di Riccardo Achilli
L'ossessione per il debito
Le politiche economiche attuali
sono ossessionate dal moloch del debito, e risultano totalmente dominate da
tale ossessione. La verità è però che la teoria liberista secondo cui non ci
deve essere debito oltre una certa percentuale del PIL, base stessa
della concezione monetarista dell'euro, non ha niente di tecnico, è solo
ideologia.
Già Marx ci segnala chiaramente
che il debito è il modo normale con cui funziona un'economia capitalista. Il
debito è addirittura un fattore fondamentale per la nascita di un'economia
capitalista: nel suo capitolo sull'accumulazione originaria nel Libro I del
Capitale, Marx dice infatti che “Il debito pubblico (...) imprime il suo
marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza
nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è
il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna
che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita (...) Il
debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione
originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro,
che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale,
senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio
inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario”.
Ma non basta. Come Marx spiega
nel libro III, il debito è fondamentale per potenziare fino al massimo delle
sue capacità il processo di accumulazione del capitale, perché consente di
accentrare piccole riserve di capitale monetario, di per sé troppo piccole per
essere utilizzabili, associandole al risparmio privato, per creare masse di
capitale in grado di accelerare l'investimento e l'accumulazione di nuovo
capitale, creando nuova moneta bancaria tramite il meccanismo del
moltiplicatore dei depositi (“Con lo sviluppo del capitale produttivo di
interesse e del sistema creditizio ogni
capitale sembra raddoppiarsi e in alcuni casi triplicarsi a causa dei diversi
modi in cui lo stesso capitale o anche soltanto lo stesso titolo di credito
appare in forme diverse in mani diverse. La maggior parte di questo “capitale
monetario” è puramente fittizio. Ad eccezione del fondo di riserva, tutti i
depositi non sono altro che crediti sul banchiere, che non si trovano però mai
in deposito. In quanto essi servono alle transazioni di compensazione, hanno la
funzione di capitale per i banchieri, dopo che questi li hanno dati in
prestito. I banchieri si pagano reciprocamente i rispettivi assegni su depositi
che non esistono, mediante cancellazione reciproca di questi crediti ... Nel
sistema creditizio ... tutto si raddoppia e si triplica”).
Quindi, se capitalismo e debito
sono inscindibili fra loro, chi sostiene una guerra santa contro il debito,
fatta di austerità, in realtà sostiene una posizione ideologica, in cui il
debito non c'entra niente, e che è fatta per perseguire altri scopi. Non siamo
noi i rivoluzionari: è lui. Il che ovviamente non significa che si debba
spendere senza controllo, accumulando disavanzi e quindi debito sulla base di
sprechi, o di spesa clientelistica o consociativa, come ha fatto il malinteso
keynesismo dell'Italia degli anni buoni, giustamente deprecato da Marcello De
Cecco.
Un saldo primario difficilmente migliorabile
In virtù di quanto sopra, già nel
2010 era illogico porsi obiettivi di contenimento del debito pubblico, essendo
casomai necessario preoccuparsi del disavanzo primario (cioè della differenza
fra spese ed entrate dello Stato al netto del pagamento degli interessi sul
debito) oggettivamente fuori controllo, e indicativo di una spesa corrente non
controllata in modo razionale ed alimentata da sprechi e inefficienze tipiche
del Belpaese (nel 2009, in corrispondenza con il calo del PIL di quell'anno, il
disavanzo primario arriva allo 0,8% del PIL, evidenziando una struttura delle
finanze pubbliche fragile, esposta agli effetti del ciclo, in ragione di
sprechi di spesa pubblica e di una anormale estensione dell'area
dell'evasione/elusione fiscale e contributiva, il che rappresenta un problema
anche in una ottica keynesiana, perché in fase recessiva un simile assetto non
genera gli spazi per utilizzare in chiave anticiclica il bilancio, impedendo le
politiche di stop and go).
Nel 2013, poi, preoccuparsi del
debito è addirittura demenziale, e rivela come le politiche della Trojka siano
orientate verso obiettivi politici di ristrutturazione delle nostre società in
senso liberista, e non verso ragionevoli obiettivi tecnici. Nel 2012, infatti,
l'Italia ha raggiunto un avanzo primario, in percentuale del PIL, che è il più
alto dal 2008 in poi (2,5%) e per il 2013 le previsioni parlano di un 2,9% del
PIL, fino al 3,7% nel 2014, il valore relativo più alto dell'avanzo primario
dal 2000 ad oggi. In termini assoluti, considerando il saldo primario di
bilancio valutato a prezzi 2000, nel 2014 saremo al quinto anno consecutivo di
saldo positivo e crescente, con un valore che sarà tornato al picco pre-crisi
del 2007.
Andamento
del saldo primario italiano in termini reali
Fonte:
elaborazioni su dati Istat
Parlare ancora di tagli al funzionamento della P.A., cioè di ulteriore spending review, significa ignorare che la spesa pubblica corrente di funzionamento (la spesa per stipendi dei funzionari della P.A e per consumi intermedi per il funzionamento del settore pubblico) nel 2014, scenderà al 18% del PIL, dal picco del 19,8% registrato nel 2010, e le innumerevoli regole automatiche già previste dalla spending review del 2012 (inasprimento del blocco del turnover, riduzione progressiva di numerose spese per acquisti intermedi e passaggio automatico alle centrali uniche di acquisto) comporteranno, se non modificate, effetti discendenti anche per gli anni successivi. Di fatto, nel 2014 la spesa corrente di funzionamento della P.A., in termini reali, tornerà ai livelli del 2004, cioè di 10 anni prima! Si tratterà del più importante e prolungato processo di riduzione della spesa corrente di funzionamento della P.A. come minimo degli ultimi 35 anni, da quando cioè esistono serie storiche comparabili.
Andamento della spesa corrente
di funzionamento in termini reali
Fonte:
elaborazioni su dati Istat
È quindi evidente che un ulteriore miglioramento del già ingente avanzo primario non potrà essere ottenuto tramite la spesa corrente di funzionamento, da cui è stato spremuto quasi tutto ciò che era possibile spremere, se non, ovviamente, smantellando integralmente interi livelli di governo (ad es. le province) o interi comparti di attività della P.A. (ad es. privatizzando settori del welfare pubblico) e modificando la normativa ed i contratti collettivi sul pubblico impiego in modo da licenziare contingenti di dipendenti pubblici analoghi a ciò che si sta facendo in Grecia, e/o riducendo salari e prestazioni sociali. Cioè al prezzo di una guerra sociale.
E' altresì evidente che non è
possibile toccare la spesa pubblica per prestazioni previdenziali. Con la
riforma del 2010 e quella del 2011, infatti, la spesa pensionistica italiana,
che veleggia di poco sopra il 16% del PIL (valore inferiore a quello di
Germania, Francia, Olanda e Svezia, quindi un valore povero, se confrontato con
il resto d'Europa) secondo le previsioni della RGS aggiornate al 2013, già dal
2015 dovrebbe iniziare a scendere, fino a toccare un punto di minimo nel 2027,
attorno al 15,1-15,2% del PIL. Un calo di un punto di spesa rispetto al PIL,
mentre la popolazione con 65 anni e oltre crescerà, sullo stesso periodo, di
quasi il 22%, portando quindi a pensioni
medie future di livello miserrimo, tali da non poter più essere toccate
ulteriormente senza scatenare una rivoluzione.
Naturalmente, non è nemmeno possibile toccare ulteriormente
la spesa in conto capitale, già scesa su livelli a dire poco squallidi (pari ad
una previsione del 2,9% del PIL nel 2014, a fronte del 4,4% registrato nel
2009). A meno di non rinunciare definitivamente a qualsiasi speranza di ripresa
della crescita.
Anche sul versante delle entrate,
non sembrano esservi grossi margini. E' vero che l'area dell'evasione di
imposta è vicina al 20% del PIL, per un mancato incasso pari a circa 310-340
miliardi all'anno. Tuttavia, nonostante la feroce stretta impressa dal Governo
Monti, nel 2012 sono stati accertati 41 miliardi, ovvero poco più del 10%
dell'evasione totale. L'esperienza dice poi che, fra somma accertata e somma
effettivamente riscossa, vi è una caduta dell'80% circa, per cui, nonostante la
feroce stretta sull'evasione fiscale, si recuperano spiccioli (10-13 miliardi
all'anno circa). Margini di ulteriore incremento di tale somma possono passare
per il tramite di accordi internazionali che riducano l'operatività dei
paradisi fiscali, ma la stretta sui capitali illecitamente portati all'estero,
che sembra, dalle parole di Letta, l'ultima frontiera della battaglia del
governo sul fronte dell'evasione, non può che portare a risultati molto
aleatori e piuttosto differiti nel tempo. Ed inoltre, anche un eventuale
incremento del recupero di evasione dovrebbe essere portato, almeno in parte, a
riduzione della pressione fiscale, che oramai giunta al 44% apparente ed a
circa il 54% reale, ha raggiunto livelli assolutamente insostenibili,
soprattutto per un tessuto di imprese soffocato da una crisi economica di
dimensioni incredibili.
E' chiaro quindi che non ci sono
spazi, né sul versante della spesa né su quello delle entrate, per migliorare
ulteriormente il saldo primario, che tutt'al più potrà migliorare molto
lievemente e progressivamente, rispetto ai livelli attuali, solo in ragione di
effetti di inerzia di provvedimenti di blocco automatico delle spese o di
incremento delle entrate, o grazie alla piccola ripresa che sembra profilarsi
per fine 2013/2014.
L'unico modo per dare uno scossone significativo all'avanzo
primario senza creare scenari greci di smantellamento di interi comparti della
P.A.o di rivolte sociali, atteso che l'attuale premier intende puntare su un
autunno che sia socialmente il meno caldo possibile, come ha dichiarato di
recente, è quello della dismissione di asset immobiliari e mobiliari in mano
allo Stato: la vendita di immobili o beni demaniali e di quote azionarie in
aziende partecipate dallo Stato. Anche qui, però, c'è un “ma”. Il DEF prevede
già introiti per dismissioni pari a 1,5 miliardi all'anno circa. Per avere un
impatto significativo sul saldo primario tale cifra dovrebbe essere quantomeno
moltiplicata per dieci. E come dovrebbe fare il tesoro per rimediare 10-15
miliardi all'anno di introiti da dismissioni? Premesso che il demanio storico
ed artistico e naturale è da considerarsi inalienabile, altrimenti andrei a
incatenarmi davanti a viale XX Settembre, e non sarei il solo, e premesso che
il patrimonio immobiliare dello Stato è ben difficile da piazzare, atteso che,
secondo Nomisma, il mercato immobiliare ha già perso il 20% del prezzo medio
delle abitazioni nel periodo 2008-2013, ed una massiccia immissione sul mercato
di abitazioni di proprietà dello Stato rischierebbe di dare il colpo di grazie
finale ad un mercato che agonizza per eccesso di offerta. Non resterebbero che
le privatizzazioni. Ma incassare 10 miliardi all'anno con le privatizzazioni
significherebbe privarsi, nel giro di tre-quattro anni, di tutta la quota
statale nell'ENEL ed in Finmeccanica, di tutto il capitale di Poste Italiane, e
scendere sotto la quota di controllo in ENI, oltre che cedere un bel pacchetto
di azioni di Trenitalia. Peraltro, se l'operazione fosse fatta a riduzione
diretta del debito pubblico, non vi sarebbero effetti sul saldo primario. E ci
si ritroverebbe ad aver perso il controllo strategico di imprese di interesse
nazionale, senza aver prodotto effetti significativi neanche sul debito, atteso
che un aumento di pochi punti dello spread azzererebbe l'effetto degli incassi
da privatizzazione, posto che 10 miliardi di incasso per qualche anno non
sarebbero niente, di fronte a un servizio del debito che oggi costa 95 miliardi
e che nel 2015, secondo le proiezioni ufficiali della Rgs, arriverà a 100
miliardi. Basti ricordare che, secondo le stime Bankitalia, ogni aumento di un
punto dello spread genera un incremento di spesa per interessi sul debito pari
a 19 miliardi in tre anni, ceteris paribus. Senza contare poi che l'ulteriore
privatizzazione di energia elettrica e trasporti ferroviari richiede, pena
l'impossibilità di trovare un compratore interessato, una operazione
preliminare di neutralizzazione del potenziale effetto monopolistico del
gestore della rete, che rallenterà le procedure di vendita. Il sospetto
evidente è che il piano di privatizzazioni serva soltanto per accontentare
l'appetito vorace di qualche potentato internazionale, affamato di bocconi
imprenditoriali pregiati del nostro Paese, cui il Governo italiano si piega.
Che fare
Riassumendo: non c'è modo di
incidere sul saldo primario, né agendo sulle uscite o le entrate correnti, né
agendo sugli introiti da dismissioni.
Ovviamente gli interessi sul debito pubblico dipendono dai comportamenti dei
mercati, e non sono influenzabili dal nostro Governo. Formalmente, infatti,
abbiamo la seguente relazione:
Dt = Dt-1(1+i) + Spt
Ovvero: il debito pubblico D al
tempo t dipende dal suo valore al tempo precedente, incrementato del servizio
sul debito al tasso di interesse i e del deficit di bilancio primario (spese –
entrate al netto degli interessi).
Dividendo entrambi i membri
dell'equazione per il PIL Yt, il cui tasso di variazione fra t-1 e t è (1+n), e
dividendo numeratore e denominatore dell'espressione Dt-1/Yt al secondo membro
per Yt-1, otteniamo:
dt = dt-1 (1+i)/(1+n) + spt
dove dt è il rapporto debito/PIL
al tempo t, e spt è il rapporto saldo primario/PIL.
Quindi, assumendo esogeno spt,
perché, per le ragioni sopra espresse, non c'è niente di significativo che
l'attuale Governo possa fare per migliorarlo, e considerando il tasso di
interesse “i” fissato dal mercato finanziario, l'unico modo per ridurre il
rapporto fra debito pubblico e PIL è incrementare n, cioè fare politiche che
alimentino la crescita economica, anche se tali politiche inducono,
inizialmente, maggior debito, perché consistenti in iniezioni di nuove risorse
a supporto della domanda aggregata, senza copertura.
Allora è chiaro che è del tutto
illusorio pensare di promuovere la ripresa con l'attuale direzione di politica
economica, impressa dal Governo attuale, e basata su piccole concessioni di
spesa a parità di saldo finale, cioè a bilancio invariato, sfruttando artifizi
contabili come la differenza fra competenza e cassa (nel caso ad esempio dei
rimborsi dei debiti della P.A. con le imprese) o somme già destinate al
cofinanziamento dei fondi strutturali europei, quindi già esistenti, sbloccate
grazie alla cessazione della procedura di infrazione per il superamento del
rapporto deficit/PIL del 3%, o ancora erogando con una mano per poi riprendere
con l'altra. Questi trucchi o hanno effetto neutro sull'economia, oppure, nel
migliore dei casi, costituiscono un pannicello caldo assolutamente
insufficiente.
Occorrono robuste iniezioni di
spesa a sostegno dei consumi e degli investimenti pubblici, prioritariamente
rispetto alle riduzioni di imposte, perché queste ultime esercitano effetti
anticiclici soltanto nell'anno fiscale successivo, ed occorre operare
trasferimenti finanziari a favore delle fasce più povere di popolazione, che
hanno una propensione marginale al consumo più alta, che quindi impatta
maggiormente sulla crescita del PIL tramite il noto meccanismo del
moltiplicatore del reddito. Gli investimenti pubblici vanno indirizzati verso
settori ad immediata potenzialità di creazione di occupazione (ad esempio
tramite un programma nazionale di lavori di messa in sicurezza del territorio
dal rischio idrogeologico, nel Mezzogiorno tramite un programma di creazione di
infrastrutture di “attraversamento interno”, che non siano cioè mirate al
collegamento con il Centro-Nord, già ampiamente assicurato, ma al collegamento
interno fra le varie aree del Mezzogiorno, privilegiando progetti che
colleghino fra loro aree produttive dotate di elevato livello di compatibilità
produttiva, che potrebbero quindi integrarsi come meta-filiere o meta-distretti,
un grande programma nazionale di potenziamento della produzione di energie
rinnovabili e di efficientamento energetico degli edifici, iniziando da quelli
pubblici, ecc.). L'investimento privato va riattivato sia facendolo
compartecipare ai programmi di investimento pubblico sopra evidenziati, laddove
siano generatori di entrate, però con modalità meno farraginose del project
financing all'italiana, sia autorizzando l'emissione di mini-bond a garanzia
pubblica su progetti di investimento strategico, che consentano alle imprese di
finanziarsi fuori dal mercato creditizio, che rimarrà bloccato per anni. Una
leva fondamentale per riattivare meccanismi di investimento pubblico può essere
la riforma della Cassa Depositi e Prestiti, per farne una sorta di omologo
della Kfw tedesca, in grado di raccogliere sul mercato liquidità tramite
l'emissione di bond garantiti dalla raccolta postale dell'istituto, o tramite i
prestiti della Bce a tasso quasi nullo (sfruttando la sua qualifica di
operatore bancario), per investirla in progetti strategici di sviluppo.
La leva fiscale va utilizzata
selettivamente, incentivando la destinazione degli utili a riserva per
incrementare il capitale proprio delle PMI, detassando non tanto le nuove
assunzioni alle dipendenze (come fatto da Governo-Letta, una vera e propria
stronzata priva di addizionalità) ma detassando i progetti di creazione di
nuova impresa giovanile, non nei primi cinque anni (perché in tali anni le
start-up sono generalmente in perdita) ma per i cinque primi esercizi in utile,
nonché le cooperative di lavoratori che intendono rilevare la propria azienda o
il proprio stabilimento dismessi dalla precedente proprietà, o che intendono
varare progetti di cooperativa sociale ad elevata rispondenza rispetto ai
fabbisogni sociali locali, creando zone speciali a burocrazia zero ed a
imposizione fiscale molto limitata in determinate aree industriali colpite da
processi di deindustrializzazione ma ancora dotate di fattori localizzativi
attrattivi, anche sfidando il rischio che la Commissione europea avvii nei
nostri confronti una procedura d'infrazione, ed imbarcandoci in un lungo
contenzioso giudiziario che dia il tempo per attrarre e consolidare nuove
attività produttive in dette aree, che poi difficilmente potrebbero essere
rimosse, anche dopo un esito sfavorevole del contenzioso (imprese da attrarre
non in modo generico, ma in settori di attività coerenti con le vocazioni di
sviluppo dell'area di insediamento). Un trattamento fiscale di favore andrebbe
poi riservato ad esperimenti cooperativistici mirati all'autoproduzione di beni
essenziali fra i soci, ed alla loro vendita sul mercato a prezzi “sociali”
(magari azzerando l'IVA per i beni “sociali” o a produzione sociale).
Il tutto ovviamente va realizzato
continuando a perseguire obiettivi di razionalizzazione della spesa corrente,
riducendo le sacche di spesa pubblica improduttiva che permangono, anche dopo
la robusta cura che ha portato in avanzo il bilancio primario, e rimesso sotto
controllo i principali driver di spesa. E non esclude, ma anzi rafforza, la
necessità di condurre severe politiche di contrasto all'evasione fiscale, al
fine di preservare, e nei limiti del possibile migliorare ancora leggermente
l'avanzo primario, che è precondizione fondamentale per una sana gestione delle
finanze pubbliche. Ed ovviamente richiede anche che gli interventi di spesa
pubblica di tipo anticiclico, sopra descritti, rientrino nelle fasi di crescita
economica, in modo da consentire una riduzione del debito nelle fasi del ciclo
positive e non, come pazzescamente avviene oggi, un aggiustamento in una fase
recessiva. In sostanza, una vera politica di stop and go.
Nel breve periodo, nelle fasi di
“go” della spesa pubblica, ovviamente, il debito pubblico aumenterà, ma nel
medio periodo tale aumento sarà compensato dall'effetto della crescita
economica. Certo, ci sarà chi dirà che questa idea è impossibile, perché i
mercati finanziari non accetteranno, nel breve periodo, un ulteriore incremento
del debito. La mia tesi è che i mercati vadano sfidati. L'Italia non è la
Grecia, o Cipro. Se l'Italia fallisce, gli effetti sistemici sui mercati
finanziari globali saranno molto, molto dolorosi. Dolorosi per i mercati. Se i
mercati vorranno realmente far affondare definitivamente il Paese, ciò si ripercuoterà
in enormi perdite patrimoniali di banche e fondi di investimento che hanno in
pancia i titoli del nostro debito pubblico, che a quel punto saranno
irrimborsabili. Fintanto che rimarremo dentro il bozzolo della paura nei
confronti delle divinità dell'Olimpo finanziario globale, rimarremo sottomessi
a prendere un sacco di botte. Un po' come quel bambino che, per paura di essere
picchiato dai compagni di classe, resta in casa anziché scendere in strada a
giocare, ovviamente rischiando qualcosa. Poi il rischio potrebbe essere ridotto
irrobustendo le comunità locali, costruendo meccanismi di autoproduzione ed
autoconsumo e mutualismo locale, che possano fungere da ammortizzatori, sul
territorio, di eventuali scossoni macroeconomici inflitti da mercati infuriati
dalla “ribelle Italia”.
Si dirà che una simile politica
riattizza l'inflazione, facendoci perdere competitività di prezzo. Ma è uno
scherzo di cattivo gusto. L'indice orario delle retribuzioni contrattuali
cresce di 4 punti fra 2010 e giugno 2013, ma nel medesimo periodo l'inflazione
è cresciuta di 7,3 punti, traducendosi in una deflazione reale del 3% in tre
anni e mezzo. Il salario medio italiano, espresso in parità di potere di
acquisto, quindi in termini che incorporano le differenze nei livelli dei
prezzi, e che quindi può esprimere le differenze di potere di acquisto reale, è
pari all'88% del salario del francese, all'83% di quello del tedesco, al 75% di
quello del britannico, all'89% di quello dello svedese, ed è persino inferiore
a quello dello spagnolo (essendo pari al 97%). In pratica, in ambito europeo,
il tenore di vita di un lavoratore italiano medio è migliore solo rispetto al
greco, al portoghese, al polacco o all'ungherese. Abbiamo quindi già livelli di
competitività di costo ampiamente al di sopra di quelli dei nostri principali
concorrenti. Nonostante ciò, siamo in recessione. Il problema competitivo
itlaiano è infatti quello della produttività, non del costo dei fattori. Ma
sulla produttività l'inflazione non incide, poiché la produttività dipende da
altri fattori (capitale umano, innovazione, efficienza della PA, sistema
educativo, livelli di legalità nel sistema economico, ecc.). Un po' di
inflazione in più, quindi, non incide sulla nostra competitività.
Poi si dirà che una politica
keynesiana in un Paese dell'euro è irresponsabile, perché significa mettere a
repentaglio l'intera area-euro. Ragionamento idiota: è proprio l'austerità
cieca che sta mettendo a repentaglio l'euro e l'intero edificio europeo. Questa
politica ha infatti messo i Paesi periferici ed iper indebitati in una spirale
di bassa crescita potenziale e debito in ulteriore aumento. Ed ha messo i Paesi
centrali dell'area germanica e nordica in condizioni di perdere alcuni sbocchi
di mercato importanti, ed al contempo di ritrovarsi dentro quella che io chiamo
la “trappola dell'eurocinismo”: rimanere dentro l'euro, pagando costi
progressivamente sempre più alti, tramite i meccanismi di aiuto come l'ESM, per
impedire che i PIIGS, sempre più allo sbando, escano dalla moneta unica, oppure
uscire unilateralmente, ritrovandosi alle proprie frontiere Paesi
euromediterranei con la competitività di costo di Taiwan, e con la possibilità
di svalutare? I cittadini tedeschi dovrebbero riflettere sulla trappola in cui
la loro cara Merkel li ha messi. La festa sta per finire. Dopo aver scaricato
la crisi sui paesi periferici per anni, questa si sta affacciando anche in
Germania.
In questa fase, occorre osare.
Osare non per puerili ritorni al sovranismo monetario, ma osare per avere l'Europa
che meritiamo. Osare, morire o scappare, magari rispolverando la valigia di
cartone dell'emigrante.
Non condivido l'impressione che dai della virtuosita' del debito senza sottolineare con forza che il debito sia privato che pubblico e' virtuoso solo se e' produttivo. Ne fai un accenno in fine di paragrafo ma lo rafforzerà sistematicamente. Inoltre escludi in toto ls questione di una patrimoniale, purtroppo nessuno più ne parla e vedo che anche tu ti sei accodato. Infine delle proposte, tutte condivisibili che fai per uscire dalla recessione non indichi nessuno intervento finalizzato a combattere la nostra vera carenza, che per la verità indichi, ovvero la nostra bassa produttività lo scarso valore aggiunto della nostra produzione e lo scarso contenuto tecnologico della gamma dei prodotti che produciamo.
RispondiEliminaA dire il vero è ovvio, da quanto ho scritto, che il debito che prendo in considerazione come elemento fondamentale del capitalismo è quello che alimenta i processi di accumulazione, non quello che deriva da fenomeni corruttivi/consociativi, ecc. Quindi non comprendo la critica.
RispondiEliminaPer quanto riguarda la patrimoniale, occorre capire come essa venga configurata. Se è una imposizione fortemente progressiva sugli immobili, sono d'accordo. Se è un prelievo sui patrimoni mobiliari (liquidità messa a risparmio, portafoglio titoli)oltre una certa soglia, il rischio è semplicemente quello di creare una sfiducia permanente nei confronti delle banche, che avrebbe effetti devastanti sulla loro capacità di raccolta e di patrimonializzazione, oppure di deprimere i mercati mobiliari, a tutto svantaggio delle imprese produttive che si finanziano su tali mercati, o infine di favorire la fuga dei capitali all'estero. Si può quindi immaginare una IMU progressiva, che colpisca in modo potenziato seconde case ed immobili di lusso, salvaguardando le prime case non di lusso, ma l'effetto sul gettito fiscale, ed anche quello redistributivo, se ci sono, sono minimi. Possiamo incrementare l'imposizione sui beni di lusso (barche, aerei,..) ma anche in questo caso l'impatto sul gettito fiscale non è rilevante. Tutto il resto rischia di avere effetti negativi sulla competitività, ed aggravare la condizione di carenza di capitali e liquidità che affligge l'economia in questo momento.
Quanto agli interventi per rilanciare la produttività, l'articolo ne indica diversi, tutti ricompresi nell'uso selettivo della leva fiscale, che deve favorire la capitalizzazione e la messa in rete delle PMI, gli investimenti in R&S e qualità, in formazione, ecc. Quindi, anche in questo caso non comprendo il senso della critica.