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martedì 14 maggio 2013

SAN GIACOMO, LA TRIESTE OPERAIA di Norberto Fragiacomo




SAN GIACOMO, LA TRIESTE OPERAIA
di
Norberto Fragiacomo



Il colle “nobile” (S. Giusto, con la cattedrale d’una modesta bellezza, il minaccioso castello e le rovine romane rimesse in piedi) è a poco più di un chilometro di distanza, in linea d’aria, ma S. Giacomo non racconta la storia dell’arte.
Una chiesa, in una grande piazza, dedicata all’apostolo, tante case e osterie; un brulichio di vita – vita povera, vita di duro lavoro, senza agi o riscatti. Cent’anni fa, il rione era definito, dai benestanti del centro, “popolare e popoloso”. Un pizzico di snobismo, misto a preoccupazione: S. Giacomo era una città nella città, un mondo a parte. Chi ci nasceva, raramente si avventurava fuori dei suoi confini: mancavano i soldi per il gelato domenicale, per le giacche alla moda e i vestiti eleganti che animavano il listòn nel cuore dell’austero borgo teresiano. Quartiere di ciabattini, falegnami – operai, soprattutto, che parlavano una loro versione del dialetto, arricchita (sì, arricchita) da termini stranieri, in genere slavi. Non è un caso che uno fra i maggiori poeti dialettali, Guido Sambo (1905-1968), sia venuto al mondo da queste parti, in via della Guardia.
<!--[if !vml]--><!--[endif]-->Le case, dicevamo: palazzi dignitosi di inizio secolo, dalle facciate screpolate e annerite. Niente a che vedere con i fasti della città nuova, né con le anguste e maleodoranti stradine di Cavana (che, di recente, i soldi del Piano Urban hanno trasformato in un bijoux storicamente un po’ ottimistico). La chiesa parrocchiale, decentrata rispetto all’omonimo campo, è più spaziosa che bella: colorata di beige, vanta un campanile di gusto neoromanico e un’abside affrescata dal muranese Sebastiano Santi che, verso la metà dell’Ottocento, lasciò la sua firma all’interno di non poche chiese triestine, e diede un tocco di decoro anche al nuovo tempio periferico. Sobria eleganza austro-popolana, poco altro. La vista più piacevole la offrono gli alberi che circondano la chiesa, e delimitano un piazzale – oggi rifatto – dove generazioni di sangiacomini hanno giocato alle manette, a calcio o si sono sedute su una panchina a leggere Il Piccolo, prima di sorseggiare un quarto di vino nell’osteria preferita. Salite le scale che portano allo spiazzo, ci si imbatte in uno strano passante, ritto come un fuso di bronzo: si chiamava Osiride Brovedani, fondò l’impresa Fissan, nota in Italia per l’omonima pasta. Gli imprenditori triestini: una razza in via di estinzione, dopo le glorie ottocentesche. L’unico nome di un certo rilievo che viene in mente è quello di Illy, reuccio del caffè con ambizioni politiche tra destra e sinistra.
Le osterie ci sono ancora, anche se sono diminuite di numero, ma di sangiacomini doc, ormai, se ne vedono in giro pochi. Per quanto riguarda le parlate, il serbo ha quasi soppiantato la variante dialettale: tanti nomi balcanici sui campanelli. Non è proprio una novità, in effetti: nell’Ottocento numerosissimi sloveni si sono costruiti, stentando, un’esistenza lungo queste strade. Finivano a lavorare in Arsenale, o alla grande Ferriera di Servola, capace di conquistare alla città l’antico villaggio slavo (ma il nome, attenzione, deriva dal latino Silvula, quello adoperato dai locali è Skedenj). Era una vita grama, ma i vecchi cresciuti qua la rimpiangono, malgrado i gabinetti in comune, le case addossate l’una all’altra e la miseria. Certo, gli anni della giovinezza assumono, quando l’età declina, un’aura mitica; ma lo spirito solidaristico, quel conoscersi e riconoscersi tutti, la consapevolezza di essere comunità non sono leggenda. S. Giacomo era un organismo unitario che, ogni volta che si svegliava, impauriva la città borghese. Nella tarda estate del 1920 successe qualcosa, sul colle. Socialismo e comunismo si erano diffusi, l’azione repressiva della polizia del regno suscitò indignazione, rabbia, spirito di rivolta. I sangiacomini innalzarono barricate, abbattute a colpi di cannone dai soldati sardi della Sassari. Durissimi scontri, perché gli operai – italiani o sloveni che fossero – non volevano saperne di cedere il campo a quegli uomini piccoli e scuri, di cui non comprendevano neppure la lingua. Poveri contro poveri, come è successo sempre – come, forse, succederà sempre.
Il razzismo fascista mise la mordacchia al rione: parlare sloveno, durante il ventennio, era un crimine punito a bastonate. Molti cambiarono cognome, rinunciarono per paura all’identità degli avi, strisciando desolati fino alle tombe di S. Anna per riconoscersi. Boris Pahor, il grande scrittore centenario (ancora vivo, e gli auguro di restarlo a lungo), non lo fece mai: nei suoi libri – segnalo “Qui è proibito parlare” – palpita lo strazio per un’identità derisa e negata. L’umiliazione e, più tardi, il Lager lo hanno condotto alla poesia in prosa, e a sfiorare il Nobel: ricorda, denuncia e parla con pesante accento triestino/sangiacomino. Un suo “collega” più anziano, Adolfo Leghissa (1875-1957), avvertì, sin da ragazzo, i rischi di quella “patriomania” che dilagava in Europa, e avrebbe fatto della civile e tollerante Trieste un fortino assediato da fantasmi. L’allegria dei friulani, la compostezza dei tedeschi e la malinconia degli slavi si mescolano nelle nostre vene, ammoniva l’anarchico Dolfo: la sua voce non fu ascoltata, attiravano di più le sirene dell’irredentismo, risuonanti nell’altra Trieste, quella borghese.
Nel ’45 i nodi vennero al pettine: l’armata jugoslava entrò in città, il rione era un’immensa, ruggente bandiera rossa. Ci furono vendette, o piuttosto esecuzioni: sotto il colle, nei begli edifici neoclassici, liberty ed eclettici, la Trieste dei cafè italianissimi tremava. L’emergenza passò, ma nuovi cittadini, in fuga dalla loro terra, percorsero a capo chino le vie di S. Giacomo, in cerca di un cantuccio dove abitare. Tra loro un poeta, di nome Giancarlo Sirotich (1945-2003). L’istriano di Verteneglio, così lontano dalla sensibilità dei vecchi sangiacomini, seppe descrivere con commozione e rispetto quel serpente rosso che, ogni primo maggio, entrava a forza in città dalla collina, suscitando speranza o ribrezzo. “Avanti Popolo…”, ma il Popolo restò indietro, soffocato dalle industrie che chiudevano, certe volte sedotto da promesse di agiatezza in nuovi, asettici quartieri residenziali. I legami si spezzano, naufraga il Partito… rimane una squadra di calcio, il Ponziana, capace di battere la Triestina in un derby rimasto leggendario. Primi anni ’70, una squallida quarta serie: mai più vista così tanta gente in uno stadio Grezar diviso a metà – borghesi da una parte, popolani dall’altra. Ormai, gli adesivi del Ponziana - fondato prima dell’Unione – sbiadiscono sui vetri di auto destinate allo sfasciacarrozze.
Oh, dimenticate la Storia, che insegna soltanto insensatezze, e concedetevi una passeggiata lungo via del Ponzanino, o un bicchiere di teran nei cinque metri quadri di qualche osteria sopravvissuta. Se capitate in via Concordia sarete colpiti, invece, da una lunga fila di minuscole casette tutte uguali, due piani e un cortiletto che fa sognare solamente i bambini. Altro che British school, qui una volta si parlava inglese sul serio: queste casupole furono costruite, a metà diciannovesimo secolo, per gli operai britannici chiamati ad insegnare il mestiere ai futuri arsenalotti. Gli inglesi trincavano come e più dei locali, qualche volta sfasciavano le taverne, e non parlavano forbito: nelle notti sangiacomine si udiva spesso risuonare l’insulto “son of a bitch!” La locuzione sopravvisse agli Smith e ai Jones importati: fino a metà ‘900, scrive Gianni Pinguentini, non era raro che i nostri bravi portuali pronunciassero, tra una bestemmia e l’altra, quella misteriosa espressione, “sanabic’”, in cui riviveva – doverosamente triestinizzata – un’eco esotica dei giorni felici dello scalo multinazionale. Poi si brindava, al passato che non ritorna…




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