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giovedì 24 gennaio 2013

DITTATURA DEL PROLETARIATO E SOCIALISMO: NON SOLO TEORIA di Norberto Fragiacomo


DITTATURA DEL PROLETARIATO E SOCIALISMO: NON SOLO TEORIA
di
Norberto Fragiacomo


In questo scritto tratteremo – ovviamente senza nessuna pretesa di completezza – una questione in apparenza astratta e teorica, che però, come si proverà a dimostrare, ha avuto una notevolissima ricaduta pratica sulla storia del ‘900: ci riferiamo al passaggio da una società caratterizzata dal modo di produzione capitalistico al comunismo.
Nel Capitale, a conclusione del Libro primo, Karl Marx descrive piuttosto sinteticamente l’agonia del sistema capitalista, ma si assenta prima che sopravvenga il decesso, e rinuncia a formulare ipotesi sul dopo. Ci dice soltanto – semplifico all’eccesso – che, ad un certo punto, l’irreversibile caduta del tasso di profitto condurrà all’accentramento del capitale in pochissime mani (mani non più impegnate, nemmeno indirettamente, nella produzione) e ad una proletarizzazione di massa dei ceti intermedi. La crème del capitalismo, ormai ridotta a un pugno di rentiers, avrà esaurito la propria funzione storica e vivrà la sua vecchiaia letteralmente alle spalle dei lavoratori, senza svolgere altro ruolo che quello del parassita. Si appaleserà, con abbacinante chiarezza, il contrasto insanabile tra il sistema capitalistico e la necessità per le forze produttive di espandersi ulteriormente: i resti di quella che si era presentata come una classe sommamente rivoluzionaria (la borghesia) si riveleranno un freno a progresso e sviluppo, demandati a lavoratori salariati ormai pienamente autosufficienti. Toccherà a questi ultimi, presa coscienza dei nuovi rapporti di forza, scrollarsi di dosso il pesante fardello: finalmente “gli espropriatori saranno espropriati”.
Sul come l’espropriazione debba avvenire[1] e sugli assetti del mondo futuro il Marx del Capitale non si sbilancia, pur lasciandoci intuire che il modello sarà l’autorganizzazione dei ceti produttivi. La seconda tematica viene schematicamente affrontata in un opuscolo polemico del 1875, occasionato dalla pubblicazione del programma del partito operaio tedesco – un programma che dispiacque al padre del socialismo scientifico per la sua indeterminatezza e la persistenza di echi lassalliani[2]. Nella Critica al programma di Gotha Karl Marx getta un fuggevole sguardo sul domani, distinguendo tra una prima fase, “inferiore”, del socialismo/comunismo (per il filosofo di Treviri i due termini sono sinonimi!) ed una seconda fase, quella del socialismo compiuto. Diamogli senza indugio la parola[3]: “quella con cui abbiamo da far qui è una società comunista, non come si è sviluppata sulla propria base, ma viceversa, come sorge[4] dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno essa è uscita, Perciò il produttore singolo riceve – dopo le detrazioni – esattamente ciò che dà. (…) Questo ugual diritto è ancor sempre contenuto entro un limite borghese. (…) Questo diritto uguale è un diritto disuguale, per lavoro diseguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri. (…) Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista, quale è uscita dopo i lunghi travagli del parto della società capitalistica.” Successivamente (dopo dieci anni? dopo un secolo? M. non è un indovino, e quindi non ce lo dice), “in una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e corporale; dopo che il lavoro (…) è diventato il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo (…) sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza, - solo allora l’angusto orizzonte borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ciascuno secondo i suoi bisogni!”
Quello appena citato è uno dei passi marxiani più noti e suggestivi (l’uomo di Treviri era, fra le varie cose, uno scrittore di straordinario talento), che va letto in unum con alcune frasi contenute nella quarta parte dell’operetta[5]. Al pari degli anarchici, Marx e i suoi seguaci ritengono inevitabile l’estinzione dello Stato, strumento di dominio borghese, ma – in contrapposizione a Bakunin – affermano che, prima di sparire, lo Stato ha un ultimo compito da portare a termine: “tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato. Ma il programma (di Gotha) non si occupa né di quest’ultima né del futuro Stato della società comunista.
Interpretando sistematicamente le parole dell’autore, giungiamo alla conclusione che le due fasi postrivoluzionarie sono, in verità, tre: il periodo transitorio della dittatura proletaria, il comunismo imperfetto – perché inquinato da residui borghesi – e quello realizzato. La domanda da porci è la seguente: quand’è, precisamente, che lo Stato scompare? L’ultima proposizione marxiana sembra intorbidare le acque, suggerendo una sopravvivenza dello Stato almeno fino al termine della fase c.d. inferiore. Un testimone d’eccezione, Friedrich Engels[6], ci convince del contrario: “Con l'instaurazione del regime sociale socialista lo Stato si dissolve da sé e scompare. Non essendo lo Stato altro che un'istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per schiacciare con la forza i propri nemici, parlare di uno "Stato popolare libero" è pura assurdità: finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell'interesse della libertà, ma nell'interesse dello schiacciamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere. Noi proporremmo quindi di mettere ovunque invece della parola "Stato," la parola "Comune," una vecchia eccellente parola tedesca, che corrisponde alla parola francese Commune.
Ecco spiegato l’arcano: lo Stato condannato all’estinzione dopo lo “schiacciamento degli avversari” del proletariato e il venir meno della divisione in classi è quello politico, cui la borghesia assegna compiti di repressione; la Res publica comunista (definita, per l’appunto, Comune) ha la funzione, radicalmente diversa, di favorire l’autogoverno dei cittadini ed il pieno godimento della libertà da parte di ognuno, in una società pacificata ed omogenea[7]. La confusione è dunque meramente terminologica, non concettuale.
Per quanto si protrarrà il periodo intermedio? Marx ed Engels non possono saperlo: per tutto il tempo necessario a completare l’opera di abbattimento del regime borghese, ripetono laconicamente. Possiamo arguire che si tratterà di una fase piuttosto rapida dal fatto che la rivoluzione/trasformazione non è un evento accidentale, un incendio che scoppia per puro caso, bensì il punto d’arrivo di un lungo processo storico: la scintilla è destinata a scoccare non prima che la struttura economica della società, già collettivistica, entri in aperta contraddizione con la sovrastruttura borghese. Ai rivoluzionari non resterà che arare il campo, dopo averlo liberato dalle erbacce.
Gli spunti presenti nella Critica del programma di Gotha verranno sviluppati, quasi mezzo secolo dopo, dal più geniale e “pratico” tra i continuatori di Marx: Vladimir Lenin. Il grande marxista russo dedicherà al tema dello Stato rivoluzionario una trattazione organica nell’opera Stato e Rivoluzione (1917), scritta nei mesi immediatamente precedenti alla conquista del potere, in Russia, da parte dei bolscevichi, ed anche negli anni successivi tornerà svariate volte sull’argomento. Saranno proprio l’esperienza acquisita sul campo, nei panni di leader rivoluzionario, e la necessità di confrontarsi con una realtà complessa e quasi indecifrabile a determinare talune oscillazioni nel pensiero leniniano, un certo distacco dagli ammaestramenti del fondatore del marxismo e, soprattutto, dai suoi epigoni occidentali (Kautsky in primis).
Nella sezione V del saggio appena menzionato, Lenin parafrasa quanto detto da Marx a proposito della prima fase della società comunista, ricorrendo volentieri a citazioni, ma inserisce pure qualche elemento di novità, differenziando il “socialismo” della prima fase dal “comunismo” della seconda e precisando che, nella società socialista, “lo Stato non si è ancora estinto completamente, poiché rimane la salvaguardia del "diritto borghese" che consacra la disuguaglianza di fatto. Perché lo Stato si estingua completamente occorre il comunismo integrale.[8]
Questa lettura del testo del ’75 si discosta notevolmente da quella che abbiamo proposto poc’anzi, ed implica uno strettissimo rapporto, quasi una sovrapposizione, tra il periodo della dittatura del proletariato e quello socialista, entrambi caratterizzati dalla perdurante esistenza del vecchio modello statuale. In effetti, par di capire che la società socialista sia destinata ad affermarsi proprio durante la transizione: “Ora, la dittatura del proletariato, vale a dire l’organizzazione dell’avanguardia degli oppressi in classe dominante per reprimere gli oppressori, non può limitarsi a un puro e semplice allargamento della democrazia. Insieme a un grandissimo allargamento della democrazia, divenuta per la prima volta una democrazia per i poveri, la dittatura del proletariato apporta una serie di restrizioni alla libertà degli oppressori, degli sfruttatori, dei capitalisti (…) ed è chiaro che dove c’è repressione, dove c’è violenza, non c’è libertà, non c’è democrazia.
Non siamo gli unici a pensare che, sul punto, l’allievo innovi, e contraddica il maestro. Secondo l’eminente studioso (marxista) Paresh Chattopadhyay, “il socialismo, anche quando venga considerato, in accordo con Lenin, come la prima fase del comunismo di Marx, evidentemente è già la nuova società e non può essere la transizione alla stessa società. Invece il periodo di transizione di Marx si riferisce a quello che precede la prima fase del comunismo. Confondere ancora la transizione di Marx con la prima fase, dove i produttori hanno cessato di essere proletari, significherebbe far volatilizzare il lungo processo di auto emancipazione dei produttori e trasformare le posizioni di Marx in quelle di Bakunin[9]”.
Alla luce di quanto fin qui esaminato, l’affermazione di Chattopadhyay appare incontrovertibile – sorprende, però, che un uomo della precisione e dell’intelligenza di Ul’janov possa aver grossolanamente travisato un concetto tutto sommato limpido. E se il travisamento fosse intenzionale, o addirittura frutto di un adattamento della teoria originaria? In fondo, il rivoluzionario di Simbirsk opera in un contesto – la Russia arretrata e immiserita da un triennio di guerra – molto diverso da quello immaginato da Marx ed Engels. Invero, la stessa bipartizione operata da Lenin tra socialismo e comunismo genera un’ambiguità che si può supporre voluta: passaggi come “lo sviluppo progressivo, cioè l’evoluzione verso il comunismo, avviene passando per la dittatura del proletariato e non può avvenire altrimenti” celano forse, dietro il ricalco dell’originale marxiano, un raffinato gioco di prestigio verbale, che assegna un nuovo significato a formule universalmente accettate.
Ma a quale scopo il capo rivoluzionario ripenserebbe Marx, pur mutuandone la terminologia?
A parere di chi scrive, la “contraffazione” è a fin di bene: salva lo spirito del fondatore, pur apportando modifiche al suo schema[10]. Testi alla mano, vedremo di motivare l’assunto.
Va anzitutto tenuto presente che Lenin affianca all’attività di elaborazione teorica l’azione e l’impegno concreto: dal rientro a Pietrogrado[11] (aprile 1917) si misura quotidianamente con i fatti, molto più indocili alla cavezza rispetto alle idee, ed è quindi costretto a frequenti correzioni di rotta. In uno scritto del ’19 Vladimir Il’ic fa un’ammissione interessante[12] (“La dittatura del proletariato in Russia, in confronto ai paesi avanzati, deve inevitabilmente distinguersi per certe sue particolarità, in conseguenza del carattere molto arretrato e piccolo-borghese del nostro paese”), salvo poi precisare che “le forze fondamentali sono in Russia le stesse che in qualsiasi altro paese capitalistico, cosicché queste particolarità possono riferirsi solo a ciò che non è essenziale”). Sotto la dittatura proletaria si compiono i primi passi del comunismo in Russia perché tutte queste condizioni da noi sono realizzate soltanto parzialmente, o, in altre parole, la realizzazione di queste condizioni si trova allo stadio iniziale.
Esattamente due anni dopo, in occasione del quarto anniversario dell’Ottobre Rosso, il capo bolscevico rivendica addirittura il carattere “borghese-democratico” della Rivoluzione: “Il compito più diretto e immediato della rivoluzione in Russia era un compito borghese democratico: eliminare i residui del medioevo, spazzarli via completamente (…) Noi abbiamo condotto la rivoluzione borghese democratica fino alla fine, come nessun altro. Noi procediamo con piena coscienza, fermezza ed inflessibilità verso la rivoluzione socialista, sapendo (…) che soltanto la lotta deciderà in quale misura riusciremo ad avanzare (…) Le trasformazioni democratiche borghesi sono un prodotto accessorio della lotta rivoluzionaria di classe. (…) La prima (cioè la rivoluzione borghese) si trasforma nella seconda (quella socialista)”. Lungi dall’essere giunto al termine, il processo è ancora in corso[13]: abbiamo qui un riferimento al concetto di “rivoluzione permanente”. Riportiamo ancora un paio di frasi tratte dallo stesso discorso, che ci paiono rivelatrici: “Occorreva una serie di fasi transitorie: il capitalismo di Stato e il socialismo, per preparare – con un lavoro di una lunga serie d’anni – il passaggio al comunismo. (…) prendetevi la pena di costruire dapprima un solido ponte che, in un paese di piccoli contadini, conduca verso il socialismo, altrimenti voi non arriverete al comunismo.
Riepiloghiamo: il “capitalismo di Stato”, che qui fa capolino, non coincide con il socialismo, ma ne costituisce una premessa – dunque, è premessa di una premessa. E’ forse sinonimo di dittatura del proletariato la nuova locuzione? Non ci sono evidenze in questo senso[14]: forte della sua solidissima preparazione teorica, Lenin va avanti per tentativi. In ogni caso, al compito attribuito da Marx allo Stato rivoluzionario (schiacciare i nemici di classe) se ne aggiunge un secondo: costruire ex novo una base economica per il futuribile edificio socialista.
L’ultimo pezzo di cui consigliamo la lettura è datato 1923, e fu pubblicato poco prima della morte di Lenin[15]. L’articolo, assai breve (l’autore era da tempo gravemente infermo, e l’ictus gli impediva di scrivere in autonomia), ma densissimo, è un’appassionata difesa delle ragioni del bolscevismo. In risposta alle critiche dei socialdemocratici europei, il rivoluzionario riconosce che in Russia non esistevano, nel ’17, i presupposti economici obiettivi per il socialismo, ma giustamente ribatte: “che fare se la situazione, assolutamente senza vie d'uscita, decuplicava le forze degli operai e dei contadini e ci apriva più vaste possibilità di creare le premesse fondamentali della civiltà, su una via diversa da quella percorsa da tutti gli altri Stati dell'Europa occidentale? Toccava forse subordinare i bisogni e le speranze di decine di milioni di esseri umani al rispetto di un dogma, dimentichi dell’ammonimento dello stesso Marx: “nei momenti rivoluzionari occorre la massima duttilità”? Alla domanda Lenin dà una risposta negativa, e noi la condividiamo, perché siamo certi, al pari di lui, che l’occasione “giusta” rischia di non presentarsi mai, e non ci attira la prospettiva di un’attesa infinita alla “Aspettando Godot”[16]. Un accenno alle “peculiarità” della situazione russa chiude il cerchio: “la Russia - la quale sta alla frontiera tra i paesi civili e i paesi attratti definitivamente da questa guerra per la prima volta nell'orbita della civiltà, i paesi di tutto l'oriente, i paesi non europei - poteva e doveva manifestare alcuni caratteri peculiari, i quali naturalmente sono compresi nella linea generale dello sviluppo mondiale, ma distinguono tuttavia la sua rivoluzione da tutte le rivoluzioni precedenti dei paesi dell'Europa occidentale e determinano alcune innovazioni parziali quando si passa ai paesi orientali.
In buona sostanza, la lezione leniniana è che la scelta di un modello non implica la sua imitazione pedissequa, che le opportunità – quando sono effettivamente tali – vanno colte e che un onesto pragmatismo rientra tra le doti dell’attivista/rivoluzionario. Certi ondeggiamenti ed oscurità testuali derivano dall’incessante sforzo di adeguare e far combaciare la propria analisi con la realtà multiforme dell’esistenza: in un universo in cui persino un fiocco di neve è unico e irripetibile occorrono acume, flessibilità e capacità creative. Lenin segue la dottrina marxiana finché può, se ne discosta[17] quando deve: il suo indiscutibile marxismo risiede nel fatto che, dopo una vita di studi, è riuscito per primo a mettere l’idea in pratica, rivoluzionando la società e gettando le basi per una sua evoluzione in senso comunista[18], che purtroppo non andò a buon fine.
Gli esiti dell’esperimento, in effetti, furono disastrosi: questo non comporta affatto una condanna retroattiva[19] (di solito pronunciata in malafede), ma impone un sovrappiù di ragionamento.
Ora, è fuori discussione che l’Impero zarista, non essendo un Paese a capitalismo avanzato, fosse immaturo per la rivoluzione ed il socialismo/comunismo: Lenin manco si sogna di negarlo, e proprio per questo concepisce una fase dittatoriale di lunga durata (v. supra).
Il periodo di transizione preconizzato da Marx era invece breve, poiché allo scoppio della rivoluzione – questo era il postulato – le nuove forze produttive sarebbero già state operanti, il lavoro sarebbe apparso socializzato e le esigenze di trasformazione radicale si sarebbero appuntate piuttosto sulla sovrastruttura che sulla struttura economica. Insomma, il socialismo/comunismo sarebbe uscito in armi dal bozzolo come Atena dalla testa di Giove.
In Russia tutto ciò era impossibile: come Lenin ribadisce, l’immenso Paese non aveva ancora sperimentato una rivoluzione borghese. Da qui il richiamo ad una presunta (ma difficilmente sostenibile) natura “democratica borghese” dell’Ottobre, l’introduzione, con la NEP, di un capitalismo a livello di bottega e l’invito rivolto a industriali stranieri, una volta conclusasi la guerra civile, ad aprire fabbriche in URSS. Visti il disinteresse dei capitalisti, irrimediabilmente ostili al regime bolscevico, la vastità e la povertà diffusa, non resta al governo sovietico che assumere su di sé l’onere di modernizzare la Russia: la sola opzione è il capitalismo di Stato, “il solido ponte che conduce al socialismo”. Negli anni assistiamo quindi ad una sorta di ripiegamento rispetto al progetto esposto in Stato e Rivoluzione: il socialismo - che pure non s’identifica con la prima fase del regno della libertà tratteggiata da Marx – è di là da venire, per il momento ci si contenta di gettarne le basi. Senza la ricchezza materiale ed un adeguato sviluppo produttivo non ha senso parlare di socialismo né, a maggior ragione, del comunismo dell’abbondanza.
Una decisa accelerazione potrebbe essere favorita dagli eventi europei: ancora nel ’19, Lenin e i suoi collaboratori non dubitano di una prossima esplosione della rivoluzione in Europa – cioè in Germania. La Russia è solo la miccia: la dinamite è il continente più progredito.
Le certezze si sgretolano assai presto: le repubbliche sovietiche bavarese (Toller, Levine) e ungherese (Bela Kun) saranno travolte dalla reazione, gli spartachisti incontreranno una sorte ancor peggiore. Mentre la guerra civile infuria, il giovane governo sovietico subisce l’aggressione degli eserciti occidentali e, più tardi, un durissimo embargo economico (il c.d. “cordone sanitario”). Un’ultima puntata ad occidente si infrangerà contro la resistenza polacca (1920); poi subentra una tregua armata, ma la situazione permane instabile, con l’URSS accerchiata[20] e sotto costante minaccia d’invasione. Avesse previsto il futuro, sappiamo che Lenin nel ’17 avrebbe rinunciato al “colpo” per cui si preparava fin dalla giovinezza: lui stesso non credeva alle prospettive della rivoluzione in un solo Paese, per di più arretrato, e – negli anni convulsi tra il 1917 e il 1920 – presentì varie volte il crollo del suo regime.
A salvare il potere sovietico furono la perseveranza del leader, l’abilità organizzativa e militare di Trotzky e, soprattutto, il territorio sconfinato: la Russia ha le dimensioni di un continente[21] e proprio per questo, al contrario di Baviera e Ungheria, non può essere occupata militarmente da eserciti che, nel caso specifico, erano usciti stremati da un tremendo conflitto.
L’eccezione, comunque, conferma la regola secondo cui un moto rivoluzionario socialista (=comunista) ha durature possibilità di successo solo se interessa l’intero mondo sviluppato o, perlomeno, la maggioranza dei Paesi guida, perché (riassumiamo) l’avverarsi di tale condizione 1) riduce la durata della transizione e, conseguentemente, 2) i rischi di un’involuzione autoritaria; 3) impedisce o attenua l’interferenza di forze esterne.
Esplicitiamo l’ultimo punto: già ai tempi di Marx l’economia capitalista era parzialmente “globalizzata”[22]; il fenomeno dell’internazionalizzazione si accentua tra ‘800 e ‘900 (non a caso, Lenin gli dedicherà uno dei suoi libri più celebrati[23]). Se il capitale è “cittadino del mondo”, altrettanto vale per i suoi detentori: assistiamo, nel diciannovesimo secolo, al formarsi di una borghesia apolide per interesse, cioè non più legata all’economia del territorio d’origine, di cui Marchionne e i “delocalizzatori” sono i pronipoti.
Gli appartenenti a questa classe conducono affari un po’ ovunque, e i loro emissari arrivano nei più sperduti angoli del globo: pertanto, essi reagirebbero con estrema fermezza ad un sommovimento socio-economico anche di rilievo locale, facendo intervenire forze militari al loro (indiretto) servizio o foraggiando gli oppositori attivi sul posto. Visto che la dittatura del proletariato è finalizzata alla neutralizzazione dei nemici di classe, e che questi non cessano di tramare, in combutta con i loro “confratelli”, una volta varcato il confine, per una comunità nazionale isolata e sotto tiro la transizione si prolungherebbe fino al giorno del giudizio[24], ed anche la fase “inferiore” resterebbe una pia illusione.
Se a questo aggiungiamo che l’URSS di novant’anni fa, oltre ad essere isolata, era ancora un Paese preindustriale non possiamo sorprenderci del fatto che, malgrado gli sforzi di Lenin (morto troppo presto), non sia mai andata al di là della fase “transitoria” del capitalismo di Stato: Eric Hobsbawm annota convincentemente[25] che, al di là della valutazione (pessima) sull’uomo, Stalin non aveva alternative alla corsa all’industrializzazione intrapresa alla fine degli anni ’20. Cosa avrebbe fatto Lenin, se fosse stato ancora vivo? Presumibilmente lo stesso, ipotizza lo studioso inglese, anche se con minore brutalità.
Arretratezza ed isolamento sono due problemi che la Russia bolscevica riesce a superare appena dopo il secondo conflitto mondiale (al prezzo di una cifra oscillante tra i 12 e i 28 milioni di morti, e grazie alla bomba atomica): allora, forse, la transizione si sarebbe potuta conchiudere.
Così non fu, evidentemente perché i dittatori “in nome e per conto” del proletariato si erano affezionati al potere, ed erano restii ad abbandonarlo: fino alla fine ingloriosa (ma, se non altro, incruenta!) dei suoi giorni, l’URSS rimase un capitalismo di Stato con alcuni elementi di socialismo[26], retto da un ceto burocratico permeabile ma nettamente distinto dalla cittadinanza comune, il cui entusiasmo, peraltro, era svanito da tempo.
Quale fu l’errore di Vladimir Il’ic Ul’janov? A parer nostro, quello di non commettere veri e propri errori[27] (oltre che di morire prematuramente, ma dell’ictus avrebbe fatto volentieri a meno). In circostanze straordinariamente difficoltose, e con tutto il mondo contro, l’uomo di Simbirsk riuscì a manovrare con accortezza, a realizzare l’impensabile, ad infondere speranza e orgoglio ad una generazione nata in servitù[28]. Nonostante l’inerzia del proletariato europeo e l’ostilità dei governi imperialisti, l’Unione Sovietica sopravvisse al parto; era però debole e malata sin dall’infanzia, e i medici che, dopo Stalin, l’ebbero in cura, la lasciarono deperire, finché si spense.
Cosa rimane di un’esperienza settantennale? Nient’altro che l’esperienza stessa: poca cosa, ma funzionale, se non altro, a gettare un po’ di luce sul presente e il prossimo futuro.
Prima di andarsene, Vladimir Lenin propose al Comitato Centrale di accogliere nel suo grembo 50-100 tra contadini e operai, per rendere più difficile il formarsi di una casta di governanti. Il suggerimento non fu accolto (e anche se fosse stato accolto non avrebbe mutato il corso degli eventi), ma è prezioso anche per noialtri: ci rammenta che, per quanto non serva un popolo intero per trasformare una società, una ristrettissima elite non basta. E’ necessaria e – crediamo – sufficiente una minoranza agguerrita e consapevole. 





[1] Coerentemente con la sua mentalità di scienziato (sociale), Karl Marx non si avventura in previsioni sulle modalità di svolgimento di un’ipotetica rivoluzione sociale – ipotetica, sottolineiamo, perché, criticando il programma del Partì Ouvrier ed il massimalismo del suo leader Jules Guesde (1880), il nostro autore sembra prendere in considerazione la possibilità di una transizione pacifica dal sistema capitalista a quello socialista.
[2] Ferdinand Lassalle (1825-1864) fu un teorico ed agitatore socialista tedesco che, a coronamento di una vita avventurosa, morì ancor giovane in duello. Marx, che finì per detestarlo (e che nei confronti dei rivali, veri o presunti, si mostrò sempre poco cavalleresco), non gli risparmia, nel libello, critiche mordaci e qualche colpo basso, a cui il povero Lassalle, scomparso da un decennio, non poteva ovviamente replicare. 
[3] I testi di Marx, Engels e Lenin da cui abbiamo tratto le citazioni sono liberamente consultabili sul sito internet MIA (http://www.marxists.org/italiano).
[4] In tutte le citazioni di seguito riprodotte, il corsivo è sempre dell’autore, il grassetto del sottoscritto.
[5] Delle due fasi si parla, invece, nella prima parte.
[6] Nella lettera ad August Bebel (dirigente socialdemocratico tedesco) del 18 marzo 1875.
[7] All’opposto dei precedenti dominatori (borghesi, feudatari medievali ecc.), il proletariato vittorioso non creerà nuove masse di sfruttati, ma si farà umanità intera. Fine della Storia, perché il suo motore (la dialettica tra le classi) si arresta. G. W. F. Hegel, con le sue sintesi, non è passato invano, ma il sostrato resta giudaico-cristiano (messianismo, Thomas Müntzer, anabattismo ecc.).
[8] “Democrazia vuol dire uguaglianza”, chiarisce Lenin, e la perfetta uguaglianza è concepibile solo nel comunismo realizzato, non prima.
[9] Il suo testo Marx vs Lenin può essere letto in traduzione italiana sul sito http://www.left-dis.nl/i/chatto.htm (il titolo del pezzo è “Il contenuto economico del socialismo. Marx contro Lenin”).
[10] Tocca rammentare che quella di K. Marx è sì scienza, ma “scienza sociale” (C. Preve): le leggi da lui formulate sono il risultato di osservazioni ed approssimazioni. Valide in generale, esse servono a spiegare l’essenza dei fenomeni, non a descriverli minuziosamente.
[11] Ai dietrologi non par vero di poter speculare sul coinvolgimento del miliardario “rosso” Parvus e del Governo del II Reich nell’organizzazione del viaggio in treno dalla Svizzera: Lenin è accusato di intelligenza col nemico (si parva licet componere magnis, l’elettorato pecorone piddino fa insinuazioni simili sul conto di Ingroia, che favorirebbe il cerbero Berlusconi: “è matematica”, recitano a memoria, incapaci come sono di distinguere i numeri dalla propaganda). A nostro avviso, si realizzò tra l’esiliato e la borghesia germanica un’occasionale convergenza di interessi: egli voleva la fine della guerra imperialista, osteggiata fin dal ’14, la sua controparte l’uscita della Russia dal conflitto. Il Trattato-capestro di Brest Litovsk, prova provata del “tradimento” bolscevico, si dimostrò in realtà assai più utile alla neonata URSS che al Kaiser.
[12] Nello scritto Economia e politica nell’epoca della dittatura del proletariato, pubblicato sul numero 250 della Pravda del 7 novembre.
[13] Si consideri che, nella primavera del 1919, Lenin aveva varato la NEP (Nuova politica economica) per rimediare ai danni causati dal comunismo di guerra.
[14] Lenin sostiene che l’epoca del dominio della classe oppressa è appena all’inizio: essa “marcia verso una vita nuova, verso la vittoria sulla borghesia, verso la dittatura del proletariato (corsivo nostro)”.
[15] Sulla nostra Rivoluzione, apparso sul numero 117 della Pravda (30 maggio 1923).
[16] Il dirigente socialista sloveno Henrik Tuma (1858-1935) raffronta polemicamente l’indolenza e il verbalismo dei socialdemocratici occidentali (“Si parlava tanto, in tutte le lingue del mondo civile, di rivoluzione della classe lavoratrice, ma non ci si preoccupava di educare i lavoratori per metterli in grado di farla davvero, la rivoluzione, quando fosse giunto il momento”) con la genuina passione dei russi: “A dir la verità, soltanto la guerra diede vita in Russia ad un importante movimento di contadini e operai. Gli operai, i contadini, ma anche la maggioranza dei borghesi e degli intellettuali erano rivoluzionari senza bisogno di essere indottrinati. (…) Proprio questa generale tensione presente nelle grandi masse del popolo russo e degli altri popoli della Russia permise ad un piccolo drappello di marxisti veramente rivoluzionari di imporsi così saldamente. Certo, ebbero anche la fortuna di trovare in Lenin un leader geniale (H. TUMA, Dalla mia vita, pag. 343).”
[17] Rectius: la aggiorna.
[18] Attenzione: non stiamo indirettamente tacciando Marx di “astrattismo”, né gli imputiamo errori di previsione. Senza il pensatore di Trier il figlio dell’ispettore scolastico di Simbirsk non sarebbe mai assurto a Lenin, né ci sarebbe stato l’Ottobre. Affermiamo soltanto che nessuna costruzione logica, per quanto geniale e armoniosa, può conservare, a contatto col reale, la sua purezza libresca. Era pressoché inevitabile, quindi, che tre fasi tra loro nettamente distinte diventassero ora due ora quattro, contaminandosi pure a vicenda.  
[19] Per un giudizio, sofferto e controcorrente, sul fallimento delle rivoluzioni novecentesche si veda quanto scrive Tiziano Terzani in Buonanotte signor Lenin e La fine è il mio inizio. L’autore in sostanza dice: le conseguenze sono state tragiche, e forse non poteva essere altrimenti, ma fu giusto tentare.
[20] Il primo trattato internazionale con una potenza europea sarà sottoscritto dal governo sovietico appena nel ’22, a Rapallo. Controparte è un altro Stato “paria”, la Germania piegata, nel 1918, dalle potenze dell’Intesa.
[21] Lo stesso vale, mutatis mutandis, per la Cina di Mao. Nel secondo dopoguerra le rivoluzioni comuniste che si sono affermate in Paesi “normali” hanno sempre avuto il sostegno di almeno una delle due grandi potenze.
[22] Il termine è anacronistico, ma rende l’idea.
[23] L’imperialismo. Fase suprema del capitalismo del 1916.
[24] Tra l’altro, all’epoca dei bolscevichi internet non esisteva, oggi sì: la cronaca ci mostra quanto efficace sia la rete – veicolo di propaganda, ma non solo – ai fini della disarticolazione di uno Stato teoricamente sovrano.
[25] Ne Il secolo breve.
[26] Lo Stato sociale sovietico, che vantava delle eccellenze in campo sanitario (v. Divisione Cancro di A. Solgenitsin) e scolastico, è ancora oggi giustamente rimpianto dalla gran massa degli abitanti dei Paesi ex URSS.
[27] Forse peccò di eccesso di ottimismo e sicurezza in se stesso, ma… cos’avrebbe potuto/dovuto fare una persona così profondamente dedita alla causa rivoluzionaria, se non provarci con tutte le energie disponibili? Conoscessimo il destino in anticipo aspetteremmo, inerti e rassegnati, il giorno della nostra dipartita.
[28] I Figli dell’Arbat di A. Rybakov contiene un’indimenticabile descrizione della gioventù moscovita degli anni ’20. Assieme ai sogni, il libro finisce con la morte di Kirov.

3 commenti:

  1. Scritto molto accurato nelle ricerche delle fonti e condivisibile nel 90% dei suoi contenuti.
    Muovo due appunti all'autore, del quale ho già vissuto l'ottima preparazione al congresso di Rifondazione a Trieste nel 2012:
    1. "fino alla fine ingloriosa (ma, se non altro, incruenta!) dei suoi giorni, l’URSS rimase un capitalismo di Stato con alcuni elementi di socialismo", una sbrigativa liquidazione del dibattito sulla natura dell'URSS che prosegue, soprattutto nel campo trotskista di cui faccio parte, dagli anni '40 in poi.
    2. "il fenomeno dell’internazionalizzazione si accentua tra ‘800 e ‘900 (non a caso, Lenin gli dedicherà uno dei suoi libri più celebrati[23]). Se il capitale è “cittadino del mondo”, altrettanto vale per i suoi detentori: assistiamo, nel diciannovesimo secolo, al formarsi di una borghesia apolide per interesse, cioè non più legata all’economia del territorio d’origine, di cui Marchionne e i “delocalizzatori” sono i pronipoti." Farei attenzione anche su questo punto. E' tutto vero quel che si dice, ma andrebbe specificato anche che comunque le borghesie nazionali dei rispettivi paesi sono ben lungi dall'andare in armonia.
    Il capitale ha reso evidente il carattere arretrato delle frontiere nazionali, ma allo stesso tempo le diverse borghesie nazionali, per la natura irriducibilmente competitiva del capitalismo, si scontrano nell'arena globale a difesa dei propri particolari interessi. E' questo il motivo per il quale secondo Lenin e Trotsky la parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa era irrealizzabile sotto il capitalismo. Vediamo oggi tutte le contraddizioni alle spalle del processo di "unificazione" europea. Mettere in secondo piano questo aspetto rischia di dare adito a teorie indimostrate nella realtà come quelle espresse dal binomio Negri-Hardt in "Impero".
    Cordiali saluti e buon lavoro.
    Ne approfitto per segnalare il sito dei marxisti del nord est: marxistinordest.org

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  2. Ringrazio il compagno per l’apprezzamento e le puntuali osservazioni critiche.
    Con riguardo alla prima questione, non nego di essere stato sbrigativo (in parte per scelta, onde evitare che l’articolo diventasse un saggio). Mi spiego brevemente: sono partito dal richiamo leniniano al capitalismo di Stato come “ponte” verso il Socialismo. All’epoca la Russia era isolata (causa l’insuccesso dei tentativi insurrezionali in Europa occidentale) e drammaticamente arretrata (Lenin era ben conscio che, malgrado il proletariato russo fosse pronto all’azione, facevano difetto le “condizioni obiettive” per l’instaurazione del S.): pertanto solo lo Stato avrebbe potuto scavare le fondamenta della società nuova, superando indicibili difficoltà. Ritengo che L. utilizzi la formula “capitalismo di Stato” per indicare, genericamente, un ruolo attivo del governo nell’economia, non per stabilire un parallelismo con il vecchio sistema, fondato su sfruttamento, estrazione di plusvalore ecc. Visto che la ghettizzazione dell’URSS durerà molto a lungo, e che l’industrializzazione giungerà a buon livello – sappiamo a che prezzo – appena negli anni ’30, risulterà inevitabile un istituzionalizzarsi della forma transitoria, accompagnato, peraltro, da conquiste sociali importanti (specie nel campo dell’istruzione). Solo a questo facevo riferimento, senza esprimere giudizi di valore sul governo, le scelte ecc.
    Il secondo tema è ancor più complesso e attuale: proprio ieri, passeggiando nel bosco del Farneto, riflettevo su di esso. In breve: esiste un Impero – cioè una sorta di partito unico del Capitale, che domina incontrastato il globo – o esistono singoli imperialismi, in continua lotta (calda o fredda) fra loro? Se non ricordo male, già in Imperialismo Lenin addebita a Kautsky di sostenere una tesi pre-negriana. Non me la sento di fornire una mia risposta, al momento, ma solo qualche considerazione non definitiva. Quello che, per semplicità, indico come il capitalismo angloamericano ha sicuramente dei contendenti nel mondo (primo fra tutti il sistema-Cina), ed anche in Occidente deve fare i conti con realtà nazionali o regionali (ieri, cioè all’epoca di Lenin, assai più di oggi, chiaramente, e la Grande Guerra lo prova). Tuttavia esso esercita un’indubbia (per me schiacciante) egemonia sul c.d. Primo mondo, e prevale largamente anche negli altri. In Europa lo paragonerei ad un sovrano che dà una certa autonomia ai suoi vassalli, e permette che talvolta si scontrino tra loro (su terreni secondari), ma è sempre in grado di ricondurli all’obbedienza. Oggi – parliamo dell’oggi – la finta unità europea serve alle lobby locali (continentali e nazionali) per fare i loro affari, ma anche, e ancor più, a quella “globale”, peripatetica ma con sede centrale a Washington. Questa superlobby, al pari dell’Impero Ottomano, seleziona i propri funzionari ovunque nel mondo; i suoi fiduciari hanno più di un passaporto, cioè non ne hanno nessuno.
    In sintesi, credo che, con poche eccezioni extraeuropee, i capitalismi nazionali (quel che resta dei capitalismi nazionali, vista la globalizzazione dell’economia!) siano solo relativamente autonomi dal centro e, in ogni caso, ne condividano le politiche odierne (quelle che ci hanno regalato un Monti, per intenderci).

    Saluti,
    Norberto

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  3. Abbiamo aggiunto il vostro sito (marxisti del nord est) tra i nostri siti amici.

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