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sabato 4 gennaio 2014

RIFLESSIONI A TEMA LIBERO di Norberto Fragiacomo



RIFLESSIONI A TEMA LIBERO
di
Norberto Fragiacomo
 
 
Digerite le letterine di Capodanno, e l’imperiosa richiesta di critiche “rispettose” (da autorizzare?), riprendiamo a fantasticare sulla sinistra del futuro – non anteriore, si spera.
Le tematiche da affrontare paiono davvero infinite, anche perché uno dei difetti della variopinta sinistra italiana è quello di moltiplicare gli enti senza necessità, usando parole diverse per identificare concetti affini, se non proprio analoghi. Un esempio è proprio il termine “sinistra”, che taluni accettano ancora, altri respingono con sdegno, come formula superata dai tempi e dall’evoluzione economico-politica. Certo, “sinistra” è una parola ambigua, logora ed abusata, ma il problema è che sostituirle termini come “socialismo” o “comunismo” produce nuove questioni: la scelta dell’una o dell’altro “ismo” scontenta i partigiani di quello scartato, dimentichi – tutti quanti – che i due nomi erano adoperati da Marx come sinonimi. “Anticapitalismo”, allora? Sembrerebbe la soluzione più corretta, anche perché oggi lo spartiacque è (o dovrebbe essere) tra chi difende il sistema esistente - che trae la sua linfa dallo sfruttamento della forza lavoro - e chi, giustamente, lo bolla come dannoso e non riformabile. Purtroppo, anche questa definizione in negativo appare sdrucciolevole, dal momento che di anticapitalisti ne troviamo un buon numero anche su quella che, una volta, era universalmente considerata la riva “destra” – gente, quest’ultima, che punta non all’affrancamento delle masse lavoratrici, bensì alla resurrezione in armi dello stato-nazione.

Come fare a non incartarci? Chiarendo – e anzitutto chiarendoci – che è nostra aspirazione edificare una società compiutamente socialista, che superi e soppianti il modo di produzione liberalcapitalista. “Sinistra anticapitalista” potrebbe andar bene, non fosse già il nome di un movimento politico; in ogni caso, se due o più persone, dialogando, scoprono di condividere una certa idea, i vezzi terminologici – di solito – perdono importanza. Non fosse così, potremmo concordare solo con noi stessi (ed esclusivamente con i “noi stessi” di oggi, mica con quelli di dieci o vent’anni fa!).

Prima di tutto, dunque, occorre evitare incomprensioni tra noi; successivamente, provare a raggiungere le famigerate “masse” – disperse, “liquide”, poco ricettive e unite solo da un rifiuto rabbioso. Rifiuto di quasi tutto, ma in primo luogo di quell’idea social-comunista che, nei decenni, sono state addestrate ad aborrire come la peste e il diavolo messi insieme. Gulag, Stalin, dittatura, miseria, mancanza di libertà… queste sono le figurine che mentalmente l’italiano medio associa al vocabolo comunismo; il socialismo è invece impersonato, nell’immaginario nazionale, da Craxi e i quaranta ladroni. Di conseguenza, qualsiasi proposta proveniente dalla nostra parte è vista con sospetto, se non rigettata d’istinto per un “vizio d’origine” che rende superfluo l’esame del merito. Questa diffidenza indotta si riscontra non solamente nella penisola - dove le forze anticapitaliste hanno commesso, va riconosciuto, errori marchiani – ma persino in Paesi in cui, apparentemente, la sinistra c.d. estrema (cioè quella non contraffatta) gode di ottima salute: mi riferisco alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia ecc. Syriza, Izquierda Unida e movimenti simili infatti crescono (almeno nei sondaggi), ma sono ancora lontanissimi dal raccogliere il voto compatto di quei ceti o classi cui la crisi sta togliendo tutto. Malgrado l’evidenza dei fatti, che provano la brutale essenza del regime capitalista, milioni di vittime seguitano fatalisticamente a sperare che tutto possa risolversi e, in fin dei conti, mostrano di temere maggiormente il salto nel buio di un cambio radicale che la prospettiva certa di un progressivo immiserimento. Molti imboccano la scorciatoia del ribellismo che, attizzato da rozze parole d’ordine e volgari invettive, riempie le strade ma non genera soluzioni e, alla lunga, potrebbe favorire un giro di vite nient’affatto sgradito alle autorità: in Spagna l’esecutivo franchista di Rajoy sta usando la legge e il manganello per indebolire una protesta comunque meno episodica e più consapevole di quella italiana. Quanto detto – e la sottolineatura del rischio jacquerie – non vuole costituire un alibi per la sinistra anticapitalista nostrana, incapace assai più delle consorelle europee di accreditarsi come forza politica affidabile. Paghiamo l’estrema frammentazione, il linguaggio sovente preistorico, alleanze perdenti, patetiche faide intestine ed una sconsolante fossilizzazione dell’analisi che individua il principale nemico, o addirittura il “fascista”, in movimenti compositi ma battaglieri come i 5 Stelle.

Che fare dunque? Unirci intorno ad un programma, o perlomeno in vista di una battaglia, quella delle elezioni europee di primavera. Il fine non è elettoralistico, il risultato delle urne conta marginalmente; molto più importante, direi indispensabile, è sfruttare quel minimo di visibilità offertoci dalla campagna elettorale per far passare il nostro messaggio sulla crisi e – soprattutto – sull’Europa.

Ma quale deve essere il contenuto del nostro messaggio e, soprattutto, come va articolato? L’obiettivo resta un’Europa unita e socialista, cioè un’Europa sensibile alle esigenze dei lavoratori e governata da loro, anziché dalle strapotenti lobby economico-finanziarie. Per costruire un’Europa siffatta non basta apportare modifiche più o meno incisive alle istituzioni esistenti, non è sufficiente attribuire questo o quel potere in più al Parlamento (anche se misure in tal senso andrebbero magari appoggiate, nell’immediato): una borsa non può essere riadattata a casa del popolo, dal momento che è stata progettata per assolvere una funzione specifica. Nella migliore delle ipotesi (quella della buona fede), chi parla di “riforma” mostra di non comprendere la vastità del problema: l’Europa va rivoluzionata, trasformata in qualcosa d’altro, dotata di strutture integralmente nuove. La stessa questione dell’euro è un falso problema: la moneta unica è solo uno degli aspetti del progetto lobbistico, che verrebbe scalfito, ma non neutralizzato da un ritorno alle divise nazionali. Tra l’altro, l’invocazione della sovranità è un assurdo: in un mondo governato dai c.d. mercati (cioè dal Capitale transnazionale) mai verrebbe concesso ad uno stato economicamente appetibile e non autosufficiente, quale è l’Italia, di fare di testa sua. Peraltro, anche nell’irrealistica ipotesi di un via libera, i vantaggi derivanti dal distacco dalla UE (aumento delle esportazioni) sarebbero surclassati dagli svantaggi (per la classe lavoratrice), anche in virtù del fatto che gli investitori stranieri pretenderebbero il pagamento del debito in valuta forte (e un suo eventuale consolidamento porterebbe a sanzioni economiche o aggressioni militari). Al limite potrebbe avere un senso un’alleanza mediterranea, ma esclusivamente come soluzione di emergenza, in difetto di alternative praticabili. L’opzione preferibile resta l’autonomia continentale dall’universo capitalista – arrivarci per via elettorale è comunque impossibile, visto che le regole del gioco sono truccate, e le forze politiche fedeli al credo liberista (destre e false sinistre) ovunque solidamente in sella.

Abbiamo dunque imboccato un vicolo cieco, visto che la situazione – eternamente descritta dai sognatori come “prerivoluzionaria” - è di impasse: le masse, seppure incazzate, ondeggiano e si disperdono, la predicazione social-comunista viene accolta con ostilità o disinteresse, i movimenti che si autodefiniscono rivoluzionari battibeccano comicamente fra loro, ed attraggono meno pubblico di grotteschi capipopolo alla Calvani. Per l’accensione del falò rivoluzionario mancano scintilla e fiammifero: che fare, dunque? Il poco che è in nostro potere: provare a superare le divergenze in nome della comune avversione al capitalismo e affacciarci – e qui torniamo al punto di partenza – alla finestrella preelettorale con slogan semplici e comprensibili. La gente diffida del socialismo? Parliamo di uguaglianza, di sostegno ai ceti deboli, di tutela dei posti di lavoro, di sanità e scuole pubbliche – e raccontiamo la UE, raccontiamo di come essa favorisca e tuteli le spietate delocalizzazioni, distrugga risorse in nome del profitto, imponga - in combutta con il FMI - lo smantellamento degli stati sociali in ossequio all’ideologia dei Friedman, dei Laffer, dei Buchanan (cioè dei talebani dell’economia della diseguaglianza, sempre pronti a falsificare studi e statistiche pur di favorire l’interesse dell’elite). Si tratta di spiegare in parole semplici come funzionano le istituzioni europee, dominate da una Commissione che decide nell’ombra: lo sanno gli italiani che un parlamentare europeo non può presentare un progetto normativo, che tutto il potere sta nelle mani di tecnocrati non eletti e di governi accondiscendenti? L’Europa attuale, oligarchica e antidemocratica, persegue scopi distruttivi, di regresso sociale; d’altro canto, un rinchiudersi negli angusti confini nazionali rappresenterebbe, anziché la cura, un ciarlatanesco placebo. La terza via è un malagevole sentiero, che conduce ad una democrazia continentale, ispirata da quelle stesse costituzioni del dopoguerra che, per il loro potenziale “eversivo” (agli occhi del Capitale), sono punto di partenza irrinunciabile per un futuro decente. Sostituire concorrenza con solidarietà e partecipazione, direttive tecniche con norme d’iniziativa popolare, esigenze imprenditoriali con ampie garanzie comuni per i lavoratori, crescita dissennata con impiego socialmente orientato delle risorse disponibile (che la tecnologia ha moltiplicato all’inverosimile): questo chiederebbero i popoli sfiancati dalla crisi, se venisse permesso loro di formulare delle richieste, se avessero la percezione che qualcuno, lassù, è disposto ad ascoltarli. Unità nel rispetto delle differenze, in nome di una Storia plurisecolare, di cultura e necessità comuni. Soltanto una mobilitazione a livello continentale potrebbe occasionare un effettivo cambiamento di regime, prima ancora che di strategie. Ma per dare coscienza alle genti e ai ceti dell’uniformità dei bisogni occorrono un patto sovranazionale tra le forze anticapitaliste, coesione, coraggio e capacità di esprimersi in modo nuovo. Il rischio, certo, è quello di trasformare il pensiero in spot – ma, come un rivoluzionario autentico sapeva bene, per allettare i contadini (e, mutatis mutandis, le altre classi sociali) non sono sufficienti promesse di riscatto: serve l’offerta credibile di un pezzo di terra. Persuadere vaste porzioni delle masse popolari della necessità (giacché la stagione del “capitalismo dal volto umano” non si ripresenterà, per le mutate condizioni rispetto al trentennio seguito al dopoguerra), della fattibilità e della desiderabilità di una trasformazione complessiva del corpo sociale significa avviare la Rivoluzione, ricacciando al contempo nell’ombra i falsi profeti e i fomentatori di divisioni.

Non basta però che la lancia sia lunga: per fendere l’aria deve essere munita di una punta aguzza. Fuor di metafora, è indispensabile un’avanguardia che indichi – o perlomeno suggerisca - il percorso da seguire. Quest’elite oggi incontestabilmente manca, al di là della presenza, sulla scena, di validi pensatori isolati e di frammenti organizzati: farli incontrare, farli collaborareè assolutamente essenziale. Il messaggio ha da essere chiaro e privo di contraddizioni, altrimenti non raggiungerà i destinatari. Fondamentali sono concordia e unità di intenti; la debolezza iniziale dell’organizzazione non è un handicap grave, perché essa potrà crescere e maturare nel corso della lotta. Per crescere, tuttavia, deve esistere già, almeno in nuce.

Primissima conclusione: per competere tocca essere uniti e coesi; il settarismo, più che alla disfatta (che implica, se non altro, una battaglia), conduce dritto all’invisibilità, alle chiacchiere autoreferenziali, all’immancabile oblio.
 


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