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sabato 2 novembre 2013

LOST IN LAW di Norberto Fragiacomo




LOST IN LAW
I comuni alla deriva nell’Italia senza legge (né speranze di resurrezione)
di
Norberto Fragiacomo




Giorni grami per i comuni, piccoli, grandi o medi che siano – per i loro amministratori, minacciati di pene draconiane (fino a 20 mensilità di multa se non spediscono un prospetto in tempo!), ma soprattutto per gli amministrati, cui qualche zuzzurellone (D. Lgs. 267/2000, art. 3) aveva fatto intendere che l’ente locale “rappresenta(sse) la propria comunità, ne cura(sse) gli interessi e ne promuove(sse) lo sviluppo.” Favole, nell’era della crisi indotta e del Fiscal Compact: la realtà è tutt’altra cosa, ed è devastante.
Non sprecherò tempo a parlare dei tagli insostenibili, che nella neolingua dei mercanti vengono definiti “razionalizzazioni”, né della rarefazione del personale, composto da funzionari spesso encomiabili e sempre bistrattati (Brunettino docet): vorrei regalare qualche parola ai responsabili degli uffici e a chi è incaricato dei controlli esterni.
Il Patto di Stabilità lo conosciamo tutti: è una creatura concepita nei laboratori UE (Amsterdam ’97) che, non appena messo piede in Italia, si è rivelata un multiforme proteo – nel senso che cambiava aspetto ogni anno. Inizialmente previsto per i soli comuni di rilevanti dimensioni, è stato poi esteso alle province e infine – dalle norme figliastre della crisi – alle più minuscole fra le comunità. L’obiettivo da raggiungere mutava di anno in anno: dal 2008 è un astruso “saldo di competenza mista”, calcolato sulla base dei risultati  di bilancio ottenuti nel triennio precedente, di cui va fatta la media. Senza scendere nei tecnicismi, osserviamo che il decreto 112/2008 consentiva ai comuni “virtuosi”, che nell’ultimo esercizio avessero rispettato il patto e presentassero un attivo di gestione, di peggiorare lievemente il saldo precedente; oggi questo non è più possibile, e il premio per chi ha fatto il bravo è uno zero (cioè la differenza tra entrate e spese deve restare uguale).
Sembrano abracadabra, ma i risvolti sono tangibilissimi: il saldo entrate-spese prescinde totalmente dalle possibilità finanziarie del comune, per cui può capitare che un ente, pur avendo soldi in cassa, non sia autorizzato a spenderli. Poniamo il caso che il comune di Monrupino riceva, a tardo autunno, una cospicua eredità, che gli permetterebbe di risistemare una strada: un’immediata iscrizione a bilancio della somma si rivelerebbe un azzardo, perché, andando ad incrementare le entrate, e quindi migliorando il saldo per l’esercizio in corso, metterebbe una pesante ipoteca sull’anno successivo, nel quale – pur in assenza di altre regalie inattese – le risorse andrebbero spese. Insomma, più soldi entrano nelle casse comunali, peggio è.
Questo non è tutto: in sovrano dispregio degli esiti del referendum di giugno 2011, l’italico legislatore (se così vogliamo definire il portaordini di UE e Fondo Monetario) ha individuato, tra gli indici di “virtuosità” degli enti locali, la scelta di affidare i servizi pubblici ai privati anziché gestirli autonomamente. Per quale motivo, in base a quale logica giuridica? Perché privato è bello, ovviamente, e perché le lobby che governano l’Europa mercantile pretendono questo. Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare.
Avevo promesso, però, di parlare di manager non propriamente milionari, e cercherò di rispettare la parola data. Uno degli ultimi doni avvelenati del Governo Monti – di gran lunga il peggiore della storia italiana – è stato il decreto legge 174, convertito in legge 213/2012.
Cosa prevede l’ennesimo ammazza-Italia? Tra l’altro, che il responsabile del servizio finanziario del comune debba mettere un sacco di firme in più, garantendo equilibri economici, controlli efficienti e bontà delle gestioni pregresse: se non spedisce in fretta la sua brava “relazione di fine mandato” a un misterioso tavolo tecnico ministeriale si vede sottrarre, per tre mesi, mezza retribuzione. E se al sindaco non vanno giù funzionari troppo zelanti? Nessun problema: può rimuoverlo – quindi il povero direttore resta in braghe de tela comunque.

Non che il segretario comunale se la passi meglio. Dopo aver zigzagato per un decennio tra il ministero degli interni e un’agenzia autonoma fatta fuori da Tremonti (con il decreto 78/2010, lo stesso che ha rubato ai dipendenti pubblici il rinnovo dei contratti collettivi), il vecchio garante della legittimità amministrativa nei comuni si è scoperto collezionista di cariche: responsabile della trasparenza e dell’integrità (sic), sostituto dei funzionari oziosi; da ultimo, incaricato della lotta alla corruzione nell’ente locale. Come si combatte la corruzione, per l’ingegnoso estensore della legge 190/2012? Ma facendo ruotare i responsabili degli uffici, è ovvio… magari all’interno di amministrazioni in cui la stipula dei contratti è sempre stata appannaggio di un unico funzionario. Niente paura, c’è la formazione… peccato però che il solito decreto 78 abbia decurtato i fondi del 50%.
E il nostro segretario? Se ne andrà in chiesa a pregare, immagino, perché, a quanto pare, ove nel suo comune venissero commessi reati corruttivi, anch’egli dovrebbe risponderne, a titolo di concorso, dinanzi al giudice penale. Una corruzione senza dolo? Niente di strano: nell’Europa dell’approccio “sostanzialistico” al diritto, principi giuridici bimillenari hanno perso qualsiasi valore, e poi – in fondo – un piccolo funzionario di paese è il capro espiatorio ideale.
Mica solo colpa dei barbari d’oltrefrontiera, comunque: un Paese che, dimenticata troppo in fretta la saggezza di De Andrè, innalza Brunetta al rango di ministro e lo applaude per aver scritto una norma che condanna alla galera più multa più licenziamento più risarcimento all’ente per danno patrimoniale e all’immagine un funzionario che, senza timbrare, si assenta dall’ufficio dieci minuti per bere un caffè (non esagero: perché scatti la sanzione basta un comportamento episodico!) merita questo ed altro.
E i controlli? Beh, in cauda venenum. La Corte dei Conti, come ben sa il lettore, è un organo di rilievo costituzionale e, nello specifico, un ibrido tra magistratura ed organo di controllo. A fine anni ’90 nascono le sezioni regionali: loro compito è esercitare, per l’appunto, il controllo esterno sulle gestioni degli enti locali, previsto dalla legge 20 del 1994.
L’entrata in vigore, nel 2001, del rinnovato Titolo V della Costituzione – che pone sullo stesso piano Stato centrale e autonomie – non stravolge il ruolo della Corte, ma in qualche maniera lo addolcisce: la legge La Loggia del 2003 introduce meccanismi di valutazione che, seppur finalizzati alla verifica del rispetto del famigerato patto di Stabilità, vengono definiti “collaborativi”. Lo sono, in effetti: unico destinatario del rapporto della sezione è il consiglio dell’ente locale, cui sono affidati compiti di (auto)correzione.
Già nel 2005 cambia qualcosa: la legge 266 impone una nuova tipologia di controllo, avente ad oggetto i documenti contabili, col coinvolgimento diretto dei revisori dell’ente. Ancora, però, di sanzioni non si parla… fino al 2011. Da allora i decreti si susseguono, e ciascuno di essi porta con sé nuovi poteri per la Corte (di cui aumentano le competenze, non certo le dotazioni di personale) e nuove minacce per gli enti.
Il controllo su bilanci e rendiconti cambia pelle: la collaborazione è terminata, adesso il controllore dà ordini – e se il controllato non li esegue entro sessanta giorni, la sua capacità di spesa è bloccata ipso iure.
Il legislatore, però, non si accontenta: moltiplica i controlli interni agli enti, dopo averne tagliato gli organici, e impone al sindaco di inviare alla Corte, ogni sei mesi, un referto su regolarità e legittimità della gestione, nonché sul corretto funzionamento dei controlli interni citati. Che ne farà la sezione? Beh, ipotizzo che proverà a coordinare le due tipologie di verifiche, anche per evitare di disperdere le già poche risorse; il comune, intanto, dovrà vedersela anche con la Ragioneria dello Stato, i cui funzionari piomberanno negli uffici per svolgere ulteriori accertamenti.
Un’orgia giuridica, che potrebbe paralizzare l’attività di enti già in difficoltà finanziarie. A mio modestissimo avviso, l’esito delle “riforme” sarà proprio questo, oltre ad un aumento della diffidenza tra soggetti che, in fondo, sarebbe opportuno collaborassero nell’interesse delle comunità amministrate.
Quanto ai funzionari (responsabili del servizio finanziario e segretari), non li invidio davvero: impossibilitati a destreggiarsi tra l’incudine della cattiva legge e il martello di politici locali frustrati, si ritaglieranno inevitabilmente il ruolo poco ambito di parafulmine.
Testi scritti, Costituzione, ragionevolezza: nulla viene più rispettato, figuriamoci i diritti della piccola gente, che non può telefonare alla Cancellieri, né scatenare la servitù contro una legge dello Stato.

Non so quanto manchi alla fine, ma arriverà presto, per l’Italia. 



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