di Riccardo Achilli
Tanto
tuonò che piovve, verrebbe da dire. Questo è un Paese che non ha
mai amato il federalismo. Il regionalismo previsto in Costituzione
venne attuato solo all'inizio degli anni Settanta, e non solo per i
comprensibili timori e le resistenze degli apparati burocratici
centrali dello Stato nel devolvere competenze e poteri, ma anche per
la paura che l'incompleto processo di integrazione culturale,
economica e sociale del Paese esplodesse con la concessione di
maggiori poteri alle Regioni, come poi effettivamente avvenne, in
alcune parti del Paese, con il leghismo, certo non un fenomeno legato
a crisi economiche, poiché nato e sviluppatosi negli anni dell'apice
del benessere del Paese.
Non
poteva che fallire il federalismo senza risorse finanziarie autonome
e senza un sufficiente sforzo di trasferimento di risorse umane dal
centro alle periferie, messo in campo dalla maldestra riforma
Bassanini di fine anni Novanta, nella quale la disastrosa idea delle
competenze “concorrenti” fra Stato e Regioni fu più il frutto di
un compromesso per non scontentare le burocrazie ministeriali
terrorizzate dalla perdita di influenza, e del tentativo di arginare
le richieste di devoluzione leghiste, che di un progetto consapevole
di ridisegno dei confini fra Stato ed autonomie locali. Da ultimo, il
cosiddetto “federalismo fiscale” messo in campo da Tremonti, su
chiara indicazione della Lega (ma molto simile anche ad un ddl
presentato dal precedente Governo Prodi nel 2006), nel 2010/2011, di
“federale” non ha quasi niente, trattandosi principalmente di un enorme
processo di taglio di risorse statali per trasferimenti ordinari alle
Regioni del Mezzogiorno, e di una partita di giro delle risorse del
Fondo Sanitario Nazionale, per beneficiare maggiormente le Regioni
settentrionali. La fine anticipata del Governo Berlusconi, infatti, fa sì
che il nuovo Governo Monti conservi del federalismo fiscale solo ciò
che gli conviene per tagliare la spesa pubblica (riduzione
strutturale dei trasferimenti statali, imposizione dei costi standard
in Sanità ed agli enti locali) ed abbandoni del tutto i previsti
spazi di incremento delle compartecipazioni e delle addizionali alle
imposte nazionali, cioè gli unici simulacri di vero federalismo
fiscale che tale provvedimento conteneva.
Da
allora, le Regioni vengono sottoposte ad un vero e proprio assalto
mediatico, mirato ad evidenziarne sprechi, inefficienze e corruzione,
un assalto evidentemente mirato ad indebolirne la resistenza in
direzione di un riassetto neo-centralista dello Stato. Per carità,
dietro tale assalto non c'è niente di sbagliato nel merito: i
casi-Fiorito, l'infame utilizzo dei rimborsi spettanti ai consiglieri
regionali per pagarsi spesucce private ed amanti, la duplicazione dei
centri di costo indotta dai confini sempre incerti delle competenze
concorrenti, l'utilizzo a dir poco deficitario dei fondi strutturali
europei, gli squilibri nella spesa sanitaria in molte regioni, specie
del Sud, a fronte dell'assenza di miglioramenti del servizio, il
“pasticcio programmatico” derivante dagli incerti confini delle
competenze fra Regioni e Province in merito alla programmazione del
territorio e dei servizi di area vasta, sono tutti fatti oggettivi.
Fatti
oggettivi sui quali però si è fatta molta propaganda eccessiva, e
naturalmente, nel caos di ciò che rimane della sinistra italiana,
tale propaganda è stata amplificata da vecchi tromboni
veterostalinisti, irragionevolmente innamorati di un'idea di
centralismo statuale di sane tradizioni del Baffone. La corruzione,
infatti, non riguarda solo le Regioni. In un Paese che, secondo le
classifiche internazionali del Corruption Index, è su livelli
analoghi al Ghana e al Montenegro per corruzione amministrativa, è
semplicemente impossibile che le Regioni siano l'unico epicentro
della corruzione. E' molto più ragionevole ipotizzare che il grosso
della corruzione si annidi nei Ministeri e nei Comuni, enti questi
ultimi più vicini ai cittadini ed ai circuiti economici locali,
quindi più facilmente “corruttibili” (come dimostra la
penetrazione di criminalità organizzata in un gran numero di enti
comunali, peraltro non solo meridionali, attestata dai relativi
provvedimenti di scioglimento del Consiglio Comunale e di
commissariamento). E' vero che la spesa per fondi strutturali è
bassa. Però soprattutto per colpa del Governo centrale. Intanto
perché i negoziati per i quadri comuni di sostegno, condotti dal
Governo centrale, sono sistematicamente lenti e farraginosi,
comportando mediamente ritardi di un anno, un anno e mezzo, (ivi
compresa la prossima programmazione 2014-2020, atteso che il Governo
Letta è riuscito a farsi bocciare la bozza di Accordo di
Partenariato, giudicata gravemente insufficiente dalla Commissione
Europea, con conseguenti ritardi di avvio della spesa anche per i
futuri fondi) e poi perché i PON, cioè i programmi gestiti da
Ministeri e non dalle Regioni, sono, nel ciclo 2007-2013 appena
chiusosi, fra quelli in maggior ritardo attuativo: mi riferisco al
PON Reti e Mobilità, al PON Ricerca e Competitività, al PON
Sicurezza, tutti quanti sotto il livello medio di spesa al
31.12.2013. Per quanto riguarda la spesa sanitaria, andrebbe
ricordato che, al di là degli sforamenti e dei disavanzi accumulati dalle Regioni più spendaccione, il costo totale del servizio sanitario nazionale, per il cittadino, è determinato dallo Stato, nel momento in cui, nella legge di stabilità, definisce l'ammontare del finanziamento per il Fondo Sanitario Nazionale, e non dalle Regioni. Quanto alle duplicazioni di centri
di spesa, va infine ricordato che il disegno regionalista dello Stato,
contenuto nel Titolo V della Costituzione, è stato fatto da un
Governo, non dalle Regioni.
Come
si vede, per quanto male siano state gestite le Regioni in questi
anni (e anche questo giudizio è discutibile, perché in materia di
fondi strutturali esistono esempi virtuosi come la Basilicata, in
materia di politiche sociali e sanitarie esistono casi di studio di
eccellenza in Toscana ed in Emilia Romagna, la Puglia ha
sperimentazioni avanzatissime in materia di politiche ambientali e di
contrasto al lavoro nero, il Lazio ha progettato il primo modello di
reddito minimo garantito, ecc.) le colpe vanno equamente divise fra
esse ed il livello centrale dello Stato.
Un
possibile motivo sotteso a tale aggressione mediatica potrebbe avere un nome
chiaro: si chiama Europa. Lo ha spiegato benissimo Velardi, ex
consigliere politico di D'Alema ed ex Assessore bassoliniano in
Campania, in un'intervista rilasciata, qualche giorno fa, su un
quotidiano meridionale. In prospettiva di una futura unificazione
politica europea, i livelli intermedi fra il Governo federale ed i
territori vanno ridotti, e, sul modello statunitense, ricondotti al
livello dello Stato e della contea (qualcosa di simile ad una Unione
di Comuni, o ad una città metropolitana). Per questo motivo, le
Regioni e le Province devono sparire. Il processo di sparizione delle
seconde è già stato avviato: la non-riforma Delrio appena
approvata, infatti, crea, nelle more di una revisione costituzionale
che abolisca definitivamente tali enti, un voluto caos di competenze
pianificatorie e gestionali fra le neo-Province/aree metropolitane,
le Regioni e le Unioni di Comuni sottostanti, affidando tale caos ad
amministratori comunali non retribuiti per le loro funzioni di
amministratori delle Province ed aree metropolitane, quindi non
motivati a gestirle come si deve, e sempre propensi ad anteporre gli
interessi del Comune in cui sono stati eletti a quelli della
Provincia/città metropolitana che amministrano a titolo gratuito ed
in forma non elettiva, in caso di conflitto di poteri. Tutto ciò,
associato al panico dei dipendenti delle Province, cui volutamente
nessuno dice che fine faranno in futuro, darà il colpo di grazia
finale a tali enti, paralizzandoli definitivamente e quindi fornendo
la giustificazione “ideologica” per la loro abolizione finale,
nel giro di due o tre anni.
Poi
verrà il turno delle Regioni. L'idea delle macro-regioni è
l'antipasto del loro superamento. Prima le si ridurrà di numero, poi
le si cancellerà, e naturalmente Beppe Grillo, formalmente
oppositore ma in realtà menestrello del Potere, ha già espresso
favore per tale scelta. Ove tale passaggio fosse particolarmente
indigeribile per popolazioni ancora legate ad una identità
regionale, è presente anche una versione transitoria “light”, in
cui le macro-regioni, in una prima fase, diventano una sorta di
micro-Conferenze Stato-Regione, in cui negoziare interventi di
livello pluriregionale, fermi restando i confini amministrativi dei
singoli enti. Evidentemente si tratta di un'idea del tutto assurda
nel merito (le Regioni non sono capaci di negoziare fra loro nemmeno
un percorso turistico interregionale), ma che però ha il pregio di
consentire una riduzione più progressiva delle Regioni, meno
traumatica.
Riduzione
inevitabile e già inscritta nei fatti: la riforma del Titolo V della
Costituzione proposta dal Governo Renzi è infatti una durissima
cancellazione di quarant'anni di regionalismo. Non solo il
superamento delle competenze concorrenti è unilaterale, nel senso
che riassegna competenze esclusive allo Stato persino in materie dove
la specificità del territorio suggerirebbe di mantenerle a livello
locale (ambiente, territorio, beni culturali e paesaggistici) ma
prevede una clausola di supremazia statale persino nelle poche
materie ancora lasciate alle Regioni, in forza alla quale la legge
statale, su proposta del Governo, può intervenire su materie o
funzioni che non sono di competenza legislativa esclusiva dello Stato
(come questo possa combinarsi con la previsione costituzionale
relativa alle Regioni a Statuto Speciale i nostri governanti non lo
spiegano; in fondo, si tratta proprio di quel tecnicismo da
“prufessure” che essi aborriscono).
Sul
versante dei fondi strutturali, Fabrizio Barca ha lavorato per
l'imminente creazione dell'Agenzia della Coesione Territoriale, che
per ora si limiterà a fornire assistenza tecnica alle programmazioni
regionali (che però saranno costrette ad utilizzarla, e quindi ne
risulteranno “eterodirette”) ed a imporre poteri sostitutivi solo
in caso di gravi ritardi attuativi dei programmi operativi regionali,
lasciando ancora le Regioni relativamente libere i nfase di
programmazione, cioè di costruzione del programma e di proposizione
delle sue modifiche in corso di attuazione. Ma, c'è da esserne
sicuri, già a livello di valutazione dell'efficacia dell'attuazione
nel 2019 l'Agenzia otterrà una significativa spinta in direzione
dell'assunzione diretta di responsabilità programmatorie,
giustificata da ritardi attuativi dovuti, come si è detto, in primo
luogo all'incapacità del livello nazionale. Si ricreerà quindi una
seconda Agensud. Chi ricorda gli esiti di Agensud dopo la prima fase
di infrastrutturazione di base (nella quale era facile ottenere
risultati positivi, sia pur al costo di un immane flusso di denaro
investito, ben superiore ai fabbisogni effettivi) giudicherà circa
l'utilità della neonata Agenzia per la Coesione, autentica “longa
manu” delle burocrazie centrali sui territori, basata su una logica
neo-coloniale, e non priva di un certo razzismo, secondo cui sui
territori non si è capaci di fare niente (esattamente la stessa
logica che, da giovane funzionario dell'IPI, una delle Agenzie
ministeriali romane per lo sviluppo del Mezzogiorno che ruotavano
nella galassia della Casmez, riscontrai nei dirigenti di allora).
D'altra
parte, lo svuotamento del Senato previsto dall'inguardabile
riforma-Renzi va nella stessa direzione. Lungi dal divenire la Camera
delle istanze delle autonomie territoriali, come si potrebbe ricavare
da una possibile interpretazione del dettato costituzionale, essa
diventerà una sorta di “dopolavoro” di Presidenti di Regione,
Sindaci e consiglieri regionali, che ancora una volta, a titolo
gratuito e quindi senza alcuna motivazione a lavorare seriamente, si
vedranno a Roma una volta al mese per prendere l'aperitivo. In questo
modo, si crea un monocameralismo di fatto (ad eccezione delle leggi
di modifica della Costituzione, nelle quali il Senato sarà ancora
chiamato obbligatoriamente ad esprimersi, e delle leggi di bilancio,
per le quali il Senato sarà ancora consultato in automatico, ma
potrà decidere, se nella riunione mensile c'è tempo dopo
l'aperitivo, di proporre modifiche, solo però a maggioranza
assoluta; rispetto alle materie per le quali è previsto che il
Senato possa, facoltativamente, formulare modifiche ai disegni di
legge della Camera dei Deputati, c'è poco da illudersi: Presidenti
di Regione e sindaci, impegnati nel faticoso lavoro di amministrare
il loro territorio, vedendosi a Roma una sola volta al mese, non
avranno modo di lavorare sulle questioni facoltative). Di
conseguenza, si taglia la strada alla possibilità, per le autonomie
territoriali, di farsi ascoltare in sede governativa. Senza contare
che, possiamo esserne sicuri, una volta approvata la riforma del
Senato, la Conferenza Stato/Regioni finirà nella tagliola di qualche
prossima tornata di spending review, eliminando quindi l'unica sede
in cui Stato e Regioni interloquiscono su basi paritarie e queste
ultime hanno una visibilità ed un potere negoziale reale.
In
sostanza, tutto questo processo di svuotamento di Province e, in un
secondo momento, di Regioni, sarebbe effettivamente condivisibile se
e solo se, come pensa Velardi, il processo di unificazione politica
su scala europea fosse effettivamente in corso. Ma in realtà si
tratta ancora più di una pia intenzione che di una realtà. Lo
stesso documento della Commissione Europea, denominato “Blueprints
for a deep and genuine economic and monetary union”, del 2012,
colloca il processo di integrazione politica in un “lungo termine”
imprecisato. E' del resto evidente che oggi non vi siano affatto le
premesse per superare gli egoismi nazionali e realizzare il progetto
di Stati Uniti d'Europa e che, anzi, la crescita dei movimenti
euroscettici e nazionalistici segnala una direzione contraria in
fasce sempre più ampie di elettorato europeo. Se quindi la
previsione di Velardi fosse troppo ottimistica, come del resto credo,
e ci volesse almeno un'altra generazione o forse anche due prima di
fare il salto in avanti decisivo verso l'integrazione politica
europea, lo smantellamento dei livelli intermedi di amministrazione
dello Stato non avrebbe alcuna reale contropartita utile, nemmeno in
termini di risparmio di spesa corrente, perché a fronte della
estinzione di alcuni livelli di governance politica, ci sarebbero
costi aggiuntivi per ricollocare utilmente il personale in esubero
nelle Amministrazioni di livello superiore (in cui in genere si
guadagna anche di più, senza contare le indennità di trasferimento
di cui ancora godono alcune categorie di lavoro pubblico), a meno che
questo personale non rientri nei famosi 85.000 dipendenti da tagliare
previsti da Cottarelli, ed allora ci sarebbero immani costi sociali
ed economici. Non è un mistero che, secondo l'analisi della Corte
dei Conti, la riforma Delrio non comporterà alcun risparmio, ma anzi
extra-costi. Così è quando ci si limita a tagli lineari di livelli
amministrativi, senza sostituire gli stessi con bacini di utenza
ottimali dei servizi.
Vicenda analoga riguarda l'idea, altrettanto scombinata, di eliminare le autonomie funzionali, smantellando le Camere di Commercio, trasferendo le loro funzioni di interesse pubblico (tenuta del registro-imprese, certificazioni varie, prezziari di legge e misurazioni) ad uffici speciali dei Comuni. Un'idea pazzesca, anche in questo caso confezionata dal M5S, che è il vero "ghost writer" dei programmi di Renzi, che cancella enti di grande rilievo nella promozione, a livello territoriale ed anche internazionale, degli interessi dei nostri distretti e cluster di PMI, e sostenuta agitando l'illusione che in questo modo si possano eliminare i diritti di iscrizione delle imprese (peraltro diritti di entità modesta, pari, ad esempio, a 88 euro per le imprese più piccole). Una vera illusione: se il registro-imprese viene semplicemente trasferito sotto la titolarità di enti diversi dalle Camere di Commercio, che ne assorbono le competenze ed il personale (e quindi i costi relativi) per cancellare i diritti di iscrizione sub-Fiscal Compact occorrerà trovare altre tasse o balzelli, oppure altri tagli di spesa pubblica, per coprire il gettito venuto meno. E che, al pari del processo di "non-riforma" delle Province, rischia di generare costi (da trasferimento di competenze e personale, da ristrutturazione degli enti che assorbiranno le nuove competenze) superiori ai risparmi derivanti dall'eliminazione di Presidenti e Segretari Generali degli organismo camerali. D'altra parte, l'obbligo di iscrizione ad un registro-imprese riveste una importanza fondamentale ai fini fiscali, contributivi ed anche per l'azione di repressione contro la criminalità organizzata ed economica, quindi è semplicemente impensabile che un Governo che deve combattere l'evasione fiscale possa promuovere una simile "semplificazione". Il sistema camerale ha ovviamente bisogno di ristrutturarsi, smantellare aziende speciali ed agenzie inutili, al contempo preservando, ed anzi potenziando, quelle che svolgono funzioni effettive in materia di analisi economica del territorio e promozione delle imprese e dello sviluppo locale, togliere di mezzo le Unioncamere regionali che spesso sono mere sovrastrutture, però da qui ad eliminare il sistema camerale bollandolo come inutile, e far passare un obbligo informativo essenziale a fini fiscali, contributivi e di certezza del diritto, come quello di iscrizione al registro-imprese, come un inutile appesantimento burocratico, ce ne passa molto, e ci vuole una notevole dose di ignoranza per sostenerlo.
Qualora,
come è del tutto probabile, il processo di unificazione politica
europea dovesse tardare ancora molti anni, un intervento sui livelli
intermedi di amministrazione non andrebbe realizzato nelle forme in
cui si pensa di realizzarlo, cioè destrutturando le Province e poi
le Regioni, ed obbligando i piccoli Comuni ad unirsi fra loro senza
un disegno coerente di bacini di utenza dei servizi, ma su base più
o meno automatica. Nella prospettiva di avere ancora per molti anni
una Repubblica Italiana ancora non integrata in un'Europa politica, occorrerebbe a mio avviso procedere in modo diverso. In particolare, sarebbe utile disegnare la mappa dei bacini ottimali di utenza dei
servizi pubblici essenziali, sia di quelli di prossimità che di
quelli di area vasta, e configurare su tale mappa le opportune
fusioni di Comuni (e non le mere unioni), realizzate di imperio, per gestire i servizi di
prossimità (eliminando per fusione i circa 4.700 Comuni con meno di
3.000 abitanti, che oggettivamente non hanno la popolazione per
rendere economicamente sostenibile alcun servizio di prossimità), lasciando a riconfigurate
Province (abrogando quelle con popolazione inferiore ai 250.000
abitanti, che in generale non sono economicamente efficienti per
gestire servizi di area vasta come ad es. quello idrico o il ciclo
integrato dei rifiuti, passando dalle 110 province attuali a non più
di 78) la gestione di quelli di area vasta, mantenendo le funzioni di
programmazione del territorio e dello sviluppo socio-economico alle
Regioni, anche in un numero minore, abrogando cioè le Regioni con
meno di un milione e mezzo di abitanti, giungendo quindi ad avere 14
entità in luogo delle 20 attuali, ma con competenze reali ed
autonome, effettivamente riconosciute. E con vertici politici, sia
sul livello provinciale che su quello regionale, eletti e pagati,
quindi motivati a lavorare in esclusiva e con il dovuto impegno e
motivazione per l'ente in cui sono attestati, e non considerandolo un
“dopolavoro”, come tende invece a fare la riforma Delrio e quella
del Senato.
Si
otterrebbe in questo modo l'obiettivo, più simbolico e demagogico che effettivo,
di tagliare numerosi consigli e giunte, il personale in esubero
potrebbe essere ricollocato presso lo stesso livello amministrativo,
evitando i costi derivanti dal riassorbimento su livelli superiori,
si avrebbe una gestione finalmente efficiente dei servizi pubblici
essenziali, perché disegnati non su confini meramente
amministrativi, ma su bacini ottimali di utenza. Ed un Senato di
eletti su base regionale, anche in numero minore rispetto ai 315
attuali, e con compiti legislativi non solo limitati a quelli
previsti dalla riforma-Renzi, ma anche estesi (esclusivamente per il
Senato, senza quindi intervento della Camera dei Deputati) alla
legislazione relativa alla delimitazione e specificazione dei ruoli
dello Stato e delle Regioni nelle singole materie concorrenti, e con compiti di “risoluzione” delle controversie Stato-Regioni
nell'interpretazione dei reciproci limiti di competenza,
preserverebbe l'esigenza di avere un bicameralismo imperfetto, quella
di risparmiare un po' sugli organi politici, e quella di avere una efficace stanza di compensazione fra interessi nazionali e locali.
Viceversa,
il disegno renziano, molto approssimativo e sbrigativo, che non
intende nemmeno aprire un dibattito prima di procedere, appare
semplicemente come la volontà di smantellare “sic et simpliciter”
il Paese. Attenzione: se non ci sarà subito un'Europa politica
pronta a rilevare il testimone, lo smantellamento amministrativo del
Paese condurrà ad una tragedia, al caos.
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