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lunedì 14 aprile 2014

12 APRILE: RIFLESSIONI "SCOMODE"


















13 aprile. Stendiamo un pietoso velo sul comportamento dei gruppi che ieri, vestiti di nero o di blu, han cercato lo scontro ad ogni costo in una Roma in Stato d'assedio. Lo distanza tra l'obbiettivo conclamato (attacco al Ministero del lavoro) e la capacità di metterlo in atto è stata siderale. Quando le forze di polizia hanno sferrato la prevedibile carica chi lo scontro cercava, e aveva il dovere di almeno difendere il resto del corteo, se l'è data a gambe levate.

Un'altro è l'elemento su cui chi ha puntato e scommesso sul successo di questa manifestazione deve riflettere. Lo scarso numero dei partecipanti (un quarto, forse meno, di quelli che parteciparono alla manifestazione omologa del 19 ottobre scorso) ha significato un sonoro fallimento.

Abbiamo la sensazione che la manifestazione di ieri, con la sconfitta subita, segni uno spartiacque. Ci sono segnali che nel frastornato poliverso dell'estrema sinistra possa finalmente aprirsi un dibattito affinché ci si lasci alle spalle concezioni e pratiche sterili che non portano da nessuna parte. Il ritardo, a cinque anni dalla più grave crisi economica che si ricordi, è riprovevole, ma meglio tardi che mai.

Prendiamo spunto dalle 
riflessioni a caldo di Contropiano, organo della Rete dei Comunisti. La redazione si pone tre domande calzanti: 

(1) perché la partecipazione è crollata rispetto a solo sei mesi fa?; (2) gli obiettivi specifici da soli, hanno la forza per diventare mobilitazione generale? (3) è possibile o necessaria una alleanza politica e sociale che veda dentro tutti i settori sociali aggrediti dalla crisi e dalle misure antipopolari per ingaggiare la sfida con un avversario di classe strutturato e integrato a livello di Unione Europea oppure si procede ognuno per conto suo?
Alla prima domanda questa è la risposta:


«Nei fatti si è rivelata una manifestazione per la casa – un obiettivo legittimo e popolare – ma la declinazione del problema specifico e la sua declinazione generale si sono persi in una evocazione generica che non ha dato né priorità né indicazioni da socializzare agli altri settori sociali (dai lavoratori alle famiglie proletarie ai disoccupati) che pure dovrebbero essere parte del conflitto di classe più generale. L'aver occultato il fattore antagonista oggi principale, l'Unione Europea e i suoi diktat, rende sempre più evanescente il nemico e la prospettiva generale di cambiamento che dà forza e respiro alle singole lotte».
In effetti il movimento che si è espresso ieri a Roma non si rivolge a tutti gli strati sociali falcidiati dalla crisi, ma solo a settori di gran lunga minoritari, anzitutto immigrati e senza tetto. Invece di agire per allargare il fronte di lotta a milioni e milioni di cittadini gettati sul lastrico, chiude in un recinto la sua base sociale di riferimento. Cosa ancor più grave, questo movimento protesta sì contro l'austerità, ma non mette sotto accusa i poteri oligarchici europei, di cui i governi italiani sono esecutori. Un movimento, dunque, del tutto privo di una visione politica complessiva, e senza nemmeno un'idea chiara di chi siano i nemici principali oggigiorno. 
I gruppi che animano questo movimento non vogliono infatti sentire parlare né di mollare con l'euro né di uscire dall'Unione europea. Manca dunque di ogni linea di fase, avanzando un massimalismo imbelle (la lotta è contro il capitalismo) ed un trito estremismo sindacalistico (vogliamo tutto!). 

La domanda a cui Contropiano dovrebbe rispondere è la seguente: qual è la causa del rifiuto di tali gruppi di avanzare gli obbiettivi l'uscita dall'Unione e dall'euro? La risposta è che sono vittime del tabù anarchico della sovranità nazionale, per essi obbiettivo "reazionario" se non addirittura "fascista". E come mai Contropiano non se la pone, questa domanda? Perché verrebbe alla luce che sulla questione della sovranità nazionale Contropiano non ha ancora sciolto la sua propria ambiguità —ricordiamo gli attacchi al vetriolo che sono stati rivolti al Mpl.

Alla seconda domanda (gli obiettivi specifici da soli, hanno la forza per diventare mobilitazione generale?) questa è la risposta:
«Unire le forze non è un esercizio di egemonia, è un processo nel quale ognuno porta quello che è e mette a disposizione quella che ha su un piano di convergenza comune e condiviso fin nei dettagli. L'alleanza del 18 e 19 ottobre indicava questa possibilità ma è stata volutamente affondata e i risultati si sono visti sabato 12 aprile».
Siamo proprio sicuri che "l'alleanza del 18 e 19 ottobre" sia la risposta adeguata alla domanda? Ovvero la strada giusta per costruire "una alleanza politica e sociale che veda dentro tutti i settori sociali aggrediti dalla crisi e dalle misure antipopolari"? Noi non lo pensiamo affatto. E' vero che le giornate del 18 e 19 ottobre furono un discreto successo in quanto a partecipazione, ma affermare che lì c'era la soluzione è illusorio. La manifestazione del 12 aprile è invece figlia legittima della relazione incestuosa del 18 e 19 ottobre: non è sufficiente, per stabilire una specie di differenza qualitativa tra i due eventi, la massiccia presenza del sindacalismo di base. Il 19 ottobre in testa c'erano gli stessi gruppi di ieri. Medesime erano le parole d'ordine.


Contropiano, che si consola sperando sia possibile far girare l'orologio all'indietro, dovrebbe porsi la domanda vera: si può costruire "una alleanza politica e sociale che veda dentro tutti i settori sociali aggrediti dalla crisi e dalle misure antipopolari" in compagnia di questi gruppi? La nostra risposta è no e chi si ostina a perseguire il sodalizio perde il suo tempo. Come da tempo andiamo dicendo, da altre parti occorre guardare se si vuole davvero costruire una sollevazione popolare e rovesciare il regime di protettorato euro-tedesco invece che correre dietro a chi non va oltre il mito della ribellione.

E infatti l'asino di Contropiano cade sulla terza domanda:

«E' possibile o necessaria una alleanza politica e sociale che veda dentro tutti i settori sociali aggrediti dalla crisi e dalle misure antipopolari per ingaggiare la sfida con un avversario di classe strutturato e integrato a livello di Unione Europea oppure si procede ognuno per conto suo?»
Sembrerà incredibile ma a questa domanda, la più importante, non viene data nessuna risposta. Buio pesto. Una reticenza senz'altro sintomatica delle antinomie e delle difficoltà in cui non solo la Rete dei Comunisti, ma più in generale ciò che resta della sinistra rivoluzionaria, si dimenano. Queste antinomie hanno una radice, il vecchio tabù operaista quello dell'interclassismo, per cui è ripugnante, anzi proibito, ogni contatto con una classe sociale che non sia la mitica "classe operaia". Di qui il disprezzo, l'anatema ed il rifiuto di ogni contatto contaminante, tanto per fare un esempio, con i settori di piccola e media borghesia ridotti alla miseria che sono scesi in strada nelle giornate del 9 dicembre scorso —quello della presenza dei fascisti era solo un ridicolo alibi per camuffare questo tabù. 
A ben vedere qui si palesa curiosamente una matrice culturale, anzi s'affacciano due dogmi religiosi, tipici del peggiore cristianesimo, quelli del peccato originale e del servo arbitrio, per cui la natura sociale e la coscienza di un soggetto sarebbero fissate, predeterminate, e non possono mutare con le circostanze storiche, proprio a causa di un stigma originario, geneticamente immutabile. 

Non farebbe male una rivisitazione critica della nostra storia. Se la si facesse certa sinistra dovrebbe finalmente capire che una della cause della sconfitta storica subita negli anni '20 in Italia e nei '30 in Germania, consistette proprio nel settarismo e nel dottrinarismo della sinistra comunista di allora, due patologie che isolarono i rivoluzionari e che finirono per agevolare lo sfondamento di massa dei fascisti e dei nazisti, prima tra gli strati pauperizzati della piccola borghesia, poi a seguire in seno alla stessa classe operaia. 
Avessero imparato qualcosa dei rivoluzionari russi, che quelle tragedie si sarebbero potute evitare:
«Ogni crisi rigetta tutto ciò che è convenzionale, strappa gli involucri esterni, spazza via ciò che è sorpassato, scopre le molle e le forze più profonde. (...) Credere che la rivoluzione sociale sia immaginabile senza le insurrezioni e le esplosioni rivoluzionarie della piccola borghesia, con tutti i suoi pregiudizi, senza il movimento delle masse proletarie e semiproletarie arretrate ... non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione.
La rivoluzione russa del 1905 è stata una rivoluzione democratica borghese. Essa è consistita in una serie di lotte di tutte le classi, i gruppi e gli elementi scontenti della popolazione. V'erano tra di essi masse con i pregiudizi più strani, con i più oscuri e fantastici scopi di lotta, v'erano gruppi che prendevano denaro dai giapponesi, speculatori e avventurieri, ecc. Obiettivamente, il movimento delle masse colpiva lo zarismo e apriva la strada alla democrazia, e per questo gli operai coscienti lo hanno diretto.
La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient'altro che l'esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti gli scontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente —senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione— e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale».  [V. I. Lenin, Luglio 1916]
Il dibattito sul 12 aprile, se vogliamo condurlo sul serio, alle sue estreme conseguenze, non solo allude ma solleva ben altri nodi irrisolti nella sinistra antagonista italiana. Ben venga questa discussione!


13 aprile 2014


dal sito Sollevazione

 

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