale o alla ricerca continua di un nuovo lavoro; discriminati rispetto ai propri colleghi stabilizzati; senza adeguate certezze di percezione di reddito futuro; senza alcuna garanzia di formazione professionale continua; in totale soggezione al datore di lavoro (disponendo quest’ultimo di un potere contrattuale incomparabile); privati del diritto a progettare un futuro, per sé e la propria famiglia (Sposarsi? Fare un figlio? Acquistare un’auto? Chiedere un mutuo?).
In questo contesto:
i giovani pagano sulla propria pelle il prezzo del cd. “brain waste” (o “spreco di cervelli”), trovandosi costretti ad accettare impieghi che richiedono l’applicazione di una piccola parte delle conoscenze acquisite;
le donne sono doppiamente penalizzate, trovando lavoro con maggior difficoltà, essendo pagate meno dei loro colleghi e dovendo frequentemente ritardare la maternità, se non proprio rinunciarvi (è un caso che l’Italia, con una media di 1,4 figli per donna, è tra i paesi al mondo col più basso indice di natalità?).

Fino agli anni ’90, la speranza era un sentimento così diffuso da far convinti i padri che il futuro “avrebbe sorriso” ai propri figli.
C’è da sorprendersi se, invece, oggi ha assunto sembianze sempre più “minacciose”?


LA FUGA DEI “CERVELLI”

C’è ancora una possibilità di futuro per i giovani in questo Paese?
Il rischio è che prevalga la rassegnazione: se fra i giovani meno istruiti e più disagiati ne è segno l’emergere del “Neetismo”, tra i più preparati suscita allarme la cd. “fuga dei cervelli” (o “brain drain”), non tanto una fuga dalle proprie responsabilità, quanto una vera e propria fuga dal proprio Paese!
Se alla “fuga delle imprese” abbiamo già fatto l’abitudine (la delocalizzazione industriale è un processo in costante aumento: “Fiat docet”), con la “fuga dei cervelli” stiamo appena iniziando a fare i conti.
E cervelli non sono più solo i ricercatori scientifici (attratti dalle maggiori risorse e dai minori vincoli alla ricerca all’estero) ma anche giovani laureati di qualsiasi settore.

“Non vedo l’ora di lasciare l’Italia!”: questa una delle espressioni d’insofferenza più ricorrenti tra i giovani studenti.
Come stupirsi se in Italia il flusso migratorio verso la Germania è aumentato del 6,3%, tra il 2009 e il 2011 (fonte Il Sole 24 ore)?
In Germania sono 8 milioni gli under 30 con un’occupazione (generalmente ben retribuita), in Italia appena 3 (fonte CdS).
Un buon motivo per tentare la fortuna oltralpe, no?

I dati parlano da soli:
ogni anno i giovani under 40 in fuga dall’Italia sono circa “100 mila” ed hanno superato quota “2 milioni” nel 2010 (fonte Italents);
tra il 2009 e il 2010 , su 18 mila dottori di ricerca presi in esame, quasi 1.300 (il 7%) sono andati all’estero (fonte Istat);
dal 2001 al 2010, l’incidenza dei cittadini laureati sul totale degli espatri è raddoppiata, passando dall’8,3% al 15,9% (fonte Istat).

Ma quanto ci costa questa fuga?
Secondo la Fondazione Lilly, negli ultimi vent’anni, ogni ricercatore che è andato a lavorare fuori dai confini nazionali ci è costato una perdita di “148 milioni” di euro (essendo stati “155” i brevetti prodotti da parte dei venti migliori ricercatori italiani all’estero e “301” i brevetti ai quali ricercatori italiani hanno partecipato in modo significativo).
Complessivamente quasi “4 miliardi” di euro, senza considerare la vanificazione dell’investimento in formazione dei giovani talenti regalati all’estero e la perdita di valore per il nostro tessuto industriale.

La mobilità internazionale del lavoro non è un fenomeno da stigmatizzare.
La cultura scientifica di un paese, anzi, aumenta se il flusso di scienziati in uscita e in entrata è continuo e robusto.
I flussi migratori in uscita di italiani con elevato livello d’istruzione, a dir il vero, sono inferiori rispetto a quelli tedeschi o inglesi: Germania e Regno Unito presentano, in termini assoluti, il maggior numero di giovani espatriati fra tutti i 27 Paesi dell’Unione, rispettivamente 900.000 e 400.000, contro i soli 300.000 italiani (dato 2005, fonte “Organization for Economic Cooperation and Development”).
La sostanziale differenza è che, mentre questi paesi vantano anche una straordinaria “capacità attrattiva” di cervelli stranieri, l’Italia si pone al 24simo posto al mondo per competitività nell’attrarre talenti, preceduta persino dalla Grecia (fonte Centro Studi Confindustria).
Il problema italiano, allora, è un saldo netto “emigrati-immigrati qualificati” pesantemente negativo:
su ogni 100 laureati nazionali, ce ne sono solo 2,3 stranieri (contro una media Ocse del 10,45%);
le università italiane, con una media del 3,1%, sono le ultime per presenza di studenti stranieri (contro una media Ocse del 10%, che sale all’11,2% in Francia, all’11,4% in Germania fino al 17,9% in Gran Bretagna);
i laureati italiani che lavorano nei 30 Paesi Ocse sono 395.229, mentre gli stranieri qualificati che hanno scelto di venire a lavorare in Italia sono solo 57.515 (solo 7 “cervelli” Ocse su 1.000 hanno scelto l’Italia come destinazione).

Un paese che cede facilmente all’estero i suoi migliori talenti senza attrarre giovani stranieri virtuosi subisce una perdita netta di “capitale umano”.
Continuando così le cose, il pericolo è che l’Italia si trasformi in un paradiso per turisti e pensionati!
Per questo una priorità assoluta deve essere:
da un lato, frenare il “brain drain” (l’“export” di cervelli);
dall’altro, incentivare il “brain gain” (l’“import” di intelligenze straniere), il “brain exchange” (lo scambio di cervelli tra paesi) e il “brain circulation” (la circolazione dei cervelli, il loro spostamento all’estero per approfondire gli studi, lavorare e fare ritorno in patria, dove mettere a frutto le competenze così acquisite).
Una sfida che si può vincere solo in un modo: rendendo il nostro un Paese migliore.
Ovviamente “tra il dire e il fare…”.

Pier Luigi Celli, direttore generale della Luiss, in una discussa lettera pubblica indirizzata al figlio, lo ha esortato ad abbandonare l’Italia:
“Questo Paese -scrive Celli- non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio.
Ti conosco abbastanza per sapere quanto sia forte il tuo senso di giustizia, la voglia di arrivare ai risultati(…), l’idea che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel lavoro che incontrerai.
Guardati attorno(…). Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all’attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai.
Per questo(…) il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell’estero.
Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati.
Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi”.
Non conosciamo la strada che ha preso suo figlio -francamente non ci preoccupa-, ma sappiamo che molti italiani, pur senza essere “figli di qualcuno”, hanno seguito il suo consiglio.



Ripartiamo dalla Costituzione, che chiunque governi dovrebbe leggere e rileggere come un “mantra” prima di assumere qualsiasi decisione:
Art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”;
Art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”;
Art. 35: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”;
Art. 36: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”;
Art. 37: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”.

+ SCUOLA

Sempre più spesso si sono spacciate per riforme strutturali mere riforme di bilancio, utilizzando impropriamente il verbo “riformare” come sinonimo di “tagliare”.
Ciò è particolarmente vero nel settore dell’Istruzione, considerato alla stregua di uno dei tanti capitoli di spesa dell’imponente bilancio statale.
Non sorprende scoprire che, secondo uno studio dell’Ocse (“Education at a glance 2011”), in Italia:
nel 2008, solo il 4,8% del Pil è stato speso per l’Istruzione, rispetto alla media Ocse del 6,1% (posizionandosi al 29simo posto su 34 paesi);
tra il 2000 e il 2008, la spesa sostenuta per studente è aumentata solo del 6%, contro una media Ocse del 34% (il secondo incremento più basso tra i 30 paesi considerati);
la spesa per studente non aumenta notevolmente in base al livello d’istruzione, passando da 8.200 dollari al livello pre-primario a 9.600 al livello terziario, rispetto ad un aumento medio nell’area Ocse da 6.200 dollari al livello pre-primario a 13.700 al livello terziario;
tra il 2000 e il 2009, gli stipendi degli insegnanti sono leggermente diminuiti (-1%), mentre nell’are Ocse sono aumentati in media del 7%, in termini reali.

Investire sulla Scuola vuol dire investire sul futuro dei giovani, dunque del Paese di cui questi sono la sola speranza.
Occorre rimettere la Scuola, l’Università e la Ricerca “al centro” dell’agenda politica di qualsivoglia governo, prescindendo dai vincolo di bilancio: è “miope” immaginare di ridurre il debito pubblico di un Paese aumentando il suo “debito culturale”!

Come ridare centralità alla Scuola?
Ecco alcuni suggerimenti:
superamento della “parità scolastica” (causa della distrazione di risorse pubbliche in favore di istituti scolastici paritari) per ridare centralità alla scuola pubblica.
La legge n.62 del 2000 ha equiparato le scuole private a quelle pubbliche.
La realtà, però, ci rivela che:
-                      il 90% delle famiglie italiane continua a preferire le scuole pubbliche per i propri figli (solo uno studente italiano su dieci frequenta una scuola privata, nonostante queste già rappresentino circa un quinto delle scuole italiane);
-                      l’Italia è all’ultimo posto tra i paesi Ocse per la qualità dell’insegnamento nelle sue scuole private, in molte materie;
-                      la riforma sulla parità scolastica raggira sostanzialmente il dettato dell’art. 33 della Costituzione, secondo cui “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”.
riduzione a 7 anni della Scuola dell’obbligo, accorpando la Scuola elementare e la Scuola media in un comune ciclo formativo;
riqualificazione degli Istituti professionali, per troppo tempo bistrattati e considerati meno dignitosi rispetto ai più gettonati licei;
aggiornamento dei piani di studio, dando priorità allo studio delle lingue straniere e dell’informatica (come uscire da una scuola senza saper parlare ottimamente l’inglese o privi della competenza per un uso professionale del pc?) ed introducendo lo studio del diritto e dell’economia in ogni percorso d’istruzione (come ambire ad entrare nel mondo del lavoro ignorando i propri diritti di cittadinanza e non avendo nozione di cosa sia un contratto?);
trasformazione delle scuole in “centri di aggregazione giovanile”, aperti tutto il giorno tutti i giorni per offrire ai ragazzi ulteriori servizi e spazi usufruibili al di fuori dell’orario delle lezioni (ad esempio, tutor per gli studi, biblioteche, aule informatiche, palestre, cineforum);
messa in sicurezza di tutti gli edifici scolastici. Secondo un rapporto di Cittadinanzattiva, solo un quarto degli edifici scolastici è in regola con tutte le certificazioni di sicurezza, si contano lesioni strutturali in una scuola su dieci, distacchi di intonaco in una su cinque, muffe ed infiltrazioni in una su quattro. E’ davvero il Ponte di Messina, allora, la prima infrastruttura di cui il Paese più necessita? Non aiuterebbe anche il rilancio dell’economia un piano per l’edilizia scolastica che preveda almeno un cantiere aperto in ogni grande città?;
riqualificazione delle scuole disagiate di periferia o dei quartieri più problematici delle grandi città (si pensi allo Zen a Palermo o a Scampia a Napoli), da considerare il primo “presidio di legalità”;
maggiore attenzione al merito degli studenti. Perché non premiare con borse di studio, la gratuità dei libri di testo o viaggi premio gli studenti più meritevoli di ogni istituto? Perché non stimolare negli studenti la convinzione che impegnarsi di più, nello studio come nella vita, “conviene”?
maggiore attenzione al merito dei docenti. Perché non prevedere retribuzioni supplementari (premi, incentivi e gratifiche) in base ai risultati conseguiti dagli insegnanti, istituendo “centri di valutazione” in ogni istituto scolastico, di cui far partecipi anche le famiglie e gli studenti?
rivalutazione del ruolo sociale dell’insegnamento. Occorre riaffermare il principio per cui compito degli insegnanti non è solo “istruire” ma anche “educare” i giovani. Ma come pretendere che i docenti esprimano il massimo impegno ed entusiasmo nel loro lavoro quando vengono sempre “meno considerati” dagli alunni -spesso col complice sostegno dei loro familiari- e sempre più “bistrattati” dallo Stato -non disposto a retribuirli dignitosamente, ma pronto ad accusarli di non lavorare abbastanza-?

+ UNIVERSITà

La Riforma Berlinguer dell’Università, che ha introdotto il cd. “3+2” (Decreto ministeriale n.509 del 1999), ha mostrato negli anni tutti i suoi limiti, fallendo negli obiettivi sia di migliorare la qualità dell’offerta formativa, sia di ridurre i tempi per il conseguimento della laurea.
La Riforma Gelmini (legge n.240 del 2010), invece, non ha prodotto altro che ridurre le risorse destinate al mondo accademico e precarizzare i ricercatori universitari, d’ora in avanti assunti “solo” con contratto a tempo determinato.
Il risultato?
Moltiplicazione di corsi di laurea per lo più inutili; caos didattico nell’applicazione del sistema dei “cfu” (crediti formativi universitari); aumento del numero dei fuoricorso (molti non riescono a laurearsi prima dei 28 anni); diminuzione del numero dei laureati (solo il 60% dei laureati di primo livello finisce la specialistica); introduzione di alquanto discutibili test d’ingresso; inaccessibilità dei dottorati; strutture sempre più inadeguate, con studenti non di rado costretti a prendere appunti a terra in aule sovraffollate; posti letto ridotti e caro degli affitti per gli studenti (favorito dalla carenza di alloggi universitari); fondi insufficienti per il pagamento delle borse di studio; tasse universitarie sempre più care...
È possibile credere che la colpa di tutto questo sia dello “scarso impegno” o dell’incapacità di adattamento dei giovani?

L’impressione è che, come al solito, “si guardi al dito per non mirare la luna”:
la spesa pubblica in educazione terziaria è pari a meno dell’1% del Pil, a fronte di una media Ocse dell’1,5%;
la spesa per studente risulta in media di 5.628 euro, contro una media Ocse di 8.455 euro;
nessuna università italiana risulta tra le 100 migliori al mondo;
negli ultimi 30 anni la percentuale dei laureati è cresciuta meno che altrove (tra i 15 ed i 64 anni, solo il 15% delle persone è laureato o ha un titolo di studio equivalente, a fronte di una media Ocse del 31% ed una media europea del 28%)?

Come ridare slancio all’Università?
Occorre una riforma organica basata su alcuni principi base:
superamento del sistema “3+2” e della follia dei “crediti universitari”, istituendo corsi di laurea quinquennali;
abolizione del “numero chiuso”, sostituendolo con una valutazione del merito in itinere. I test d’ingresso sono spesso “inadeguati” per una selezione degli studenti più meritevoli, impedendo a ragazzi ancora immaturi di confrontarsi col mondo dell’Università. Sarebbe preferibile aprire democraticamente le porte “a tutti” ma selezionare meritocraticamente i migliori. Come? Inserendo al primo anno accademico alcune materie fondamentali sulle quali testarne l’attitudine e consentendo il proseguimento degli studi “solo” a coloro che avranno sostenuto tutte le materie previste o che avranno maturato una media voti elevata;
introduzione del “principio duale” (la contemporaneità della formazione di carattere teorico, che si svolge in aula, e professionale, che si acquisisce in azienda), superando il “principio sequenziale” fin qui adottato (secondo il quale la formazione professionale segue quella di carattere teorico). Si tratterebbe di favorire la formazione professionale in itinere, ad esempio rendendo obbligatori i tirocini curriculari e coinvolgendo nell’insegnamento professionisti che operano sul campo;
miglioramento dell’orientamento universitario, indirizzando i ragazzi nella scelta dei percorsi di studi che offrono più prospettive di lavoro (ad esempio, offrendo borse di studio premianti a coloro che scelgono le facoltà scientifiche);
potenziamento del diritto allo studio, assicurando l’effettiva erogazione di tutte le borse di studio assegnate, approntando piani di investimenti in edilizia studentesca e garantendo agli studenti tariffe agevolate per l’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblico.

+ RICERCA

Il nostro Paese si colloca al 15simo posto in Europa per investimenti in ricerca e sviluppo, preceduto persino da Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia e Slovenia.
Secondo l’Ocse, nel 2011 l’Italia ha investito solo l’1,09% del proprio Pil in tale settore: numeri da “terzo mondo”, considerando che, tra i paesi più industrializzati, solo il Sud Africa fa peggio (con lo 0,92%).
Investono nettamente più del 2% del proprio Pil, invece, la Francia (2,11%), la Danimarca (2,43%), l’Austria (2,45%), la Germania (2,53%), gli Usa (2,62%), l’Islanda (2,78%), la Svizzera (2,9%) la Corea del Sud (3,23%), il Giappone (3,39%), la Finlandia (3,45%), la Svezia (3,73%) e Israele (4,53%).
Che futuro può avere un Paese che ha abbandonato l’agricoltura (surclassato dalle merci a basso costo provenienti dal Mediterraneo), arretra sempre più nel campo manifatturiero (non potendo seriamente competere con la solida manifattura tedesca o l’emergente industria cinese) e rinuncia persino ad investire sul proprio capitale umano?

Occorre ridare “centralità” alla ricerca ed allo sviluppo tecnologico.
Ecco da dove e come ripartire:
maggiori investimenti nella ricerca, ponendosi l’obiettivo minimo di raggiungere il 2% del Pil in investimenti nel settore nell’arco temporale di 3-5 anni;
maggiori incentivi alle imprese per l’innovazione tecnologica, ad esempio detassando gli investimenti privati in ricerca ed abolendo l’Irap;
realizzazione della “banda ultra larga” (o fibra ottica) in tutto il Paese;
costituzionalizzazione del diritto al “libero accesso a Internet”, inserendo un apposito richiamo all’interno dell’articolo 21 sulla libertà di stampa e di parola.

Troppo poco ci si occupa dello “spread digitale” (o “digital divide”) che distanzia l’Italia dal resto del mondo sviluppato.
Secondo la Commissione europea, il nostro Paese in Europa figura:
terzultimo come percentuale di popolazione che si connette alla rete almeno una volta a settimana (preceduto persino da paesi come Cipro, Croazia e Polonia, avanti solo a Bulgaria e Portogallo);
penultimo per la copertura di internet veloce (o Adsl) sul territorio nazionale (solo l’Irlanda fa peggio di noi);
ultimo per la copertura di internet superveloce (o fibre ottiche), coprendo solo il 10% del territorio (la Francia copre il 20% ed ambisce al 37% entro il 2015 ed al 100% nel 2025, il Portogallo il 60%, la Svizzera il 90%, la Corea ed il Giappone il 100%).

Oltre il 41% degli italiani non è “mai” entrato in rete: il doppio o il triplo rispetto alla Francia (24%), la Germania (17%) o il Regno Unito (10%).

 

Quando si parla di “alta velocità” che manca, allora, si dovrebbe in primis avere in mente l’arretratezza della nostra rete internet.

Il Tav Torino-Lione (linea ferroviaria destinata a “far volare” in Europa le merci provenienti dalla Cina dopo una lenta traversata transoceanica) ci costerà tra i 15 e e i 20 miliardi di euro: le stesse risorse che basterebbero a collegare il 100% degli italiani ad Internet superveloce.
La differenza?
Realizzare la banda ultralarga in Italia comporterebbe un aumento del Pil, ogni anno e fino al 2030, dall’1,5% (secondo le stime più pessimiste della commissaria europea per l’Agenda digitale, Neelie Kroes) al 3% (secondo l’Osservatorio “I costi del non fare”, di Andre Gilardoni).
Il futuro di questo Paese, allora, dipenderà dalla lungimiranza della politica nello scegliere la strada giusta.
E l’impressione è che la banda ultralarga rappresenti l’autostrada tecnologica di cui l’Italia ha più bisogno per ricominciare a correre.

+ OPPORTUNITÀ

La ricerca di un lavoro per i giovani si è trasformata in un “percorso ad ostacoli”.
Come rimuovere le principali barriere che intralciano il raggiungimento di questo traguardo?
Più liberalizzazioni. Gli ordini professionali spesso rappresentano il primo ostacolo all’ingresso di giovani leve nel mondo delle professioni: non stupisce che, tra gli oltre 2 milioni di iscritti agli ordini, appena il 9,4% abbia meno di 30 anni (un notaio su due ha più di 50 anni, quasi tre medici su quattro sono over 45!).
Meno burocrazia. Occorre “sburocratizzare” le procedure per avviare un’impresa o un’attività commerciale, creando una rete di sostegno alle nuove imprese.
Più sgravi fiscali. Serve favorire l’assunzione dei giovani nel mercato del lavoro, abbattendo quel cuneo fiscale che rende alle imprese diseconomico assumere e ai lavoratori troppo leggera la busta paga.
Crediti agevolati. Necessita sostenere i giovani che vogliano intraprendere un’attività d’ingegno o d’impresa, in quanto i più penalizzati dal sistema bancario: secondo le stime della Banca Mondiale, il tasso di esclusione dal credito in Italia è del 25%, uno dei più elevati dell’Unione Europea.

- PRECARIETÀ

La precarietà è divenuta una drammatica “condizione esistenziale” per molti giovani.
Come combatterla efficacemente?
Ecco alcuni prioritari interventi:
Riforma degli stage. Occorre incentivare i tirocini “curriculari” (introducendo quantomeno il diritto del tirocinante ad un rimborso spese) e vietare gli stage “extracurriculari” (chi termina gli studi e svolge un’attività presso un’azienda deve essere regolarmente assunto e retribuito, ad esempio con contratto di apprendistato).
Riforma del lavoro. Serve ridurre le molteplici forme contrattuali esistenti (prevedendone solo quattro per i lavoratori dipendenti: contratto di apprendistato, part-time, a termine e indeterminato) e rendere più conveniente assumere a tempo indeterminato.
Riforma del welfare. Necessita unificare il sistema dei diritti e delle tutele di tutti i lavoratori (superando l’attuale divisione tra un mercato del lavoro di serie A “super tutelato” ed uno di serie B) ed introdurre un’indennità di disoccupazione (o reddito minimo garantito).
Piano casa per i giovani. Si rende opportuno concedere ai giovani “mutui agevolati” per l’acquisto della prima casa, ed esentare dall’Imu le prime case per i redditi più bassi e le seconde qualora destinate in dote ai figli.

- GERONTOCRAZIA

Quel giorno in cui anche l’Italia potrà vantare un ministro del Lavoro “under 40”, forse la politica eviterà certe “gaffe” ed avrà una maggiore consapevolezza delle reali problematiche delle ultime generazioni.
Per obbligarla ad aprirsi di più ai giovani in un paese sempre più “a misura di pensionato”, perché non riconoscere in Costituzione il diritto di voto già a 17 anni?


In conclusione, non esistono riforme “a costo zero”, salvo dovute eccezioni (come in tema di liberalizzazioni, dove a mancare non sono tanto le risorse quanto il “coraggio politico” di contrastare forti lobby).
Ogni azione qui proposta ha un costo, che sarebbe più facilmente sostenibile se l’Italia disponesse di una maggiore “salute finanziaria”.
L’arte della politica, però, implica sempre delle scelte.
Bastano alcuni dati: il bilancio delle Regioni ammonta a “208 miliardi” (dato 2010), il gettito delle entrate tributarie statali a “411 miliardi” (dato 2011), il bilancio generale dello Stato a “780 miliardi” (dato 2012).
Se si è convinti che la “questione giovanile” sia un’emergenza nazionale, le risorse vanno “ad ogni costo” trovate!
è compito della politica stabilire “quanti” sprechi tagliare, “come” razionalizzare la spesa pubblica improduttiva e “dove” prioritariamente investire.
E, nell’attesa che un Parlamento di ultracinquantenni si accorga che il Paese è composto anche da giovani, è consigliabile a quest’ultimi di fare affidamento solo su se stessi…




Il professore: “Lei promette bene, voglio darle un consiglio: ha una qualche ambizione?(…). Se ne vada dall’Italia! Lasci l’Italia finché è in tempo! Qualsiasi cosa decida, vada a studiare a Londra, a Parigi, vada in America, se ha le possibilità, ma lasci questo Paese. L’Italia è un Paese da distruggere: un posto bello e inutile, destinato a morire(...). Qui rimane tutto immobile, uguale, in mano ai dinosauri. Dia retta, vada via…”

Lo studente: “E lei, allora, perché rimane?”

Il professore: “Come perché? Mio caro, io sono uno dei dinosauri da distruggere!”
(dialogo estratto dal film “La Meglio Gioventù”)




dal sito  Panta Rei


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