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martedì 19 febbraio 2013

LE RAGIONI DELLA MIA ASTENSIONE ALLE URNE di Giuseppe Angiuli




LO STATO NAZIONALE E’ IN PIENA FASE DI SMANTELLAMENTO.
LE RAGIONI DELLA MIA ASTENSIONE ALLE URNE.
di  Giuseppe Angiuli



Domenica prossima non mi recherò alle urne e cerco di spiegarne approfonditamente il perchè.

Il periodo storico che stiamo vivendo in occidente verrà ricordato sui libri di storia come quello in cui un intero modello di cosiddetta “democrazia rappresentativa” sta entrando nella sua fase di più acuta crisi sistemica: dove per “occidente” dobbiamo intendere l’ampio novero di quelle società, dagli U.S.A. all’Europa, su cui si sono storicamente innestati i valori-modello dettati dalla Rivoluzione Francese di fine settecento.
La Rivoluzione Francese aveva costituito il momento di passaggio da un modello di organizzazione della società di tipo statico-parassitario in cui il re, la nobiltà e il clero godevano di un potere assoluto sulle classi subalterne (potere che si riteneva derivasse loro da una investitura divina), ad una nuova forma di società più dinamica, quella capitalistica, in cui la centralità di tutto si spostava sulle ragioni della produzione e circolazione di merci e di capitali.

Nell’ottocento, gli Stati nazionali (e cioè sia quelli di antica formazione, come Spagna, Francia e Inghilterra che quelli di nuova formazione, come Italia e Germania) si imposero al fine di conformare le rispettive società alle esigenze economico-produttive dettate dall’allora giovane capitalismo occidentale. A quell’epoca, il capitale assumeva una dimensione eminentemente nazionale e le forze sociali allora dominanti in ciascun Paese trovavano utile e funzionale ai propri interessi fare affermare, in Italia come altrove, un Parlamento sovrano, un esercito nazionale, una moneta di conio, un sistema economico-produttivo nazionale, un sistema scolastico uniforme, ecc.
Per un lungo periodo, le società occidentali si sono dunque fondate su un paradigma già individuato da Jean Jacques Rousseau in una delle sue opere più celebri: il contratto sociale, ossia il compromesso tra interessi di diverse classi sociali all’interno di una società tendenzialmente o almeno apparentemente unificata.

Oggigiorno, nel 2013, viviamo in un’epoca totalmente diversa.
Il sistema capitalista ha assunto una dimensione globalizzata, policentrica e sovra-nazionale: il grande capitale, nel 2013, non ha più una nazionalità ma è diventato apolide.
Nell’epoca della globalizzazione e del capitalismo assoluto, pigiando un bottone di un terminale è possibile per una grossa banca d’affari spostare in una frazione di secondo una massa enorme di denaro virtuale da un capo all’altro del mondo, determinando le sorti di milioni di esseri umani e provocando con quel solo gesto carestie, guerre e genocidi[1].

Inoltre, la fase storica che stiamo vivendo in questi anni si caratterizza per il lento ma inesorabile passaggio da un’epoca unipolare contraddistinta dall’indiscussa centralità del capitalismo occidentale (con baricentro gli U.S.A.) ad una nuova fase in cui dei nuovi attori globali stanno emergendo in modo sempre più prepotente sullo scenario geopolitico ed economico mondiale, mettendo in discussione alla radice le ragioni che per un lungo periodo hanno consentito a noi occidentali di sentirci “il centro del mondo”.

Tali profondi mutamenti di scenario - a cui in questa sede mi è consentito soltanto alludere in forma vaga ma che meriterebbero da parte di tutti una approfondita lettura analitica - ci consegnano un mondo che non è più quello in cui i nostri nonni avevano vissuto a metà del novecento e nemmeno quello ove i nostri genitori avevano prosperato fino alla fine del secolo scorso: è un mondo diverso, in cui ci si impone di adattarci in brevissimo tempo a dei nuovi paradigmi di organizzazione della società rispetto ai quali quasi nessuno di noi è realmente pronto.



Il primo fondamentale paradigma di cambiamento a cui ci si chiede di abituarci è che oggi, nel 2013, il capitale mobile, trans-nazionale e apolide non ha più la necessità di appoggiarsi alla forma statuale ma anzi, trova proprio nello Stato-nazione il principale ostacolo (forse l’ultimo) alla sua “libera” circolazione.




Ergo, oggi in occidente il grande capitale finanziario lavora incessantemente per abbattere ogni forma di Stato e di sovranità nazionale.
Lo Stato nazionale viene così ad essere disarticolato in tutte le sue forme di aggregazione sociale, economica e culturale: in Italia, in questi anni, non a caso si è messa in discussione la figura di Garibaldi, in quanto le forze che lavorano per l’abbattimento degli Stati nazionali sono ben decise a colpire alla radice quel che resta nel nostro Paese di un diffuso sentimento che ancora può fare sentire gli italiani come appartenenti ad una stessa comunità.

Ma lo Stato nazionale si sta disarticolando soprattutto per lo svuotamento di tutte quelle istituzioni che per un lungo periodo hanno costituito il suo stesso fondamento: si pensi allo sfaldamento della scuola pubblica (sempre più parcellizzata in tante piccole “aziende” autonome, addette alla formazione secondo criteri di merito di credito); all’abbattimento del sistema-giustizia, con la già decisa chiusura di centinaia di piccoli e medi Tribunali della Repubblica; all’indebolimento del sistema di protezione sociale, un fenomeno che ormai non risparmia più niente e nessuno, dall’innalzamento esagerato dell’età pensionabile allo smantellamento degli ospedali pubblici, per non parlare dei tagli consistenti ai tanti emolumenti in tema di assistenza alle fasce più deboli della popolazione (anziani, malati, invalidi civili, ecc.).

Solo i ciechi ormai possono rifiutarsi di vedere una realtà che è sotto gli occhi di tutti: cosa rimane di uno Stato nazionale quando il suo Parlamento ha ormai ceduto tutti i suoi poteri in ambito economico a degli organismi tecnocratici (la commissione europea e la B.C.E.) che non sono eletti dal popolo?

Cosa rimane di uno Stato nazionale quando nel corso della più drammatica crisi economica dai tempi della grande recessione del 1929 la sedicente classe dirigente di un Paese è “libera” solamente di adeguarsi ai parametri rigidissimi dei Trattati europei (Maastricht, Lisbona e Fiscal compact) che pongono come dogma intoccabile la assoluta prevalenza delle ragioni del grande capitale finanziario su quelle del popolo, dei lavoratori, dei cittadini italiani ed europei?

Cosa rimane di uno Stato che non dispone più di una sua divisa nazionale e che per finanziare la sua spesa pubblica è costretto a bussare alla porta dei mercati di capitale per munirsi di una moneta apolide (l’euro) prestata agli Stati secondo le classiche metodologie del cappio al collo (vedi l’innalzamento incontrollabile dello spread sui titoli del debito pubblico sovrano) ?


E ancora, può dirsi ancora sovrano uno Stato come l’Italia che è costretto ad ospitare sul suo territorio un micidiale arsenale bellico della NATO e degli U.S.A., ai cui diktat siamo sempre costretti ad ubbidire anche quando impongono all’Italia di partecipare a delle azioni perfino contrarie ai nostri stessi interessi, come è apparso evidente nel corso dell’assalto alla Libia ed in occasione del recente inasprimento dell’embargo all’Iran?

E che razza di Stato sovrano è quello in cui, con la abolizione della leva obbligatoria, si è creato un esercito di professionisti che rispondono prevalentemente alle direttive di organismi sovranazionali (appunto la NATO) anziché a quelle del Parlamento e del Governo italiano e in cui l’Arma dei Carabinieri, un corpo di antica tradizione, sta per essere soppressa per fare posto ad un’unica superpolizia europea?

Ecco dunque il primo motivo fondamentale per non recarmi alle urne domenica 28 febbraio: la dimostrazione più evidente del carattere puramente farsesco e teatrale che il meccanismo elettorale ha ormai assunto nel nostro Paese è data dal fatto che nel corso della campagna elettorale di questo mese non si è mai discusso, nemmeno di sfuggita, di anche uno solo dei temi sopra passati in rassegna.
Trattare qualsiasi tema tra quelli decisivi per il futuro del nostro Paese, dalla sovranità monetaria perduta alle politiche economiche e di bilancio, dalle questioni militari alle alleanze internazionali e di politica estera, equivale a rompere il muro del linguaggio politically correct, l’unico vero discrimine oggi rimasto a selezionare la classe politica italiana, mentre ogni considerevole distinzione ideologica o politico-programmatica è totalmente venuta meno.

In un contesto come quello descritto, dire che la democrazia rappresentativa attraversi oggi una fase di profonda crisi sarebbe dunque un eufemismo.
E’ più rispondente alla realtà affermare che la cosiddetta democrazia rappresentativa, semplicemente, non esiste più se non consente di discutere attorno a nessuna delle tematiche decisive da cui dipendono le sorti di un intero Paese!




Il secondo fondamentale paradigma di cambiamento della nostra epoca è connesso all’avvento della fase multipolare e policentrica, a cui ho accennato sopra.

Il capitalismo occidentale – come lo scoppio della bolla finanziaria evidenzia da tempo – attraversa una drammatica crisi di centralità e di dominio globale, in quanto la sua primazia è oggi insidiata da nuovi e più giovani modelli concorrenziali di sviluppo, genericamente individuabili con il noto acronimo B.R.I.C.S.

Il fatto che il nostro sistema capitalistico venga oggi insidiato nel suo ruolo di primazia equivale ad ammettere che già oggi vediamo in nuce una vera e proprie guerra a tutto campo tra i diversi attori costretti a contendersi lo stesso terreno di gioco e i cui piedi, in un mondo sempre più piccolo, finiscono per pestarsi vicendevolmente: già oggi l’occidente è infatti in guerra per la acquisizione delle materie prime, per l’imposizione delle sue valute e per il controllo dei mercati di sbocco delle merci e dei capitali.

Ovviamente, le elites occidentali non hanno potuto (o voluto) rivelare ai popoli europei che il nostro sistema produttivo da qualche anno è entrato in guerra con modelli di sviluppo a noi concorrenti, primo tra tutti quello cinese e, a seguire, quelli russo, indiano e latino-americano.
Non potendo (o non volendo) rivelare ai popoli questa amara ma innegabile verità, le nostre elites hanno predisposto per tutti noi, segretamente, una agenda politica la cui attuazione è già in fase avanzata e il cui punto di arrivo sarà costituito dalla regressione del tenore di vita di centinaia di milioni di persone, in tutto l’occidente, a livelli pre-novecenteschi.




In questo clima da “si salvi chi può”, ciascuna delle elites occidentali ha reagito o sta reagendo a modo proprio alla crisi: gli Stati Uniti stanno dirigendo le loro attenzioni verso il rimescolamento degli assetti di potere in medio oriente, appoggiandosi al radicalismo islamico di marca wahabita e salafita quale strumento per abbattere tutti i regimi ad essi ostili, primi tra tutti la Siria e l’Iran; inoltre, negli ultimi tempi, l’azione di accerchiamento della Cina sta proiettando l’amministrazione Obama verso un sempre maggiore interesse rivolto all’area del pacifico e del sud-est asiatico.
La Francia del “socialista” Hollande sta invadendo mezza Africa sub-sahariana alla disperata ricerca di minerali e materie prime con cui provare a colmare almeno in parte il proprio gap di competitività con l’economia tedesca.
Quanto alla Germania, il suo dominio assoluto sul mercato unico europeo le viene garantito dall’imposizione dell’assurdo sistema monetario dell’euro, il più grande regalo che il ceto politico di casa nostra (soprattutto quello di centro-sinistra) ha fatto negli scorsi decenni alle elites mercantilistiche tedesche.
Le caratteristiche tecniche assurde in cui l’economia italiana (assieme a quella degli altri Paesi latino-mediterranei) è finita intrappolata grazie all’euro sono state egregiamente spiegate, negli ultimi tempi, da due brillanti testi a cui non posso che rimandare il lettore[2].

Ma le elites italiane – vi chiederete – come hanno reagito o come stanno reagendo all’attuale crisi?
E’ triste dover constatare che le nostre elites hanno reagito nella solita modalità all’italiana già tante volte vista all’opera nella nostra storia e cioè vendendosi alle elites straniere e facendo assumere al nostro Paese il ruolo di attore sub-dominante, per riprendere una brillante definizione di Gianfranco La Grassa.
E’ inutile prendersi in giro: nessuno (tanto meno il blocco di forze raccolte attorno a Mario Monti e al PD) sta facendo o sta solo pensando di fare nulla per cercare di aiutare l’Italia ad uscire dalla crisi e dalla recessione.
E quel che è decisivo rispetto all’obiettivo per cui ho scritto la presente nota è che nessuno potrà fare nulla nemmeno dopo le elezioni, chiunque sia ad affermarsi nella competizione farsesca di domenica 24 febbraio.

E’ già stato deciso che l’Italia – in questa fase di declino del capitalismo occidentale – funga unicamente da anello debole della catena di produzione.
L’unica via che le nostre elites hanno dunque deciso di imporci, per illudere di provare a colmare il presunto gap di competitività con l’economia tedesca, saranno le politiche deflattive ed anti-salariali già messe in atto fino ad ora e con le quali continueranno a scaricare sulle classi lavoratrici le conseguenze della crisi.
In questo percorso volto a riportare il nostro sistema di relazioni sociali a livelli ottocenteschi, il prossimo obiettivo perseguito dal blocco Monti-PD, con l’ausilio di un sindacato confederale ormai ampiamente screditato agli occhi delle masse lavoratrici, sarà la tendenziale abolizione del sistema di contrattazione collettiva di salari e stipendi su base nazionale.



Il nostro Paese si sta trasformando in un’economia degna soltanto delle colonie, ossia dei Paesi subordinati ad altri sistemi di dominio economico-produttivo: qualcuno ha già deciso che si dovrà rapidamente smantellare quel che resta delle nostre industrie strategiche e dei settori di punta a partecipazione ancora pubblica, dall’industria tecnologica e degli armamenti (Finmeccanica) alla rete di produzione e distribuzione del gas (ENI-SAIPEM); stessa sorte toccherà molto probabilmente alla compagnia aerea di bandiera (Alitalia) che di italiano forse continuerà a mantenere soltanto il nome, mentre l’industria siderurgica chiuderà a Taranto soprattutto perché a volerlo sono stati i centri di comando della NATO, che hanno bisogno di disporre dell’intero scalo marittimo di una città collocata in una posizione che è strategica nel mediterraneo già dai tempi delle guerre puniche.

L’Italia è già tornata ad essere, oggi, ciò che il Principe di Metternich, con sussiego asburgico, nel 1815 ebbe a definire una pura “espressione geografica”.

A chi ancora riesce ad appassionarsi al teatrino delle elezioni posso solo rivolgere un invito ad approfondire le tematiche più importanti della fase storica in cui viviamo, sopra soltanto accennate e così si renderà presto conto che gli attuali meccanismi elettorali non possono incidere in alcun modo su nessuna delle dinamiche più importanti della nostra epoca, tanto meno in una piccola colonia qual è diventato il nostro paese.

Il sistema di potere oligarchico che domina il nostro popolo ha semplicemente assegnato a ciascuno degli attori in campo nel circo politico-mediatico una parte ben precisa da recitare nella farsesca competizione elettorale: ogni attore sta solo recitando un copione scritto da qualcuno.
Scegliere di sottrarsi a tale meccanismo farsesco è soltanto il primo passo per liberarsi dal grande inganno comunicativo esercitato dai suddetti attori e così tornare a rivendicare un autentico ruolo di partecipazione collettiva alle decisioni, ammesso che ciò possa tornare ad essere, oggi e nell’immediato futuro, oggettivamente possibile.


17 febbraio 2013





                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    


[1] Si pensi soltanto al potenziale distruttivo assunto dagli strumenti derivati futures ed alla loro capacità di manipolare i prezzi di mercato delle materie prime e del cibo.
[2] Marino Badiale e Fabrizio Tringali, “La trappola dell’euro”, edizioni Asterios, 2012. Alberto Bagnai, “Il tramonto dell’euro”, edizioni Imprimatur, 2012.

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