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mercoledì 26 giugno 2013

COSA SUCCEDE IN BRASILE? di Riccardo Achilli




COSA SUCCEDE IN BRASILE?
di Riccardo Achilli



Sulle affollate e persistenti manifestazioni di piazza in Brasile sta circolando una interpretazione, che si va consolidando nella sinistra italiana ed europea, imperniata sulla denuncia della pesante infiltrazione della destra, funzionale a far precipitare il Paese in una condizione in cui sia più facile far cadere il governo del PT guidato dalla Rousseff.
Tale interpretazione è ovviamente corretta. Il Movimento Sem Terra, in un sintetico comunicato in cui analizza gli eventi in corso, lo conferma, affermando che “la destra si infiltra e tenta di generare un clima di violenza , di caos e dar la colpa al PT e a Dilma”[1]. D’altra parte, basta vedere come i politici di centro-destra brasiliani stiano strumentalizzando la situazione per trarne vantaggio. Dirò di più: una cosa che non è stata sottolineata a sufficienza è che negli Stati in cui la protesta è esplosa (São Paulo, Rio de Janeiro, Minas Gerais) il governatore è un moderato (o del PSDB o del PMDB). Inoltre, sia le politiche di tariffazione dei biglietti dei mezzi pubblici di trasporto (uno dei detonatori della protesta) e la gestione del welfare (ivi compresa la maggior parte degli ospedali pubblici [2]), sia la gestione della polizia militare che ha represso le proteste, sono di competenza del governatore dello Stato, non del governo centrale della Rousseff (va però anche detto che lo Stato di Bahia, dove la protesta è stata molto virulenta, è amministrato da un governo del PT, ma in questo caso l’intensità delle manifestazioni è anche derivante dal fatto … che la nazionale brasiliana ha giocato a Salvador de Bahia la sua partita determinante e più “prestigiosa”, contro l’Italia). D’altra parte, invece, mentre i governi locali mandavano la polizia, il Governo centrale ha immediatamente teso la mano ai manifestanti, cercando sin da subito un dialogo, fino alle proposte delle ultime ore, in cui la Rousseff si impegna formalmente ad investire maggiormente nel settore sanitario ed in quello scolastico, e persino a mettere in piedi una riforma della Costituzione, per cercare (ovviamente invano, perché non è con le norme costituzionali che si risolve il problema) di dimostrare impegno contro il fenomeno della corruzione, altro cavallo di battaglia dei manifestanti.

Evidentemente, quindi, l’obiettivo reale delle proteste è la malagestione di servizi pubblici essenziali amministrati da Stati, nella maggior parte dei casi, governati da forze centriste e moderate, non dal PT, non dalla sinistra. Inoltre, la repressione poliziesca delle proteste è gestita perlopiù dai singoli Stati, mentre il governo federale cerca un accordo, reso difficile anche dall’assenza di una struttura di vertice rappresentativa dei manifestanti. Che a livello mediatico se ne sia fatto invece un problema di governo centrale della Rousseff dimostra chiaramente che è in atto una manipolazione mirata ad indebolire l’esperimento progressista brasiliano, e, indebolito questo, a catena colpire tutti gli altri analoghi esperimenti in atto in tutta l’America Latina. I vantaggi politici ed economici del soffocamento del tentativo latinoamericano di affrancarsi dai legami imperialistici ancora esistenti sono evidenti.
Tuttavia, tali spiegazioni, per quanto vere, sono forse rassicuranti, perché se, come ci dicono i sondaggi, larghi settori della società brasiliana (quindi anche fasce di elettori del PT) sono sostanzialmente d’accordo quanto meno con i motivi delle proteste,  evidentemente non si può liquidare la questione rassicurandosi con i “soliti fascisti” che manovrano le proteste dietro le quinte. Ci sono evidentemente delle contraddizioni profondamente radicate nel modello di sviluppo che il PT, da Lula alla Rousseff, ha proposto al Paese in questi ultimi dieci anni, e che stanno esplodendo oggi. In verità, i primi segnali di tensione del modello progressista del PT sono emersi già in sede di elezioni presidenziali del 2010: smentendo tutti i pronostici, la Rousseff è stata infatti costretta ad andare al ballottaggio, avendo preso poco meno del 47% dei voti al primo turno. Questo piccolo incidente di percorso avrebbe dovuto segnalare che il consenso popolare attorno al modello proposto dal PT era forte, ma non così forte come si pensasse.

Pertanto, oggi che la protesta è esplosa, evitare la questione delle contraddizioni del modello progressista brasiliano, o derubricarla, è pericoloso, perché non è mettendo la polvere sotto il pavimento che si evitano i pericoli di crollo di un modello sociale e politico, crollo che sarebbe esiziale per tutta l’America Latina. Solo affrontando i temi irrisolti si può sperare di rilanciare, con nuovo vigore e rinnovata adesione popolare, l’esperimento progressista di un intero continente.
Due cifre diverse, l’una che misura un fenomeno assoluto, l’altra che ne misura uno relativo, racchiudono in sé, probabilmente, un buona parte delle ragioni della protesta, e danno un quadro dell’esito reale delle politiche più celebrate dell’era di governo del PT, ovvero quelle redistributive. Iniziamo dal dato che misura il fenomeno assoluto: la quota di brasiliani che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno, lo standard internazionale dell’indigenza assoluta, si riduce cospicuamente durante gli anni di governo progressista, dal 10,6% del 2002 al 6,1% del 2009, ed è in continua ed ulteriore riduzione anche dopo il 2009. Ciò significa che le politiche del PT, a partire dal tanto celebrato programma Fame Zero e dal programma Bolsa Escola, hanno avuto un successo notevole nel ridurre in termini assoluti l’area della povertà estrema.
Se però guardiamo alla quota di reddito nazionale detenuta dal 10% dei brasiliani più poveri, essa non cambia quasi per niente: passa dallo 0,6% allo 0,8% fra 2002 e 2009. E rimane anche bassa se paragonata ad altri Paesi latinoamericani: è dell’1,2% in Argentina, dell’1,8% in Uruguay, dell’1,5% in Cile, dell’1,2% in Ecuador.
Il secondo 20% dei brasiliani per classe di reddito (un gruppo coincidente cioè con i ceti medio-bassi, con la categoria degli impiegati esecutivi,  dei tecnici, degli operai specializzati) passa dal detenere il 5,9% del reddito nazionale nel 2002 al 7,1% nel 2009, una variazione, anch’essa, di scarso valore. In Argentina, tanto per fare un paragone, tale classe di redditieri detiene l’8,9% del reddito nazionale, cioè il 25% in più rispetto ai propri omologhi brasiliani. In Uruguay, il valore è quasi identico a quello argentino (8,8%), così come è più alto anche il dato ecuadoriano (8,5%). La quota di reddito detenuta dai ceti medio-bassi brasiliani è analoga a quella di un Paese, come la Colombia (6,8%) che ha avuto governi liberisti di destra [3].

Questi dati ci dicono che sebbene il PT abbia ottenuto notevoli successi nella riduzione dell’area di indigenza oggettiva in termini assoluti, cioè in termini di numero di famiglie oggettivamente estremamente povere, non ha avuto altrettanto successo in termini relativi, cioè in termini di migliore redistribuzione del reddito fra le classi sociali, poiché le classi di reddito medio-basso non colmano in misura significativa la distanza che le separa dalle classi di reddito più elevato (anzi, tali distanze aumentano, perché se la quota di reddito nazionale detenuta dal 10% dei più poveri non si modifica, e quella detenuta dal secondo 20% dei redditieri aumenta solo di 1,2 punti, già a partire dal terzo 20% dei redditieri, coincidente con le classi di reddito medio-alte, tale quota aumenta di 2 punti, ed il 20% dei più ricchi continua a detenere circa il 59% del reddito nazionale brasiliano). E poiché la povertà non ha solo una dimensione oggettiva (cioè derivante dall’oggettiva capacità di soddisfare o meno le necessità vitali basiche) ma anche una dimensione percepita (derivante dal paragone che l’individuo fa fra il suo tenore di vita e quello della media della società cui appartiene) ecco che l’incapacità di ridurre in modo significativo le distanze relative fra i più poveri ed i più ricchi diventa, naturalmente, fonte di frustrazione e rabbia sociale latente, nonostante il fatto che, oggettivamente, e grazie anche alla crescita economica, i più poveri stiano meglio di prima. In sostanza, si è verificata una traslazione verso l’alto dell’intera società, che però non ha ridotto (ed anzi per certi versi ha aumentato) le distanze relative fra le sue varie componenti.

Evidentemente, nel contesto sopra descritto, quando un evento come il mondiale di calcio viene percepito come una opportunità di business per i “soliti” più ricchi, mentre elementi di welfare a forte carattere redistributivo vengono trascurati nelle scelte allocative di spesa pubblica, la dimensione percepita della povertà trasforma la frustrazione in rabbia sociale al primo episodio che conferma la percezione dell’ingiustizia (l’aumento del biglietto dell’autobus, ad esempio).
Questa rabbia da “povertà percepita” diviene peraltro tanto più forte quanto più si concentra nei ceti medi urbani (diciamo nel proletariato terziarizzato urbano) che, essendo usciti dall’indigenza più assoluta, aspirano ad una ascesa rapida del proprio tenore di vita, tanto più considerando gli elevati tassi di crescita dell’economia brasiliana degli ultimi anni (che in teoria dovrebbero creare gli spazi per dare risposta alla domanda di benessere di tali gruppi sociali), ma si vedono compressi , in tale aspettativa tipica dei ceti sociali emergenti dei Paesi capitalistici in crescita, da un meccanismo redistributivo ancora penalizzante se paragonato agli altri Paesi progressisti dell’area, che va a determinare una dispersione non favorevole attorno ad un Pil pro capite medio che, depurato dall’inflazione non proprio bassa, è pari a solo il 92% del dato uruguayano, ed all’84% di quello cileno. In sostanza, i ceti medi brasiliani non sperimentano lo stesso processo di aumento rapido del benessere che sperimentarono i ceti medi italiani durante il boom economico degli anni cinquanta del secolo scorso. E ciò genera frustrazione.
E naturalmente la rabbia si appunta sugli elementi redistributivi del welfare, per definizione la sanità e la scuola. E si alimenta di considerazioni reali: la spesa pubblica rappresenta, nel 2011, il 45,7% della spesa sanitaria totale, un valore molto basso anche rispetto ai Paesi dell’area (ad esempio, in Bolivia la spesa pubblica rappresenta più del 70% del totale della spesa sanitaria, in Argentina il 60,6%, in Colombia il 74,8%, in Uruguay il 67,6%, persino in Cile è più alta, raggiungendo il 47%). Peraltro, tale quota non mostra alcuna crescita dal 2002 in poi. Con il risultato che ancora larghissima parte della sanità brasiliana è privatizzata, e costringe chi vuole avere un’assistenza minimamente decente ad acquistare costose assicurazioni sanitarie (i convenios) mentre la sanità pubblica, tranne alcune eccellenze, è di cattiva qualità media. Un discorso analogo vale per la scuola.  Il 5,6% di PIL dedicato alla scuola, che per noi italiani sembra una cifra astronomica, è un dato inferiore a quello di altri Paesi dell’area (Bolivia, Argentina) e largamente sottodimensionato rispetto alle possibilità del Paese, stante la sua crescita molto dinamica. Se poi si aggiunge che la gioventù è spesso esclusa dai processi di partecipazione politica, il salario di ingresso per un giovane neoassunto si aggira mediamente attorno ai 250 euro mensili, mentre l’affitto di una stanza (non di un appartamento) a San Paolo può costare anche 150 euro al mese, diventa facile capire perché molti giovani studenti universitari dei ceti medi e medio-bassi animino le proteste.

Se a ciò si aggiunge un clima sociale non certo tranquillo, perché il Brasile è fra i venti Stati del mondo a più alto tasso di omicidio, la criminalità legata alle gang di strada è un pericolo costante, associata ad una polizia particolarmente aggressiva e violenta, i sequestri di persona sono particolarmente frequenti e colpiscono, ovviamente, le classi medio-alte, mentre le compagnie di sicurezza private fioriscono, e la corruzione, secondo la classifica di Transparency, è di livello medio-alto (con una posizione in graduatoria basata sul corruption perceptions index grosso modo analoga a quella italiana) è comprensibile che settori della società brasiliana, tipicamente quelli a più alto tasso di istruzione, inizino a provare un disagio crescente rispetto  al modello di crescita proposto dal PT. Un modello in cui entra in crisi la presunzione di correlazione inversa, tipica della cultura di sinistra tradizionale, fra crescita economica e declino della criminalità e dei fenomeni corruttivi, mentre emerge l’immagine tipica di un capitalismo emergente, rampante e con non molti scrupoli, in cui crescita economica e criminale vanno a braccetto. Tale convergenza avviene nella misura in cui la criminalità fornisce una risposta alla domanda emergente di tipo consumistico/edonistico di chi, dentro questo processo, si arricchisce (non certo i ceti medio-bassi della società, come detto in precedenza) e fornisce soluzioni compensative a chi invece subisce la crescente alienazione di processi di crescita privi di equa redistribuzione sociale (sotto forma di droga a basso costo ma alto potenziale distruttivo, come la pasta-base, o di altre attività di “distrazione” gestite dalla criminalità), fornisce soluzioni a basso costo per i problemi di reclutamento di manodopera e di gestione ambientale delle imprese, crea mercati paralleli dentro i quali oliare, con la corruzione, i processi di crescita di interi comparti produttivi, come l’edilizia, ma anche il settore delle bioenergie e quello estrattivo (che spesso operano, anche con i governi del PT, con logiche predatorie rispetto alle terre possedute dalle comunità indigene, o rispetto alle esigenze ambientali) ed infine consente di sfruttare, tramite il sommerso economico, spazi interstiziali di mercato che, come ci dimostrano Schneider ed Enste (2010) non sarebbero mai valorizzati da imprese legali, aumentando quindi il tasso di crescita potenziale dell’intera economia, ivi compreso il settore legale di essa.

E’ chiaro che tali degenerazioni non sono appannaggio del solo modello brasiliano. Anche in quello uruguayano, dove la crescita è guidata da un altro schieramento politico progressista, si notano gli stessi ingredienti di forte liberazione dalla povertà più estrema, che però non modifica la sperequazione distributiva in termini relativi, penalizzando quindi i ceti medi e medio-bassi, che non vedono benefici dalle politiche sociali del Governo, e di forte associazione fra crescita e ampliamento della criminalità, della corruzione e dell’insicurezza generale. Si tratta quindi di lineamenti abbastanza caratteristici di molte esperienze progressiste in America Latina, e per questo motivo serve una analisi seria, critica, di tali esperienze, perché la critica è l’unico modo per preservarle e farle andare ancora avanti.




[2] Esiste infatti un sistema sanitario pubblico nazionale finanziato da fondi federali (il SUS) ma la gestione della maggior parte degli ospedali, ad eccezione dei centri di eccellenza e dei policlinici universitari, avviene su scala statale e municipale, così come è gestito su scala comunale il programma PSF, analogo alla nostra ADI. Inoltre, i singoli Stati sono anche responsabili della programmazione del sistema sanitario statale, mentre al livello federale rimane solo il compito di finanziare e coordinare/valutare il sistema. 
 
|3|  Fonte: world indicators database. 
 


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