GLI ZINGARI E TOTA
di Sara Palmieri
Gli
zingari sono accampati sotto i balconi del nostro appartamento che dà sul
fiume.
Più
che un fiume un torrente, in secca d’estate e impetuoso d’inverno senza che
però sia mai straripato.
Gli
zingari vivono là, tra i nostri balconi e il torrente “Cantagalli”.
Noi,
mia sorella ed io, siamo bambine, ma non abbiamo paura di loro anche perché i
miei genitori non ce ne hanno mai incusso.
Non
hanno mai detto e non dicono mai: “Se non fai la brava, non mangi, non
dormi, non ubbidisci chiamo gli zingari o vengono gli zingari a prenderti!”
Le
famiglie del rione e gli zingari vivono in pace. In quei primi anni Sessanta
sono tutti più gentili, solidali e tolleranti di oggi. Forse perché sono usciti
dalla povertà e dalla miseria da poco e non considerano “povertà” e “miseria”
dei difetti, ma condizioni quasi sempre incolpevoli.
Quando
penso a quegli anni la parola che mi sovviene, aldilà dei tumulti che
seguiranno, è armonia.
Si
sa che ogni tanto passano a chiedere roba da mangiare, così mia mamma ha sempre
da parte una sporta con beni di prima necessità: farina, zucchero, pasta,
caffè, caramelle per i bambini.
Si
sa anche che rubacchiano: gli piacciono i ferri vecchi dell’officina di mio
padre, qualche panno steso ad asciugare, qualcosa che perdiamo per strada e
forse non ritroveremo. Ma per nessuno è un grave problema. Basta stare più
attenti.
A
me piace osservarli dalla finestra. Hanno vestiti dai colori sgargianti e
foulard in testa. Vivono in tenda, cuociono all’aperto e hanno sempre sul fuoco
pentoloni di acqua che bolle. Non sono rumorosi e neppure tanto sporchi. I
bambini vanno a scuola, non tutti, ma qualcuno ci va.
Mi
incuriosiscono e perfino li invidio un po’. Mi sembrano così liberi.
Ci
sono ragazze adolescenti. Tra loro c’è Tota, ha sedici anni e una pelle
d’ambra. E’ bella, ma ha un modo di fare selvatico e diffidente. Ogni tanto è
lei che si presenta a casa per chiederci da mangiare. Qualche volta ha pranzato
con noi. Mia mamma e Tota sono entrate un po’ in confidenza. Mia mamma è
un’insegnante, siamo tre figli, mio padre è sempre in officina. Avrebbe bisogno
di una mano in casa e così la chiede a Tota. Si accordano sui giorni e sulla
cifra che le darà. Tota comincia a lavorare da noi; me la ricordo alla vasca
che abbiamo in cucina a strofinare i panni con i grossi pezzi di sapone fatto
in casa col grasso di maiale e la soda caustica. Non ricordo quanti giorni
durerà il suo lavoro a casa nostra, ma si mostra contenta anche se ha sempre
quello sguardo diffidente e quegli occhi di volpe.
Sembra
non fidarsi di noi, forse le sembriamo strani: persone ordinarie, con vite
ordinarie e ripetitive, schiave del quotidiano e di quelle gabbie che ci siamo
costruiti intorno e che chiamiamo doveri, prima ancora di rivendicare diritti.
Sul
frigorifero panciuto con pedale degli anni Sessanta, campeggia un carosello
di terracotta dove ogni tanto i miei genitori infilano degli spiccioli.
Tota
lo ha sicuramente notato perché un giorno scompaiono insieme. Tota e il carosello.
Oggi
mi chiedo se si sia mai pentita di quel gesto. Sicuramente non c’erano molti
soldi nel salvadanaio, non più di quelli che le avrebbe dato mia mamma per il
suo aiuto. Ma gli zingari sono così: gli piace essere liberi. E forse hanno
ragione. In fondo è così che siamo nati: liberi.
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