ARCHIVIO TEMATICO (in allestimento. Pronto l'indice dei redattori)

venerdì 16 novembre 2012

VIOLENZA INDIVIDUALE, PASSIVITÀ COLLETTIVA di Norberto Fragiacomo






VIOLENZA INDIVIDUALE, PASSIVITÀ COLLETTIVA
di
Norberto Fragiacomo

Nell’opera Uno specchio lontano (1979), la storica Barbara Tuchman scrive, a proposito del Trecento: “L’epoca si era ormai assuefatta da tempo alla violenza fisica”, che “era delle istituzioni come degli individui”. Per esemplificare il clima del secolo, la Tuchman narra che uno dei divertimenti preferiti dai contadini alle feste campestri era quello di sfidarsi ad ammazzare a testate (!) un gatto crocifisso a una staccionata: il rischio di perdere un occhio aumentava l’eccitazione collettiva.
Simili racconti suscitano orrore frammisto a indignazione: oggidì (vivisezione a parte!) chi è sorpreso a seviziare un animale viene quasi sempre denunciato, e va incontro a una condanna severa. Sembrerebbe, dunque, che il passare dei decenni abbia perfezionato la natura umana: poi, però, ci imbattiamo in casi come quello del tassista milanese massacrato, in periferia, per aver involontariamente travolto un cagnolino, e precipitiamo nella confusione – che, di fronte ad episodi come quello di Novi Ligure o di Gretta (Trieste), si muta in stordimento, paralisi. 
Siamo infiltrati da diavoli in forma d’uomo, o la realtà è più complicata?

Così come descritto dai testi scolastici, l’evo antico è un susseguirsi di guerre, rivolte e stragi: nella Roma repubblicana sovente gli scontri politici sfociavano in aggressioni armate. Il più clamoroso (se non il primo) ripudio della violenza fisica ci viene da Gesù Cristo, che invita l’offeso a porgere l’altra guancia. Parole ai libri, parole al vento. Nell’età del dominato e nei successivi secoli bui, la società (o quel che ne resta) diventa ancor più violenta, l’esistenza precaria: la Chiesa, ertasi a Stato, ha abolito i giochi gladiatori, ma il male prospera in mezzo al gregge.
Non è la morale cristiana ad aver redento l’europeo: prima della Tuchman, ce l’hanno insegnato decine di storici.

Forse è stata la civiltà illuminista a renderci (relativamente) “buoni”: il diffondersi delle conoscenze, oltre che di principi come quelli di libertà e fratellanza, avrebbe elevato gli occidentali dalla barbarie. Il grande Socialista gallese Robert Owen (1771-1858) aveva un’orgogliosa certezza: educazione ed istruzione sarebbero state le levatrici di un’umanità virtuosa, egualitaria e pacifica.
Un’osservazione superficiale parrebbe dargli ragione: le nostre esperienze giovanili testimoniano che mediamente il bravo studente è più restio ad “alzare le mani” rispetto, che ne so, al garzone o al ragazzo di strada. Significa che la persona istruita è naturalmente più mansueta, o soltanto che ha appreso meglio l’arte della prudenza? Non esistono risposte univoche – l’impressione è che il buon cittadino sia tale perché ha imparato a controllare la propria aggressività, a sublimarlaTralasciamo il “santo” e il “mostro” che, in quanto eccezioni (tremila anni fa come oggi), non fanno testo: stiamo parlando dell’uomo medio. Stiamo parlando di noi stessi. Le vicende degli innumerevoli Rudolf Höss del Novecento (amorevoli padri di famiglia e zelanti, talvolta compiaciuti esecutori di ordini criminosi) ci raccontano che la “buona educazione” e i titoli di studio contano fino a un certo punto: il cittadino modello – che mai si sognerebbe di crocifiggere un gatto, e tratta con amoroso rispetto moglie e prole -  può sprigionare la stessa carica di violenza del primitivo. “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo (…)”, ci ammonisce il poeta.
Uno statistico rileverebbe verosimilmente che oggidì, perlomeno in Europa, i crimini violenti sono in calo rispetto al passato, in parte per l’effetto benefico della scolarizzazione – che ha contribuito a mettere al bando comportamenti prima tollerati, come l’incesto o i maltrattamenti domestici – in parte per altre cause, da ricercare. Questo in linea generale, perché quando la situazione esce dall’ordinarietà – si pensi alle frequenti guerre – il comportamento torna ad essere belluino: i torturatori di Abu Ghraib e gli assassini di Srebrenica si troverebbero a loro agio in un’orda barbarica o in una carneficina medievale.
Ad essere determinante è dunque il controllo sociale, oggi più capillare che in qualsiasi età precedente della Storia umana.  Come nasce (anzi: come è nato), e per quali ragioni immediate?

Più che il sorgere dello Stato nazionale, poterono le esigenze dell’economia. Finché la prosperità di un Paese si basava sui frutti della terra, il guinzaglio poteva essere tenuto abbastanza lasco: al contadino, in genere, non si richiede di “fare squadra”. 
Quando, agli albori del capitalismo moderno, la produzione di beni, da artigianale, diviene collettiva, le necessità cambiano: l’ammassamento di numerosi operai in singoli edifici e la novità della divisione del lavoro impongono il mantenimento di una forzosa “armonia”. I litigi e l’inimicizia ostacolano il buon funzionamento della macchina produttiva: di conseguenza, i lavoratori vengono irreggimentati e sottoposti a ferrei codici disciplinari (echi di quest’antica severità si avvertono in alcuni passaggi della recente Riforma Brunetta, non a caso finalizzata a ristabilire “sani” rapporti gerarchici tra dirigenti e bassa forza). E’ quindi il capitalismo dei primordi a mettere la mordacchia alla aggressività individuale, e non certo per motivazioni “morali”, bensì utilitaristiche. Se si tiene a mente che i proletari del ‘700-‘800 trascorrevano in fabbrica la maggior parte della loro esistenza, non appare strano che l’addestramento abbia avuto successo, condizionando la condotta delle masse. La società civile mutua il modello aziendale: ne restano fuori alcuni ambienti periferici, che sviluppano sottoculture delinquenziali (ad es. le corti dei miracoli francesi); più in generale, si prevedono opportune valvole di sfogo. La principale è la guerra: la Gran Bretagna si annette mezzo globo terrestre grazie alla spietata gagliardia dei suoi proletari, avi degli attuali hooligans.
Il molosso non si è ammansito con gli anni, è semplicemente tenuto alla catena. Quando lo liberano, sbrana con la stessa ferocia di un tempo.

Nell’ultimo mezzo secolo, al guardiano tradizionale (il timore della sanzione) se ne è aggiunto un secondo: l’ipnosi consumistica. All’uomo contemporaneo è stato gettato un osso succulento, spacciato per benessere: è il consumismo. La pubblicità promette una vita agiata, e l’eterna giovinezza. Il rifiuto della morte si traduce in rifiuto dell’azione; l’essere umano si aliena in un eterno presente, fatto di acquisti compulsivi e rispetto di orari prefissati. Non basta. La pubblicità esige un rapporto esclusivo, che si consuma sul divano, dinanzi alla tivù perennemente accesa. Il risultato? La solitudine, la mollezza, l’obnubilamento – l’inettitudine a relazionarsi coi propri simili.
L’aggressività sopravvive nel profondo, e provoca le tragedie di cui, ogni mattina, c’informano i giornali radio – inspiegabili solo per quanti fingono di non conoscere l’animo umano. Si tratta, tuttavia, di deflagrazioni isolate, che non mettono a repentaglio la sopravvivenza della società, vale a dire di chi ci governa, ma che in qualche maniera le assomigliano.
Lo scopo è stato raggiunto… forse.
L’astinenza da consumo, inevitabile effetto della crisi, potrebbe infiammare gli individui, renderli meno facilmente gestibili; la coscienza di aver poco o nulla da perdere (Graecia docet) costringerà i pochi consapevoli a rompere gli indugi, e a farsi “pastori di popoli”.
Al momento, sappiamo soltanto che popolazioni intere subiscono quotidianamente violenza da avide elite economiche, e che la legittima difesa è sempre giustificabile.
Angelo con lo zoccolo caprino, l’uomo non merita di penare in un inferno retto da speculazione e ingordigia: da un legno storto può sempre nascere un albero dritto.


Trieste, 24 settembre 2011





Nessun commento:

Posta un commento