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giovedì 30 maggio 2013

TRE NO PER SALVARE (E CAMBIARE) LA SIRIA



TRE NO PER SALVARE (E CAMBIARE) LA SIRIA

Non sono in pochi a considerare la prossima conferenza internazionale di Ginevra come l’ultima possibilità per una soluzione in senso positivo della crisi siriana. Certo, in questi giorni sono state compiute delle scelte che non sembrano andare nella giusta direzione, come la decisione – da parte dell’Unione Europea – di revocare l’embargo sulle armi ai gruppi armati dell’opposizione. Un provvedimento che sarà operativo dal mese di agosto ma che lancia un segnale negativo in un momento in cui il linguaggio della diplomazia dovrebbe prevalere. Quali conseguenze ne deriveranno, si vedrà.
Quel che è indubbio è che, sul campo, una realtà che ha sempre rifiutato la logica dello scontro militare, ritenendo necessario contrastare un regime oppressivo e ottenere la libertà con mezzi pacifici, è il Coordinamento Nazionale per il cambiamento democratico. Ahmed Kzzo, che ne fa parte, ce ne ha spiegato la filosofia, fornendoci inoltre preziosi elementi di comprensione di una realtà complessa, che i media mainstream restituiscono in modo parziale e deformato.


Per cominciare, puoi spiegarci cos'è il Coordinamento Nazionale per il cambiamento democratico in Siria?
Sì, anzitutto va precisato che esso è nato pochi mesi dopo l’inizio della rivoluzione, formato da venti partiti e movimenti di diverso orientamento (marxisti, socialisti, islamici), nonché da diversi oppositori storici del regime. Del coordinamento, poi, fanno parte sia arabi che curdi.
Spesso ci si riferisce ad esso come all'opposizione dell'interno, perché è nato nel territorio della Siria, dove  – al momento della costituzione, il 30 giugno 2011 – si trovava la gran parte dei suoi membri.
Questa è già una differenza con il Cns (Consiglio nazionale siriano), costituito dalla Fratellanza Musulmana e altre forze, che è stato fondato a Istanbul da personalità dell'opposizione perlopiù in esilio. In questo senso, il Cns è stato definito “opposizione dell'esterno”.

Si può dire che il Coordinamento è figlio della rivoluzione?
Senz'altro. Basti pensare al fatto che l'Unione arabo-socialista che ne fa parte è stata la prima forza politica siriana che ha ufficialmente dichiarato la propria partecipazione alla sollevazione popolare sviluppatasi nei primi mesi del 2011.

Da subito, voi avete espresso una filosofia che ha suscitato la critica di altre componenti dell'opposizione. Quella dei tre no...
Si tratta di una opzione fondata su una valutazione concreta della realtà siriana e del contesto geopolitico assai complicato in cui siamo inseriti. I nostri tre no (no alla violenza, no all'intervento militare esterno, no al settarismo) rimandavano (e rimandano) alla necessità di mantenere alcuni tratti fondamentali del movimento che si è sollevato contro il potere di Assad: il carattere civile e popolare, l'indipendenza, la capacità di far partecipare persone di diverse etnie e credo religiosi.
Del resto, l'uso massiccio della forza, da parte del regime, era proprio volto a spingere la rivoluzione ad armarsi.

In genere si afferma che l'Esercito Siriano Libero sia nato con la finalità autodifensive, di tutela delle manifestazioni popolari…
Diciamo che, al principio, vi è stato un fenomeno estremamente positivo: quello dei generali che disertavano perché non volevano sparare su momenti di protesta dal carattere essenzialmente pacifico. Questi generali sono stati determinanti nella nascita dell'Esercito Siriano Libero, che però col tempo ha finito per accettare la logica di scontro imposta dal regime.
Noi riteniamo che dalla attuale situazione di conflitto armato si possa e si debba uscire per via politica: lo spargimento di sangue è stato sin qui davvero notevole e la guerra assume ogni giorno di più valenze fratricide e settarie.

La questione dell'Esercito Siriano Libero chiama in causa i vostri rapporti con il Cns che a questa componente militare è legato...
Dal nostro punto di vista, l'opposizione ad Assad per essere più forte doveva non solo mantenere un carattere civile, ma anche muoversi in modo più unitario. Noi abbiamo spinto da subito in questa direzione. Il 30 dicembre 2011, al Cairo, con il Presidente del Cns e altri membri di quell'organismo si era arrivati ad un accordo in tal senso. Ma i Fratelli Musulmani – forza maggioritaria nel Cns stesso – lo hanno respinto, probabilmente sollecitati in questa direzione dai loro protettori politici esterni, come il Qatar.
Così l'accordo è venuto meno, negato pure da quelli che lo avevano firmato.

In effetti a inasprire la situazione in Siria non ci ha pensato solo il regime, ma anche le petromonarchie, che sono intervenute per condizionare le scelte di parte dell'opposizione...
Su questo va fatta una puntualizzazione. Se il Qatar, da subito si è mosso come alleato ed ispiratore della Fratellanza Musulmana, l'Arabia Saudita ha agito in modo meno lineare. Sulle prime ha appoggiato Assad – sostenendolo finanziariamente – perché temeva che un movimento pacifico potesse propagarsi in tutto il Medio Oriente, turbando la tranquillità della stessa penisola arabica. Poi, quando ha registrato l’effettiva potenza della rivoluzione siriana, si è proposta come sua “amica”, cercando di modificarne i caratteri e i contenuti nel senso del fondamentalismo religioso di matrice sunnita. In quest’ottica, l’Arabia Saudita (e altri paesi) hanno colto pure l’occasione di  liberarsi di un problema interno: la presenza di gruppi jihadisti, di cui è stato favorito il trasferimento in massa in Siria.
Una scelta spregiudicata che ricorda quella effettuata da Assad nel 2003, in occasione della aggressione americana all’Iraq. Allora, in Siria, imam sotterraneamente legati al regime incitarono i sunniti disponibili ad andare a combattere l’invasore statunitense. Era un modo per dare una valvola di sfogo esterna a settori che preoccupavano il regime.

Ma la società siriana, nel suo complesso, ci sembra abbastanza distante dal fondamentalismo…
Questo è indubbio. Io vengo da un contesto rurale, di piccoli villaggi. Qui, ad esempio, le donne sono abituate non solo a lavorare nei campi, ma pure a partecipare a diversi aspetti della vita pubblica collettiva. In un simile quadro, è difficile che venga accolta una mentalità “talebana”.
In più, i combattenti stranieri non conoscono niente delle tradizioni e della mentalità dominanti in Siria. Non possono neanche fare leva sul fatto che, sotto Assad, la maggioranza sunnita del paese ha subito pesanti vessazioni. Il loro messaggio viene comunque respinto. Le dichiarazioni del Fronte Al Nusra, che raccoglie questi combattenti, sono spesso oggetto di critica pubblica da parte di autorità religiose sunnite schierate con il movimento popolare, soprattutto quelle che incitano a pratiche barbare come la flagellazione degli avversari.
I siriani, storicamente, sono lontani anni luce da questa mentalità.

Però è un fatto, registrato soprattutto dalla stampa statunitense, che negli ultimi tempi molti combattenti sono passati dall’Esercito Siriano Libero al Fronte Al Nusra stesso...
Si tratta di una conseguenza inevitabile dell’inasprimento del conflitto. I jihadisti risultano più efficienti sotto il profilo militare per due  motivi. Perché sono più “motivati”, essendo spinti da una ideologia religiosa semplice ma avvolgente, e perché hanno più disponibilità di armi e di soldi, attingendo al pozzo senza fondo di paesi come l’Arabia Saudita.
Peraltro, la sempre maggiore forza dei jihadisti è vista con malizioso interesse pure dalla Turchia. Questo paese, che sino a non molto tempo fa coltivava buoni rapporti con il clan degli Assad, ha oggi tutto l’interesse a una degenerazione della situazione. Se trionfano i fondamentalisti, può avere – agli occhi dell’occidente – la giustificazione per intervenire, proprio perché è un Stato che si autorappresenta come paladino di un altro Islam, moderato e coniugato con la democrazia.

In sostanza, ciò conferma quanto sia articolato il quadro geopolitico in cui si inserisce la vicenda siriana. Noi sappiamo che voi, in questo contesto, cercate di dialogare con tutti i soggetti che influiscono sulle sorti della vostra gente…
Il punto è che il Coordinamento ha fatto una scelta diversa da quella del Cns, che ha subito preteso dalla comunità internazionale di essere riconosciuto come unico rappresentante legittimo del popolo siriano. Noi volevamo far conoscere nel mondo il movimento popolare, e soprattutto convincere le potenze grandi e medie che intervengono nell’area a tenerne in considerazione le aspirazioni ad una trasformazione democratica. Sotto questo profilo, non abbiamo difficoltà a parlare con nessun attore  geopolitico, a eccezione di Israele, con cui escludiamo ogni contatto.

In effetti avete avuto momenti di interlocuzione persino con quelli che, in quanto protettori di Assad, dovrebbero essere i vostri principali nemici…
In verità, proprio nella logica che ti ho accennato, il Coordinamento pratica la neutralità tra i blocchi contrapposti che intervengono nello scenario siriano. Nel febbraio 2012, una delegazione del Coordinamento ha accettato un invito in Cina. Ma abbiamo avuto contatti anche con l’Iran e, ancor di più, con la Russia. Quest’ultima è particolarmente interessata a preservare l’unica base navale che ha nel Mediterraneo, a Tartous. E’ questo il suo assillo, più che la difesa a spada tratta di Assad, anche se fin qui ha manifestato una certa sottovalutazione delle istanze di libertà e democrazia espresse dal popolo siriano.
Un altro caposaldo della filosofia russa, è il mantenimento della integrità territoriale del nostro paese.

C’è il pericolo che questa venga meno?
Direi di sì. Non so se ciò rimandi ad un piano, ma di certo vi sono attori regionali che benedirebbero questo esito.
Si pensi a Israele, che così non solo vedrebbe indebolito l’alleato di un suo nemico storico come l’Iran, ma troverebbe ulteriormente legittimata la sua anomalia. Infatti, la eventuale divisione  avverrebbe secondo linee confessionali (la parte dei sunniti, quella degli sciiti ecc.), tali da permettere a Israele di giustificare con più forza il suo configurarsi come Stato in cui la cittadinanza è riservata ai soli ebrei.

Non abbiamo ancora parlato degli USA. Voi, in linea di principio, non escludete contatti con gli americani, ma fin qui li avete avuti?
Sì, qualche incontro c’è stato, anche se – sin dall’inizio – la prima potenza planetaria ha individuato come interlocutore soprattutto “l’opposizione dell’esterno”.
Peraltro, all’inizio della rivoluzione, molti giovani siriani s’illudevano sui vantaggi di una eventuale operazione bellica americana. Forse, poi, il disastro libico ha reso meno popolare questa idea. Ad ogni modo, gli americani sono sempre stati riluttanti ad un intervento militare diretto in Siria e, negli ultimi tempi, sembrano preoccupati dalla affermazione militare dei jihadisti. Perciò stanno lavorando unitamente ai russi per la Conferenza di giugno a Ginevra, volto a sviscerare tutti i nodi connessi alla questione siriana. Va sottolineato che tanto gli Stati Uniti quanto la Russia si sono espressi favorevolmente ad una partecipazione del Coordinamento a questo passaggio. Da parte sua, il Coordinamento ha invitato tutte le forze dell’opposizione – incluse quelle raccolte nella Coalizione Nazionale Siriana [1] – a formare una commissione unitaria che partecipi ai lavori di Ginevra.

In quella sede si discuterà degli scenari possibili per avviare una transizione alla democrazia in Siria. Da tempo gli analisti parlano di un governo transitorio, con membri  sia dell’opposizione che del partito al potere. Voi che ne pensate?
Noi siamo favorevoli a questa possibilità. E’ ovvio che non si potrà eliminare di colpo tutto il preesistente, né in termini di istituzioni né di forze politiche consolidate, che hanno un loro seguito nel paese. Inoltre, non tutti i membri del regime possono essere considerati allo stesso modo: ad esempio, il vicepresidente, originario di Daara, tra i primi centri in cui si è sviluppata la rivoluzione, tempo fa fece una proposta di pace che cadde nel vuoto ma che non era priva di significato. Si tratta di un personaggio praticamente rispettato da tutti, come è emerso dalle dichiarazioni rilasciate in questi giorni dalle altre anime della opposizione siriana.
In generale si deve dire che nel Partito Ba’th non tutti coltivano le stesse pulsioni autoritarie del clan degli Assad. Non pochi, in quella forza politica, si sono resi conto che affrontare in termini esclusivamente repressivi un grande movimento popolare è stato un errore tragico.
A parte ciò, è solo attraverso un processo di questo tipo che si può avviare una trasformazione democratica in Siria. Ciò rimanda tanto alle caratteristiche del nostro paese, quanto ad un discorso di carattere generale: nelle rivoluzioni a un certo punto le armi debbono tacere, quando il lato militare prevale si snaturano le spinte più profonde che hanno portato le persone a scendere in strada per riprendere in mano il proprio destino.

Queste tue considerazioni, in un certo senso, anticipano l’ultima domanda che volevamo farti. Che ne è oggi, della sollevazione popolare iniziale? E’ totalmente schiacciata da quello che si presenta come uno scontro settario per conto terzi, oppure ancora trova modo di esprimersi?
In verità, le manifestazioni ancora continuano e tanti attivisti civili cercano pure in questo contesto di incidere sulla situazione. Ad esempio, quando l’Esercito Siriano Libero strappa una città al controllo delle forze lealiste, questi ne reclamano la gestione attraverso i propri comitati, che si occupano anzitutto di organizzare i servizi destinati alla collettività. In pratica, si chiede all’Esercito Siriano Libero di fare un passo indietro, di lasciare spazio alla società civile. Non sempre ciò si verifica, dipende dalla forza della spinta dal basso. Un esempio positivo che vi posso fare, è quello di un paese come Raqqa.
Ad ogni modo, sta crescendo la consapevolezza che la rivoluzione non si conclude con la semplice caduta di Assad. E che non bisogna accettare vessazioni e angherie da qualunque parte provengano: che si tratti del regime e delle sue milizie, dedite a ogni efferatezza, o dell’Esercito Siriano Libero, che spesso procede all’arresto arbitrario di chi ne mette in discussione l’autorità. Per non dire dei jihadisti.
Questo atteggiamento diffuso della popolazione lascia ben sperare nel futuro. Si afferma la concezione che la rivoluzione è anzitutto un fatto sociale e si lancia il segnale che si vuole una discontinuità di sostanza rispetto al passato: non si può certo liberarsi di un potere dispotico per cadere nelle grinfie di un altro autoritarismo.

A cura della redazione di Bandiera Rossa





[1] Formatasi, significativamente, a Doha (Qatar) nel novembre 2012, comprende il già citato Cns e altre realtà politiche. In sostanza, si tratta di un raggruppamento più largo rispetto all’originaria “opposizione dell’esterno”, delineatosi quando risultava evidente che questa non aveva i numeri per presentarsi come “unico rappresentate  legittimo” del popolo siriano.





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