LO STATO NAZIONALE E’ IN PIENA FASE DI SMANTELLAMENTO.
LE RAGIONI DELLA MIA ASTENSIONE ALLE URNE.
di Giuseppe Angiuli
Domenica prossima non mi recherò alle urne e cerco di spiegarne approfonditamente il perchè.
Il periodo storico che stiamo
vivendo in occidente verrà ricordato sui libri di storia come quello in cui un
intero modello di cosiddetta “democrazia rappresentativa” sta entrando nella
sua fase di più acuta crisi sistemica: dove per “occidente” dobbiamo intendere
l’ampio novero di quelle società, dagli U.S.A. all’Europa, su cui si sono
storicamente innestati i valori-modello dettati dalla Rivoluzione Francese di
fine settecento.
Nell’ottocento, gli Stati
nazionali (e cioè sia quelli di antica formazione, come Spagna, Francia e
Inghilterra che quelli di nuova formazione, come Italia e Germania) si imposero
al fine di conformare le rispettive società alle esigenze economico-produttive
dettate dall’allora giovane capitalismo occidentale. A quell’epoca, il capitale
assumeva una dimensione eminentemente nazionale e le forze sociali allora
dominanti in ciascun Paese trovavano utile e funzionale ai propri interessi
fare affermare, in Italia come altrove, un Parlamento sovrano, un esercito
nazionale, una moneta di conio, un sistema economico-produttivo nazionale, un
sistema scolastico uniforme, ecc.
Per un lungo periodo, le società
occidentali si sono dunque fondate su un paradigma già individuato da Jean
Jacques Rousseau in una delle sue opere più celebri: il contratto sociale, ossia il compromesso tra interessi di diverse
classi sociali all’interno di una società tendenzialmente o almeno
apparentemente unificata.
Oggigiorno, nel 2013, viviamo in
un’epoca totalmente diversa.
Il sistema capitalista ha assunto
una dimensione globalizzata, policentrica e sovra-nazionale: il grande
capitale, nel 2013, non ha più una nazionalità ma è diventato apolide.
Nell’epoca della globalizzazione
e del capitalismo assoluto, pigiando un bottone di un terminale è possibile per
una grossa banca d’affari spostare in una frazione di secondo una massa enorme
di denaro virtuale da un capo all’altro del mondo, determinando le sorti di
milioni di esseri umani e provocando con quel solo gesto carestie, guerre e
genocidi[1].
Inoltre, la fase storica che
stiamo vivendo in questi anni si caratterizza per il lento ma inesorabile
passaggio da un’epoca unipolare contraddistinta dall’indiscussa centralità del
capitalismo occidentale (con baricentro gli U.S.A.) ad una nuova fase in cui
dei nuovi attori globali stanno emergendo in modo sempre più prepotente sullo
scenario geopolitico ed economico mondiale, mettendo in discussione alla radice
le ragioni che per un lungo periodo hanno consentito a noi occidentali di
sentirci “il centro del mondo”.
Tali profondi mutamenti di
scenario - a cui in questa sede mi è consentito soltanto alludere in forma vaga
ma che meriterebbero da parte di tutti una approfondita lettura analitica - ci
consegnano un mondo che non è più quello in cui i nostri nonni avevano vissuto
a metà del novecento e nemmeno quello ove i nostri genitori avevano prosperato
fino alla fine del secolo scorso: è un mondo diverso, in cui ci si impone di
adattarci in brevissimo tempo a dei nuovi paradigmi di organizzazione della
società rispetto ai quali quasi nessuno di noi è realmente pronto.
Il primo fondamentale paradigma
di cambiamento a cui ci si chiede di abituarci è che oggi, nel 2013, il
capitale mobile, trans-nazionale e apolide non ha più la necessità di
appoggiarsi alla forma statuale ma anzi, trova proprio nello Stato-nazione il
principale ostacolo (forse l’ultimo) alla sua “libera” circolazione.
Ergo, oggi in occidente il grande capitale finanziario lavora incessantemente per abbattere ogni forma di Stato e di sovranità nazionale.
Lo Stato nazionale viene così ad
essere disarticolato in tutte le sue forme di aggregazione sociale, economica e
culturale: in Italia, in questi anni, non a caso si è messa in discussione la
figura di Garibaldi, in quanto le forze che lavorano per l’abbattimento degli
Stati nazionali sono ben decise a colpire alla radice quel che resta nel nostro
Paese di un diffuso sentimento che ancora può fare sentire gli italiani come
appartenenti ad una stessa comunità.
Ma lo Stato nazionale si sta
disarticolando soprattutto per lo svuotamento di tutte quelle istituzioni che
per un lungo periodo hanno costituito il suo stesso fondamento: si pensi allo
sfaldamento della scuola pubblica (sempre più parcellizzata in tante piccole
“aziende” autonome, addette alla formazione secondo criteri di merito di
credito); all’abbattimento del sistema-giustizia, con la già decisa chiusura di
centinaia di piccoli e medi Tribunali della Repubblica; all’indebolimento del
sistema di protezione sociale, un fenomeno che ormai non risparmia più niente e
nessuno, dall’innalzamento esagerato dell’età pensionabile allo smantellamento
degli ospedali pubblici, per non parlare dei tagli consistenti ai tanti
emolumenti in tema di assistenza alle fasce più deboli della popolazione
(anziani, malati, invalidi civili, ecc.).
Solo i ciechi ormai possono rifiutarsi di vedere una realtà che è sotto
gli occhi di tutti: cosa rimane di uno Stato nazionale quando il suo
Parlamento ha ormai ceduto tutti i suoi poteri in ambito economico a degli
organismi tecnocratici (la commissione europea e la B.C .E.) che non sono eletti
dal popolo?
Cosa rimane di uno Stato
nazionale quando nel corso della più drammatica crisi economica dai tempi della
grande recessione del 1929 la sedicente classe dirigente di un Paese è “libera”
solamente di adeguarsi ai parametri rigidissimi dei Trattati europei (Maastricht,
Lisbona e Fiscal compact) che pongono
come dogma intoccabile la assoluta prevalenza delle ragioni del grande capitale
finanziario su quelle del popolo, dei lavoratori, dei cittadini italiani ed
europei?
Cosa rimane di uno Stato che non
dispone più di una sua divisa nazionale e che per finanziare la sua spesa
pubblica è costretto a bussare alla porta dei mercati di capitale per munirsi
di una moneta apolide (l’euro) prestata agli Stati secondo le classiche
metodologie del cappio al collo (vedi l’innalzamento incontrollabile dello spread sui titoli del debito pubblico
sovrano) ?
E ancora, può dirsi ancora
sovrano uno Stato come l’Italia che è costretto ad ospitare sul suo territorio
un micidiale arsenale bellico della NATO e degli U.S.A., ai cui diktat siamo sempre costretti ad
ubbidire anche quando impongono all’Italia di partecipare a delle azioni
perfino contrarie ai nostri stessi interessi, come è apparso evidente nel corso
dell’assalto alla Libia ed in occasione del recente inasprimento dell’embargo
all’Iran?
E che razza di Stato sovrano è
quello in cui, con la abolizione della leva obbligatoria, si è creato un
esercito di professionisti che rispondono prevalentemente alle direttive di
organismi sovranazionali (appunto la
NATO ) anziché a quelle del Parlamento e del Governo italiano
e in cui l’Arma dei Carabinieri, un corpo di antica tradizione, sta per essere
soppressa per fare posto ad un’unica superpolizia europea?
Ecco dunque il primo motivo
fondamentale per non recarmi alle urne domenica 28 febbraio: la dimostrazione
più evidente del carattere puramente farsesco e teatrale che il meccanismo
elettorale ha ormai assunto nel nostro Paese è data dal fatto che nel corso
della campagna elettorale di questo mese non si è mai discusso, nemmeno di sfuggita,
di anche uno solo dei temi sopra passati in rassegna.
Trattare qualsiasi tema tra
quelli decisivi per il futuro del nostro Paese, dalla sovranità monetaria
perduta alle politiche economiche e di bilancio, dalle questioni militari alle
alleanze internazionali e di politica estera, equivale a rompere il muro del
linguaggio politically correct,
l’unico vero discrimine oggi rimasto a selezionare la classe politica italiana,
mentre ogni considerevole distinzione ideologica o politico-programmatica è
totalmente venuta meno.
In un contesto come quello
descritto, dire che la democrazia rappresentativa attraversi oggi una fase di
profonda crisi sarebbe dunque un eufemismo.
E’ più rispondente alla realtà affermare che la cosiddetta democrazia
rappresentativa, semplicemente, non esiste più se non consente di discutere attorno
a nessuna delle tematiche decisive da cui dipendono le sorti di un intero
Paese!
Il secondo fondamentale paradigma
di cambiamento della nostra epoca è connesso all’avvento della fase multipolare
e policentrica, a cui ho accennato sopra.
Il capitalismo occidentale – come
lo scoppio della bolla finanziaria evidenzia da tempo – attraversa una
drammatica crisi di centralità e di dominio globale, in quanto la sua primazia
è oggi insidiata da nuovi e più giovani modelli concorrenziali di sviluppo,
genericamente individuabili con il noto acronimo B.R.I.C.S.
Il fatto che il nostro sistema
capitalistico venga oggi insidiato nel suo ruolo di primazia equivale ad
ammettere che già oggi vediamo in nuce
una vera e proprie guerra a tutto campo tra i diversi attori costretti a
contendersi lo stesso terreno di gioco e i cui piedi, in un mondo sempre più
piccolo, finiscono per pestarsi vicendevolmente: già oggi l’occidente è infatti
in guerra per la acquisizione delle materie prime, per l’imposizione delle sue
valute e per il controllo dei mercati di sbocco delle merci e dei capitali.
Ovviamente, le elites occidentali non hanno potuto (o
voluto) rivelare ai popoli europei che il nostro sistema produttivo da qualche
anno è entrato in guerra con modelli di sviluppo a noi concorrenti, primo tra
tutti quello cinese e, a seguire, quelli russo, indiano e latino-americano.
Non potendo (o non volendo)
rivelare ai popoli questa amara ma innegabile verità, le nostre elites hanno predisposto per tutti noi,
segretamente, una agenda politica la cui attuazione è già in fase avanzata e il
cui punto di arrivo sarà costituito dalla regressione del tenore di vita di
centinaia di milioni di persone, in tutto l’occidente, a livelli
pre-novecenteschi.
In questo clima da “si salvi chi
può”, ciascuna delle elites
occidentali ha reagito o sta reagendo a modo proprio alla crisi: gli Stati
Uniti stanno dirigendo le loro attenzioni verso il rimescolamento degli assetti
di potere in medio oriente, appoggiandosi al radicalismo islamico di marca
wahabita e salafita quale strumento per abbattere tutti i regimi ad essi
ostili, primi tra tutti la Siria
e l’Iran; inoltre, negli ultimi tempi, l’azione di accerchiamento della Cina
sta proiettando l’amministrazione Obama verso un sempre maggiore interesse
rivolto all’area del pacifico e del sud-est asiatico.
Quanto alla Germania, il suo
dominio assoluto sul mercato unico europeo le viene garantito dall’imposizione
dell’assurdo sistema monetario dell’euro, il più grande regalo che il ceto
politico di casa nostra (soprattutto quello di centro-sinistra) ha fatto negli
scorsi decenni alle elites
mercantilistiche tedesche.
Le caratteristiche tecniche
assurde in cui l’economia italiana (assieme a quella degli altri Paesi latino-mediterranei)
è finita intrappolata grazie all’euro sono state egregiamente spiegate, negli
ultimi tempi, da due brillanti testi a cui non posso che rimandare il lettore[2].
Ma le elites italiane – vi chiederete – come hanno reagito o come stanno
reagendo all’attuale crisi?
E’ triste dover constatare che le
nostre elites hanno reagito nella
solita modalità all’italiana già tante volte vista all’opera nella nostra
storia e cioè vendendosi alle elites straniere e facendo assumere
al nostro Paese il ruolo di attore sub-dominante, per riprendere una brillante
definizione di Gianfranco La
Grassa.
E’ inutile prendersi in giro:
nessuno (tanto meno il blocco di forze raccolte attorno a Mario Monti e al PD)
sta facendo o sta solo pensando di fare nulla per cercare di aiutare l’Italia ad
uscire dalla crisi e dalla recessione.
E quel che è decisivo rispetto
all’obiettivo per cui ho scritto la presente nota è che nessuno potrà fare nulla nemmeno dopo le elezioni, chiunque sia ad
affermarsi nella competizione farsesca di domenica 24 febbraio.
E’ già stato deciso che l’Italia
– in questa fase di declino del capitalismo occidentale – funga unicamente da
anello debole della catena di produzione.
L’unica via che le nostre elites hanno dunque deciso di imporci,
per illudere di provare a colmare il presunto gap di competitività con l’economia tedesca, saranno le politiche
deflattive ed anti-salariali già messe in atto fino ad ora e con le quali
continueranno a scaricare sulle classi lavoratrici le conseguenze della crisi.
In questo percorso volto a
riportare il nostro sistema di relazioni sociali a livelli ottocenteschi, il
prossimo obiettivo perseguito dal blocco Monti-PD, con l’ausilio di un
sindacato confederale ormai ampiamente screditato agli occhi delle masse
lavoratrici, sarà la tendenziale abolizione del sistema di contrattazione
collettiva di salari e stipendi su base nazionale.
Il nostro Paese si sta
trasformando in un’economia degna soltanto delle colonie, ossia dei Paesi
subordinati ad altri sistemi di dominio economico-produttivo: qualcuno ha già
deciso che si dovrà rapidamente smantellare quel che resta delle nostre
industrie strategiche e dei settori di punta a partecipazione ancora pubblica,
dall’industria tecnologica e degli armamenti (Finmeccanica) alla rete di
produzione e distribuzione del gas (ENI-SAIPEM); stessa sorte toccherà molto
probabilmente alla compagnia aerea di bandiera (Alitalia) che di italiano forse
continuerà a mantenere soltanto il nome, mentre l’industria siderurgica
chiuderà a Taranto soprattutto perché a volerlo sono stati i centri di comando
della NATO, che hanno bisogno di disporre dell’intero scalo marittimo di una
città collocata in una posizione che è strategica nel mediterraneo già dai
tempi delle guerre puniche.
L’Italia è già tornata ad essere,
oggi, ciò che il Principe di Metternich, con sussiego asburgico, nel 1815 ebbe
a definire una pura “espressione
geografica”.
A chi ancora riesce ad
appassionarsi al teatrino delle elezioni posso solo rivolgere un invito ad
approfondire le tematiche più importanti della fase storica in cui viviamo, sopra
soltanto accennate e così si renderà presto conto che gli attuali meccanismi
elettorali non possono incidere in alcun modo su nessuna delle dinamiche più
importanti della nostra epoca, tanto meno in una piccola colonia qual è
diventato il nostro paese.
Il sistema di potere oligarchico
che domina il nostro popolo ha semplicemente assegnato a ciascuno degli attori
in campo nel circo politico-mediatico una parte ben precisa da recitare nella
farsesca competizione elettorale: ogni attore sta solo recitando un copione
scritto da qualcuno.
Scegliere di sottrarsi a tale
meccanismo farsesco è soltanto il primo passo per liberarsi dal grande inganno
comunicativo esercitato dai suddetti attori e così tornare a rivendicare un
autentico ruolo di partecipazione collettiva alle decisioni, ammesso che ciò
possa tornare ad essere, oggi e nell’immediato futuro, oggettivamente
possibile.
17 febbraio 2013
17 febbraio 2013
[1] Si
pensi soltanto al potenziale distruttivo assunto dagli strumenti derivati futures ed alla loro capacità di
manipolare i prezzi di mercato delle materie prime e del cibo.
[2] Marino
Badiale e Fabrizio Tringali, “La trappola
dell’euro”, edizioni Asterios, 2012. Alberto Bagnai, “Il tramonto dell’euro”, edizioni Imprimatur, 2012.
Io invece ti invito a votare per il PCL!
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