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domenica 23 giugno 2013

ANCHE SE DIVERSI INSIEME SULLA TERZA VIA di Francesco De Martino





Come contributo al dibattito sulla trasformazione delle strutture della società del sistema economico vigente, ripubblichiamo volentieri un saggio dell'ex Segretario del PSI Francesco De Martino, scomparso oltre un decennio fa, che il 26 Febbraio 1982 sulla rivista “Rinascita” interveniva in merito alla “terza via”, intermedia tra comunismo e socialdemocrazia, proposta dal PCI e che De Martino preferiva chiamare “nuovo socialismo”, sviluppandola sul piano teorico e configurandola come base programmatica di un accordo di governo da realizzare, sostenuto per la prima volta da socialisti e comunisti. Prospettiva questa che avrebbe messo in discussione la linea politica del PSI di Bettino Craxi, realizzato veramente in questo paese l'alternativa di governo alle forze conservatrici e di centro e gettato finalmente le basi politiche di una trasformazione democratica e graduale del capitalismo italiano. E' interessante notare in questo scritto la riproposizione di aspetti salienti del programma del Partito d'Azione (non citato in modo esplicito) cui il professore aveva dato un valido contributo in gioventù, circa l'economia a due settori e quelli a carattere morale ed educativo dei lavoratori, che avrebbero dovuto essere i veri artefici del processo graduale di costruzione  di una nuova società.



ANCHE SE DIVERSI INSIEME SULLA TERZA VIA 
di Francesco de Martino


            
Vorrei dire come un socialista che si ricollega ai caratteri originali del socialismo italiano veda la concezione, la sostanza della cosiddetta terza via.

Almeno fin dal congresso di Venezia del 1957, il PSI si pose in termini teorici e politici il tema di un socialismo diverso da quello che si era realizzato nell'URSS e dalle esperienze socialdemocratiche europee. Il tema predominante fu quello dell'autonomia del partito dal comunismo. Tale posizione giunse in ritardo, solo dopo le denunce kruscioviane, ma giunse. Essa si dovette all'impulso dato da Nenni e da vari di noi alla critica del sistema politico che si era venuto costituendo nell'URSS. Fu affermata la necessità di ricongiungere il socialismo con la libertà, considerando questa una conquista di valore universale, non una categoria borghese. Venne in pari tempo tenuto fermo il principio, di stampa marxista, che senza l'emancipazione economica dei lavoratori nemmeno la democrazia politica avrebbe potuto spiegare tutti i suoi potenziali elementi positivi. In questo si esprimeva una critica all'esperienza socialdemocratica, critica che non investiva il metodo politico, ma il fatto di aver accettato più o meno il sistema economico del capitalismo. Su questo tema, fino alle vicende del Midas, il PSI ha condotto una lotta coerente, che sul piano politico ebbe come conseguenza più rilevante la proposta di associare il PCI ad una maggioranza di governo, non solo per contingenti ragioni, ma per una prospettiva di più grande respiro storico, quella cioè di una piena integrazione del PCI in un sistema di valori democratici propri dell'Europa occidentale. Tale linea si fondava sul presupposto che i comunisti non avrebbero potuto sottrarsi alla necessità di fare i conti con sé stessi, quindi di conseguire una piena autonomia. Sarebbe ingiusto non ricordare la chiaroveggente intuizione di Giorgio Amendola il quale, in modo coraggioso per il tempo in cui lo faceva, sostenne il fallimento del comunismo e della socialdemocrazia e indicò dunque una strada che soltanto dopo prove drammatiche, talvolta tragiche, si sarebbe aperta in modo concreto. Vi era in tutto questo, come in talune intuizioni di Togliatti, sebbene oscurate dal permanente legame con l'URSS, per mezzo della formula “unità nella diversità”, l'idea che il modello comuinista non poteva essere esportato in Occidente e che esso non era comunque desiderabile. La critica espressa nel memoriale di Yalta alla mancanza di democraticità del sistema implica tale conclusione.

E ora dopo questi riferimenti, che non hanno un semplice valore storico, vorrei entrare nel vivo del dibattito. Comincio col rilevare che l'espressione “terza via” si presta a interpretazioni vari, perché il termine richiama la nozione di un percorso, quindi in senso figurato più il modo di realizzare il socialismo, che la sua sostanza. Vi è naturalmente questo significato, perché problemi della cosiddetta transizione, che sono stati così acutamente analizzati da Lelio Basso e da altri, esistono e sono complessi. Ma bisogna sgombrare il campo dall'idea che la terza via sia qualcosa di diverso da quella democratica occidentale. Se fosse così, se fosse solo una questione di modi politici, istituzionali, avrebbe ragione chi nega che esista una terza via, perché, respinta la prima, l'altra non potrebbe essere che quella autoritaria. Tuttavia anche in questo senso qualche precisazione non è superflua. Di forma democratiche ve ne sono varie, seconda delle vicende storiche di ciascun paese, del grado maggiore o minore della partecipazione effettiva delle masse lavoratrici all'esercizio del potere. Non starò qui a ricordare che le rivoluzioni democratiche non avvennero dovunque allo stesso modo e nello stesso tempo, né che esse una volta attuate furono poi consolidate definitivamente, né le varie versioni borghesi della democrazia. Allorché dunque ci rivolgiamo al modo democratico di realizzare il socialismo mediante un processo graduale, intendiamo parlare di un sistema molto avanzato,di una democrazia giunta al massimo della sua potenziale espansione di libertà, dell'esistenza di garanzie di istituzioni, che costituiscano un effettivo equilibrio di poteri, che impediscano accentramenti di carattere autoritario nella sostanza delle cose, anche se dissimulati sotto forme democratiche. La democrazia non consiste soltanto nel normale funzionamento del Parlamento eletto, di una pluralità di partiti, di una magistratura libera e così via, ma anche nella presenza organizzata delle forze sociali, dei sindacati, di organi di democrazia industriale, di estesi poteri decentrati.
            
Non basta riferirsi a tale concezione della democrazia per definire la terza via. Occorre invece precisarne la concreta sostanza, cioè l'ordinamento della società, del sistema economico che si intende conseguire mediante una progressiva opera riformatrice. Su questo noi abbiamo dei limiti negativi molto chiari, che però non sono sufficienti a definire in modo positivo la teoria, anche se essi hanno il loro valore anche a questo fine. Il socialismo della terza via diverso e nuovo rispetto alle esperienze fino ad oggi realizzate in Europa, quella del comunismo o socialismo reale che dir si voglia e quella della socialdemocrazia. Sarebbe dunque più proprio parlare di “nuovo socialismo” anziché di terza via: questo termine risponderebbe meglio all'idea di una nuova fase del socialismo. Va subito detto che anche questo termine vago, sia perché “nuovo” può significare molte cose  diverse persino contrastanti fra di loro, sia perché ormai anche “socialismo” ha una grande varietà di significati. Conviene perciò non indugiare su un problema di nomi, dal momento che le specificazioni sono indispensabili. Quindi è preferibile rivolgere queste e la nostra ricerca per giungere alla massima chiarezza possibile in un campo nel quale certo non tutto può essere detto preventivamente per scrivere un bel programma a tavolino, disgiunto dall'azione politica effettiva, ma possono e devono essere precisati caratteri fondamentali. Critici della terza via addebitano ai suoi fautori di non aver mai precisato in che cosa essa consista, quindi fanno pesare su di loro l'incapacità di una concreta definizione, una voluta ambiguità principalmente l'errore di annunciare qualcosa che non può esistere. Lascio da parte gli argomenti degli espedienti polemici  che dimostrano scarsa volontà di affrontare  una discussione seria. Così quello che configura la terza via come intermedio tra comunismo e socialdemocrazia, che si fonda su un'equidistanza dall'uno e dall'altra, senza alcun giudizio di valore. Viceversa è utile affrontare il dibattito proprio sul terreno sul quale ci sfidano i critici, per dimostrare che la terza via, quella di un socialismo nuovo, diverso, che esso è possibile, anzi il solo che può dar vita nell'Occidente europeo ad una società socialista, che implichi in tutti i campi, vita sociale, cultura, etica ed economia, una conquista di valori più elevati rispetto a quelli fino ad oggi conseguiti in due secoli di storia. L'idea fondamentale dovrebbe, a mio parere consistere in una sintesi tra il momento individuale e quello collettivo, in modo da salvaguardare pienamente quel complesso di valori di libertà, nel senso più ampio del termine, che sono stati conquistati fino ad ora in Occidente, nello stesso tempo realizzare un ordinamento della proprietà socialista, che renda possibile una gestione razionale dell'economia. La principale differenza tra socialismo e socialdemocrazia, come questa si è configurata nel nostro secolo, consiste in ciò, che una teoria socialista esige l'esistenza di una proprietà sociale dei mezzi di produzione; in questo supera il sistema capitalistico, mentre la socialdemocrazia, di fatto talvolta anche in termini di principio, ritiene conciliabile una più o meno avanzata giustizia sociale nell'ambito del sistema, da riformare quindi, non da superare e da distruggere. Così si dichiara che per un “moderno” socialismo per un socialismo “possibile” non è necessario abolire la proprietà privata, che il fine della lotta non è l'abolizione della proprietà, ma l'estensione massima della democrazia, che si possono ottenere mediante la pianificazione, far funzionare i congegni dell'economia privata in modo da conseguire fini sociali fissati dal potere democratico, ovvero che si possono correggere gli effetti negativi delle forze che operano in un mercato cosiddetto libero con opportuni interventi per mezzo di istituzioni, come la partecipazione dei lavoratori alla proprietà e così via. In via teorica si ritiene il pluralismo, essenziale per la democrazia, incompatibile non solo col leninismo, nel che si può essere d'accordo, ma anche con il marxismo, il che mi sembra del tutto ingiusto.
            
Conviene tuttavia rilevare che la pratica della socialdemocrazia in vari partiti europei è in una fase di rielaborazione, anche perché sono venuti a mancare taluni presupposti di fatto che avevano reso possibile il cosiddetto Stato del benessere. Si può rilevare che l'idea di un socialismo diverso dall'esperienza socialdemocratica si è fatta strada, così nel Partito socialista francese nella concezione di Mitterand, così nel tentativo svedese di superare il capitalismo, così in ampi gruppi della Spd, così nel Labour Party, con la direzione della sinistra. Ricordo anche che Mario Soares ha parlato di un socialismo diverso dal comunismo e dalla socialdemocrazia, ha tentato di attuarlo almeno nella prima fase della rivoluzione dei garofani. Né può ignorarsi la linea di Andreas Papandreu, che certo non può identificarsi con l'antica pratica socialdemocratica.
Ma come si può configurare questa proprietà sociale dei mezzi di produzione, che non può non essere la caratteristica di una teoria socialista? Il problema non riguarda solo i modi di gestione, se autoritativi diretti per mezzo dei lavoratori, cioè l'autogestione, anche se si tratta di un punto capitale. Esso, anche quello dell'estensione della proprietà sociale, se cioè debba investire tutta la sfera della proprietà in qualunque grado e forma di essa, ovvero essere principalmente auspicabile in taluni campi dell'attività produttiva e per taluni tipi di produzione. Non vi è dubbio che un collettivismo totale, imposto per giunta in modo autoritario, ha dato risultati infelici generalmente negativi , non solo perché esso induce alla burocratizzazione sempre più accentuata del sistema, ma anche perché risulta meno efficiente di come invece sarebbe la proprietà individuale in alcuni tipi e forme di impresa.
Il criterio discriminante non può che desumersi dall'esperienza, ma si dovrebbe essere in chiaro sul fatto che la proprietà dei beni d'uso di consumo va mantenuta, nel campo produttivo quella di numerose piccole aziende, fino a che i loro titolari riescano a mantenerle economicamente efficienti e remunerative. In un sistema nel quale vi sia una miriade di piccole imprese, sarebbe un grave errore pensare alla loro eliminazione.
            
Occorre dunque accettare l'idea, non nuova  per la verità, di un'economia a due settori, nella quale tuttavia la parte determinante non può non essere sottratta alla disponibilità privata, come per l'industria di base, la produzione di energia, grandi complessi non soltanto quelli di tipo monopolistico, le banche, gli istituti di carattere finanziario, trasporti terrestri e marittimi di carattere nazionale, le grandi holding del commercio internazionale e interno. Un'attenzione particolare va posta sui problemi dell'agricoltura, per i quali non si può ignorare il forte individualismo del produttore, né si può ignorare il deprimente effetto di misure statali che, sottraendo la disponibilità dei prodotti, assoggettandoli a un regime di prezzi imposti, hanno come sola conseguenza dell'attività produttiva, della quantità del prodotto. Ma da un altro verso il tema dell'agricoltura ha una grande importanza e va affrontato con energia e decisione, nel senso cioè di sottrarre il lavoro agricolo a quella sorta di inferiorità economica- sociale in cui versa in relazione ad altre attività come quella dell'industria. La dittatura dell'industria, per la quale si batteva nei primi anni del regime sovietico Trotsky, in forme e modi diversi, ha continuato ad essere esercitata anche nei paesi occidentali, né i sindacati sono esenti di responsabilità in questo campo. Un principio fondamentale dovrebbe essere opposto, cioè quello della piena uguaglianza del lavoro e del reddito agrario. Questo dovrebbe essere il primo stadio di una trasformazione socialista; il secondo sarà quello della progressiva creazione di forme associate, che subentrino a quelle individuali, osservando con rigore il principio della convinzione del consenso, rifiutando qualsiasi tentazione coercitiva.
            
In qual modo si può conseguire la costruzione di un ordinamento socialista, ammesso che il processo dovrà essere graduale, non istantaneo? Esclusa la conquista violenta del potere, l'instaurazione di un regime autoritario, gradualità vuol dire che nemmeno una maggioranza democratica attuerà d'un tratto tutto insieme le riforme dell'ordinamento economico- sociale. La sola risposta possibile a tale interrogativo muove dal principio che i lavoratori devono essere protagonisti della creazione di un nuovo ordine, che il socialismo cioè deve essere opera dei lavoratori medesimi. In tal caso il consenso indispensabile non lo si può ottenere se non con l'esperienza della superiorità dei mezzi socialisti rispetto a quelli privati, una superiorità non solo etica ma anche economica. Occorre cioè che la parte socializzata dell'economia dimostri di essere più efficiente della privata ,in modo da riuscire vittoriosa, da prevedere che nel corso più o meno lungo della trasformazione in senso socialista, nascano problemi difficili, principalmente che si verifichi una caduta dell'attività produttiva nelle parti non socializzate dell'economia. Titolari privati delle imprese, nel timore che anche ad essi tocchi la stessa sorte di perdere la disponibilità delle imprese stesse, le lasciano deperire e tendono a disfarsene. Ciò implicherebbe conseguenze negative e politiche, oltre quelle direttamente economiche, costringendo i governanti ad affrettare il processo di socializzazione, ma assumendo anche l'onere di industrie in crisi.
            
E' difficile indicare rimedi preventivi per questi e per altri pericoli che possano verificarsi, rendendo molto arduo il compito di una trasformazione graduale democratica ed esponendo un governo socialista al rischio d'incamminarsi per una via autoritaria di perdere la maggioranza dei consensi. Problemi del cosiddetto periodo di transizione sono molto complessi. Assicurare l'efficienza produttiva mentre si riforma il sistema e si sostituisce via via la proprietà sociale a quella privata è opera ardua. Guardarsi da facili ottimismi è un dovere. Il socialismo nella democrazia è necessario in una visione umana del mutamento, ma difficile. Non lo si dimentichi. Né si ignorino le possibili reazioni dei gruppi colpiti dalle riforme, né le ritorsioni internazionali del capitalismo. L'esperienza cilena è illuminante al riguardo.
            
Due altri temi mi sembrano di massima importanza, quello della compatibilità tra socialismo e mercato e quello dell'economia socializzata. Un mercato libero nel senso del capitalismo evidentemente non può sopravvivere, altrimenti si riprodurrebbero tutti i caratteri di esso. Contro tale tipo di mercato la critica di Marx rimane valida. Ma ciò non toglie che vi siano aspetti del mercato che sono utili e non vanno eliminati, in quanto essi implicano la rilevanza delle scelte da parte dei consumatori, il che incide sull'efficienza dell'impresa, sui costi, sulla qualità dei prodotti e così via, principalmente la possibilità, da parte dei soggetti cui la produzione è diretta, di influenzarla. Il problema della compatibilità tra socialismo, anzi collettivismo, e mercato era stato posto già agli inizi del secolo da un economista quasi dimenticato, Enrico Barone, che fu in tempi più recenti ricordato in uno studio di Sandro Pietriccione, diede luogo ad una discussione con Antonio Giolitti. Ma esso si è imposto ad economisti come Oskar Lange, intenti alla ricerca di mezzi adeguati per correggere taluni intollerabili effetti della pianificazione burocratica dell'economia. La questione è stata poi ripresa da altri, ma essa merita ulteriori approfondimenti, anche alla luce di idee e proposte nuove che hanno cominciato ad intravedersi da giovani economisti, come quelli della “Rivista trimestrale”. Non ho la presunzione di risolvere in poche righe problemi teorici e tecnici di tanta importanza, ma solo indicare la loro esistenza, di individuare qualche possibilità di soluzione. Ovvia la constatazione che il mercato non è qualcosa di universale, una eterna categoria del pensiero, Esso è un fatto storico, come tale legato a sistemi diversi, che si sono succeduti nel tempo. Noto che qualcuno fa sorgere l'economia con il mercato e indica in Aristotele colui che ha scoperto il mercato al suo primo apparire. Ma elementi rudimentali del mercato sono esistiti già prima, allorché in epoche primitive si cominciò ad uscire dalle chiuse economie gentilizie ed ebbero, sia pure in forme rudimentali, inizio primi rapporti di scambio. L'incidenza del mercato sull'attività produttiva variò secondo le forme dell'economia e della politica, non fu uguale nell'età antica, in quella feudale, nel capitalismo moderno. Anche il mercato dunque è un prodotto della storia, certamente quello del sistema capitalistico non può esistere in un sistema socialista. Ma quest'ultimo può ammettere un mercato socialista? Ruffolo lo ha recentemente negato, invece ha ammesso la possibilità di una negoziazione tra vari livelli di una struttura decentrata democratica, cioè una pianificazione policentrica. Senza negare l'utilità di metodi democratici decentrati della pianificazione, dubito che questo basti per garantire quella esigenza cui mirano sostenitori del socialismo di mercato, cioè le scelte individuali dei cittadini. Utile la proposta di ruffolo per scongiurare rischi insiti in una pianificazione centralizzata: essa però non mi appare risolutiva. D'altra parte non si può prescindere dal fatto che la stessa coesistenza d'imprese sociali e imprese private rende inevitabile un loro confronto sul mercato.
            
Gli argomenti addotti dagli ortodossi marxisti non possono valere nella nostra questione, né essi sono accettabili di fronte alla prova dei fatti. Comunque non possono essere utilizzati da un autore il quale considera la teoria del valore-lavoro come fonte dei guasti nella cultura e nella politica della sinistra; spiega così una pretesa incapacità del marxismo di sviluppare la teoria della pianificazione come teoria delle scelte. Dovrebbe essere chiaro che la critica di Marx al mercato come mezzo per l'acquisto di plusvalore da parte del capitalista presuppone la concezione del valore-lavoro. Senza di questa difficile è dimostrare in sede teorica l'esistenza del plusvalore, quindi dello sfruttamento, né sembrano riusciti tentativi che sono stati compiuti in questo senso. Comunque la questione del mercato socialista non si può affrontare sulla base della maggiore o minore ortodossia marxista. Addurre dei testi di Marx dai quali risulta l'idea piuttosto utopistica che la società socialista sarebbe stata in grado di regolare la produzione in anticipo in modo da fare da meccanismo preventivo di determinazione, dopo avere eliminato quello del mercato, ha prodotto risultati talvolta disastrosi per la stessa efficienza del sistema economico e per i bisogni dei consumatori. L'altro tema di grande rilievo è quello delle forme di gestione dell'impresa di un'economia socialista. In questo tema lo statalismo imperversa non solo nelle concezioni del “socialismo reale” ma anche in quelle della socialdemocrazia. L'idea della proprietà statale dei mezzi di produzione, perciò della forma della nazionalizzazione delle imprese, continua a dominare il mondo contemporaneo. Ma dovrebbe essere ormai riconosciuto che proprietà statale non è sinonimo di socialismo e può divenire invece  fonte di autoritarismo, perfino di oppressione. So bene che Lenin dopo la Rivoluzione di ottobre considerò il “capitalismo di stato” come un grande progresso, una conquista di fronte alla situazione politica precedente; nelle circostanze nelle quali si venne attuando il nuovo ordine può darsi che fosse così. Ma che lavoratori di paesi dell'Occidente considerino una loro grande vittoria il fatto che la proprietà dell'impresa passi dalle mani dei capitalisti privati in quelle dello Stato, più ancora di una struttura burocratica di gestione, non direi, anche se molte volte in caso di di crisi di un'industria privata sia frequente la richiesta di un intervento dello Stato. Ma questo ha solo il senso di salvare l'impresa accollando allo Stato il suo passivo per garantire il posto di lavoro.
             
Forme di proprietà sociale, associative, cooperative che esse siano, meglio rispondono ad una concezione non autoritaria del socialismo, sebbene non sia agevole da definirle. Se infatti la proprietà di una singola impresa viene attribuita al complesso dei lavoratori, essi si trasformano in soci comproprietari  dell'impresa medesima, facendo risorgere un sistema privatistico, anche se diverso da quello del capitalismo. Se si immaginano forme di proprietà per intere categorie sulla base di una diversificazione delle attività produttive si pongono pericolosi germi di corporativismo. Non si può dunque pensare ad altro che ad una vera e propria devoluzione dei beni in proprietà sociale, cioè di tutti i lavoratori, riconoscendo ad essi di decidere in via democratica le scelte produttive e le forme della gestione.  Per queste ultime si parla molto di autogestione da parte dei lavoratori; in tal caso non si può che riferirsi a singole aziende o imprese. La sola attuazione di ampia portata di un sistema di autogestione è, come noto, quella jugoslava, mentre altrove vi sono stati limitati e contrastati tentativi che non possono assurgere al valore di modelli. L'esperienza jugoslava fornisce dati interessanti sul grado di partecipazione effettiva dei lavoratori e sull'efficienza produttiva, non la si può considerare un semplice decentramento economico. Ma essa non può suggerire molto per una teoria socialista democratica, perché il regime politico jugoslavo, anche se in forme meno rigide del comunismo di tipo sovietico, con una pluralità di organismi, è tuttavia fondato sul partito unico non su di un ordinamento democratico di tipo occidentale. L'autogestione dei lavoratori è senza alcun dubbio la forma più elevata di partecipazione ma va considerata come un punto di arrivo, una conquista, che richiede una coscienza di classe molto elevata, una rigorosa moralità sociale, che respinga e renda vani gli impulsi duri a morire dell'egoismo individuale dell'interesse privato. Non sono virtù facili e universali, ma non sono nemmeno irraggiungibili. D'altra parte un coordinamento con un piano economico nazionale è indispensabile; questo di per sé introduce un limite alla libertà di gestione, per evitare che questa non tenga conto degli interessi collettivi e faccia prevalere quelli limitati, parziali dell'impresa.
            
Mi sono soffermato su questi argomenti non certo con la pretesa di darne una compiuta trattazione teorica, ma solo con l'intento di contribuire ad un approfondimento dei contenuti di una rinnovata concezione del socialismo e di sollecitare una discussione, un confronto con tutte le forze della sinistra per giungere ad una visione comune degli scopi finali. Ma tutto non può ridursi ad un dibattito astratto , alla formulazione di un ennesimo programma. Quel che conta è l'avvio di un'azione politica, che si sviluppi quotidianamente, che non rinvii i problemi al giorno nel quale si potrà attuare il socialismo. Lo stato del sistema economico tradizionale, la crisi permanente grave in cui versa il nostro paese esigono risposte politiche immediate. Occorre quidi riannodare i fili, che sembrano recisi, tra i maggiori partiti della sinistra, muovendo dalla svolta del 13 gennaio. Ho già avuto occasione di dire che le ragioni che determinarono la scissione di Livorno sono cadute. Si tratta di una constatazione di fatto, dalla quale non nasce in modo automatico la conseguenza che ormai si può ricomporre in un solo partito l'unità del movimento dei lavoratori. Questa sarebbe una conclusione semplicistica, perché tra comunisti e socialisti non vi sono soltanto diversità derivanti dalle rispettive concezioni teoriche, ma vi sono quelle più difficili da superarsi che nascono dalla storia. Anche se questa è intessuta di alterne vicende, di alleanze che sembrano preludere alla fusione, discordie acerrime, che non sono assenti nemmeno nelle revisioni storiografiche, impedisce un obiettivo giudizio sui fatti. So bene che non si può richiedere a nessuno di rinnegare le proprie origini, la propria storia. Questo vale per i comunisti non meno che per i socialisti. Dire che le ragioni della scissione di Livorno sono superate vuol dire che lo sono da parte di tutti in primo luogo, naturalmente, da parte di chi le ha promosse. Quanto questo sia arduo lo si può comprendere. In genere oggi le reazioni sono negative, si ammette al più che l'ipotesi dell'unificazione è prematura. Questo lo sapevo anch'io, né ero tanto fuori dalla realtà da non comprendere che si sono create diversità profonde, che non si possono superare in un giorno. Né ignoravo che il partito socialista dopo che in esso sono avvenuti mutamenti sostanziali, ha cancellato dal suo programma anche a lungo termine la prospettiva, che era stata tenuta in piedi sempre in passato, della creazione di un partito unitario. Ciò nondimeno il tema è posto dalla ragione e dalla storia, anche se gli uomini sono riluttanti a riconoscerlo.

Quel che conta per l'immediato è la politica. Non si può negare che si è aperta una nuova possibilità di dar vita ad un'alleanza di tutte le forze riformatrici per un'alternativa di  governo alla DC e al centro; allo scopo di rendere il nostro sistema politico più dinamico e uniformarlo a quello delle grandi democrazie europee. Né vale l'argomento abbastanza puerile che allo stato mancano le condizioni anche numeriche per un'alternativa di governo, che quindi proporla vuol dire affrontare il tema delle elezioni anticipate. Dico puerile, perché un iniziale avvicinamento tra socialisti e comunisti per dar vita ad un'alleanza riformatrice non implica di necessità un'immediata conclusione. Lo sviluppo delle intese per un governo alternativo non è incompatibile con la prosecuzione della legislatura. L'importante è venire in chiaro sulla linea strategica, di sapere chiaramente dove si va a finire, di intendersi sul punto centrale, se cioè l'alternativa rimane qualcosa di astratto, che sta tra le nuvole della fantasia, o entra finalmente nella realtà concreta della politica. Sarebbe un assurdo, penso non solo per chi scrive, ma anche per molti del mio paese, che, dopo avere per tanti anni perseguito un disegno di alternativa, averne fatto oggetto di deliberazioni e congressi, ora che viene dispiegandosi l'autonomia internazionale del PCI, tutto restasse come prima e non si traessero le conseguenze da un avvenimento sempre considerato dal PSI come decisivo per mutamenti politici di fondo. Se ciò dovesse avvenire, quale regalo all'ortodossia filosovietica per i nostalgici del passato! E quale regalo per conservatori dell'ordine economico- sociale esistente, i quali potrebbero dormire i loro tranquilli sonni di fronte alla manifesta divisione delle sinistre! Con tutta la comprensibile prudenza, la maggioranza del PSI difficilmente potrà sottrarsi alla revisione della sua politica; non vi è nulla di umiliante nel riconoscere che se mutano dati reali anche una politica può e deve mutare.

                                                                                 
                                                                                                                  
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L' articolo, tratto dal libro di Francesco de Martino “Per il Socialismo l'unità della Sinistra e la pace, scritti politici e testamento 1980-2002”, curato e introdotto da Antonio Alosco, Guida Editore, 2004, è stato scelto, introdotto e trascritto al computer da  Marco Zanier.




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