AMAZON, “WORK HARD” PRIMA DI TUTTO. INTERVISTA AD UN
LAVORATORE DI AMAZON ITALIA
di Anna Lami
MXP5 è il nome del secondo magazzino Amazon nei pressi di
Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza. Oltre 60 mila metri quadri,
aperto l’estate scorsa ed ancora in fase di completamento, è destinato ad ospitare
oltre 1000 lavoratori entro i prossimi due anni. Il primo, MXP1, aveva aperto
nel 2011, sempre nella stessa zona, inaugurando l’attività di Amazon in Italia.
Il libro inchiesta di Jean Baptiste Malet, “En Amazonie. Un
infiltrato nel migliore dei mondi” ha portato allo scoperto la realtà
lavorativa di decine di migliaia di dipendenti Amazon in tutto il mondo. “Work
have, have fun, make history” è il motto che il multimiliardario fondatore di
Amazon Jeff Bezos ha ideato per la sua azienda. Anche se a sentire le storie di
chi ci lavora, sembra che l’essenziale sia soprattutto il “work hard”. Sulle
problematiche inerenti la condizione dei lavoratori di Castel San Giovanni,
abbiamo parlato con uno di loro.
Esponenti locali di
Cgil e Cisl hanno recentemente lamentato che la dirigenza italiana di Amazon ha
ignorato le loro richieste di incontro. Hanno, inoltre, denunciato il caso di
un lavoratore a tempo determinato a cui non è stato rinnovato il contratto dopo essersi iscritto al sindacato. Cosa ne
pensi?
“Secondo me è molto difficile per i sindacati penetrare in
Amazon, a parte l’atteggiamento della dirigenza.
Ci sono diversi dati
importanti. I lavoratori sono per la maggior parte molto giovani, tra i venti
ed i trent’anni, e hanno una sfiducia diffusa nei sindacalisti. Non credono affatto
che i sindacati possano cambiare in meglio la loro vita. Hanno proprio acquisito
una mentalità, portata anche dalla tipologia contrattuale ultraprecaria, che
non favorisce la sindacalizzazione. Molti sono alla prima o seconda esperienza
lavorativa, per la stragrande maggioranza hanno contratti di pochi giorni, i
più fortunati al massimo di un mese, che fanno in modo che il lavoratore sia
sempre preoccupato dal rimanere a casa.
Pensavo
che i giovani precari fossero più “incazzati” dell’operaio tradizionale,
invece, almeno in Amazon, ho visto che accettano quasi tutti di buon grado di
lavorare a queste condizioni, nemmeno si lamentano, le trovano normali. I
giovani hanno grande capacità di adattamento, si sentono realisti e comprensivi
verso gli obiettivi dell’azienda. E’ il loro modo di reagire alla crisi, in
assenza di prospettive diverse. Sono, insomma, molto vulnerabili a quella che
io chiamo l’”ideologia Amazon”.
Per
quanto riguarda il personale a tempo indeterminato, mi dà invece l’impressione
di essere molto selezionato, infatti dopo lunghi periodi di osservazione
possono conoscere bene che persona sei, anche perché il metodo usato da Amazon
è abbastanza invasivo anche nei confronti della vita privata. Non si può dire, ecco, che Amazon faccia
questa grande fatica per reprimere l’attività sindacale.
Eppure Amazon
pretende moltissimo dai suoi dipendenti.
Amazon ripeto ha un personale complessivamente giovane (almeno
per quanto riguarda la manodopera in magazzino) e questo è un dato importante.
Generalmente
viene preferito il personale giovane perché i ritmi richiesti sono veramente
pesantissimi, lo dico io che ho una lunga esperienza di lavoro operaio alle
spalle. I ritmi richiesti sono davvero ai limiti della possibilità di
sopportazione fisica e sono costantemente controllati. Sanno sempre se stai
andando bene o male, e spesso, soprattutto negli orari topici, quando partono
le spedizioni, te lo ricordano incitandoti ad aumentare il ritmo o dicendoti
che devi fare meglio.
L’ultima settimana di novembre ed a dicembre in magazzino
si lavorava tutti 9 ore e mezza, sei giorni a settimana. Dalle 4,30 alle 14 chi
faceva il mattino e dalle 14,30 alle 24 per il turno pomeridiano. Difficilmente
lavoratori avanti con gli anni riescono ad adattarsi. Mi è capitato di vedere
cinquantenni assunti solo per il picco di Natale, molto preoccupati per il loro
futuro, che i primi giorni si impegnavano moltissimo per provare a tenere i
ritmi. Poi vedevo le loro facce di persone sconsolate, quando si rendevano
conto che non avrebbero potuto ottenere i risultati richiesti da Amazon. Io, ad
esempio, lavoro nel packing, dove ci vengono dati obiettivi crescenti. La prima
settimana di assunzione ti vengono richiesti 35 pezzi all’ora, poi sempre di
più fino ad arrivare anche a 70. Alcuni prodotti, come stampanti, televisori,
grandi elettrodomestici, pesano particolarmente. Immagina tu movimentarli in
velocità per 9 ore e mezza al giorno: tutto il corpo ne risente. I giovani non
se ne rendono conto ma se continueranno a lavorare lì per lungo tempo, tra
dieci anni voglio vedere quante malattie professionali ci saranno.
Hai parlato di
“ideologia Amazon”. Che cosa intendi?
La cosa per me nuova rispetto alle mie esperienze lavorative
precedenti, è che in Amazon usano un approccio volto a catturare anche il tuo
consenso. In questo senso parlo di ideologia, perché l’obiettivo è quello di
farti sentire “uno di Amazon”. Provano a renderla un’esperienza il più
possibile totalizzante. Vorrebbero che ti sentissi orgoglioso di far parte di
Amazon. Non solo durante “il lavoro”.
Questo è quello che cercano di fare, poi
quanto ci riescano è un discorso diverso. Ma a me sembra che con i giovani ci
riescano a sufficienza.
In Amazon cercano di darti il senso dell’appartenenza.
Nei briefing ripetono sempre che è un’azienda in espansione, in Italia sono
riusciti a fare il 100% in più di volumi rispetto all’anno precedente, danno
lavoro. Poi ti iniziano a dire che Amazon fa moltissima beneficienza sul
territorio. Ad esempio destinano prodotti come giochi non più vendibili sul
mercato, magari con piccoli difetti, ai bambini di alcune parrocchie. Inoltre si
inventano momenti come “il lasagna day”, il “pasta gratinata day”, che
significa che quel giorno gratuitamente nella pausa Amazon ti offre quel
particolare piatto. E organizzano attività ricreative: una volta la gita a
Gardaland, un’altra organizzano la lotteria con 100 euro di premio da spendere
su Amazon, oppure affittano un locale per fare la festa che celebra i record
produttivi raggiunti durante il picco.
Inoltre in pausa hai la televisione, il biliardino, computer a
disposizione per vedere internet, il ping pong. Queste cose vengono apprezzate
da molti lavoratori, che la considerano un’azienda che si preoccupa dei
dipendenti. Anche se a me sembra solo bieco paternalismo.
Ci trattano come
bambini: se hai dimenticato, per esempio, il tuo badge (verde per i precari,
azzurro per gli assunti a tempo indeterminato), girerai tutto il giorno con un
badge sostitutivo al collo con scritto “ho dimenticato il mio badge”. Ti
massacrano di lavoro, ti pagano con la paga base del contratto del commercio,
impongono straordinari obbligatori ma magari ti danno la pasta un giorno a
settimana. Io preferirei avere maggiori diritti anziché le lasagne gratis…ma
tant’è. L’importante è che tu aderisca alla loro “ideologia”, curata anche nei
briefing quotidiani.
In cosa consistono
questi briefing?
Ogni giorno bisogna andare mezz’ora prima a lavoro,
gratuitamente, per partecipare al briefing, che dura circa 10 minuti. Nel
briefing veniamo disposti a semicerchio ed i leader, quelli che poi sarebbero i
capiturno, hanno il compito di ribadire gli standard work di Amazon e fare
raccomandazioni sulla sicurezza.
Cosa interessante è il racconto della success
story del giorno prima. Può essere la storia di uno che ha battuto l’ennesimo record
di produzione, o di un comparto che ha lavorato particolarmente bene. Cercano
di coinvolgerci facendoci i complimenti, motivandoci al gioco di squadra,
raccontandoci aneddoti avvincenti. Fanno discorsi assurdi, dicono che loro ci
mettono in campo ma la squadra vincente siamo noi. Poi ci ricordano spesso che Amazon è in
espansione in un mondo del lavoro che non assume, e che se lavoriamo bene sarà
un vantaggio anche per noi. Noi “facciamo la nostra success story componendo la
success story di Amazon”. E applauso finale, anche da parte di gente che da li
a due giorni verrà lasciata a casa.
Diverse inchieste
nelle filiali europee di Amazon hanno denunciato un clima collettivo altamente
stressante.
Il clima che ho trovato in Amazon, ma questo forse è dovuto
alla visione delle cose che ho acquisito lavorando in altri luoghi, è davvero negativo.
Si respira un’aria pesante.
Nessuno, soprattutto i pochi fissi che ci sono,
parla male di Amazon. Al massimo fanno delle facce o delle espressioni strane,
ma c’è un clima di timore a dire effettivamente male dell’azienda, regna
l’omertà. Un po’ anche perché moltissimi colleghi non li conosci, essendoci una
forte precarietà e conseguente turn-over non sai mai con chi hai a che fare.
Eppure ci sono moltissime cose di cui lamentarsi.
Il magazzino è immenso, per
esempio il luogo in cui ti trovi quando inizia la pausa può essere molto
distante dalla sala pausa. La pausa è di mezzora, per raggiungere la sala-pausa
ci puoi mettere anche sei o sette minuti, che significa che alla fine la tua
pausa pranzo reale sarà di quindici minuti, venti scarsi. Senza dimenticare il
fatto che da un giorno all’altro ti possono cambiare l’orario di lavoro ed è
una cosa che avviene abbastanza frequentemente. Magari il leader ti chiama alle
16 del venerdì per avvisarti che sabato hai lo straordinario obbligatorio e che
inizi il turno alle 4,30. È dato per scontato che comunque l’azienda viene
prima di tutto e che non puoi programmarti la vita se non di ora in ora. A me
pare che il clima diventi più pesante man mano che lavori lì perché cercano di
coinvolgerti nella vita di Amazon.
Alcuni leader dopo il lavoro magari ti
invitano in birreria. Ma come può instaurarsi un rapporto amichevole con
persone che hanno potere di darti un “feedback negativo” (per usare il
linguaggio Amazon) e quindi di non riconfermarti a lavoro?
Si vive in costante
tensione relazionale anche tra colleghi, perché hai sempre paura di essere
messo in cattiva luce, alla fine non ti fidi quasi di nessuno.
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