ARCHIVIO TEMATICO (in allestimento. Pronto l'indice dei redattori)

domenica 6 aprile 2014

La fine annunciata, ingloriosa e pericolosa delle autonomie locali e di quelle funzionali, di Riccardo Achilli


di Riccardo Achilli

Tanto tuonò che piovve, verrebbe da dire. Questo è un Paese che non ha mai amato il federalismo. Il regionalismo previsto in Costituzione venne attuato solo all'inizio degli anni Settanta, e non solo per i comprensibili timori e le resistenze degli apparati burocratici centrali dello Stato nel devolvere competenze e poteri, ma anche per la paura che l'incompleto processo di integrazione culturale, economica e sociale del Paese esplodesse con la concessione di maggiori poteri alle Regioni, come poi effettivamente avvenne, in alcune parti del Paese, con il leghismo, certo non un fenomeno legato a crisi economiche, poiché nato e sviluppatosi negli anni dell'apice del benessere del Paese.

Non poteva che fallire il federalismo senza risorse finanziarie autonome e senza un sufficiente sforzo di trasferimento di risorse umane dal centro alle periferie, messo in campo dalla maldestra riforma Bassanini di fine anni Novanta, nella quale la disastrosa idea delle competenze “concorrenti” fra Stato e Regioni fu più il frutto di un compromesso per non scontentare le burocrazie ministeriali terrorizzate dalla perdita di influenza, e del tentativo di arginare le richieste di devoluzione leghiste, che di un progetto consapevole di ridisegno dei confini fra Stato ed autonomie locali. Da ultimo, il cosiddetto “federalismo fiscale” messo in campo da Tremonti, su chiara indicazione della Lega (ma molto simile anche ad un ddl presentato dal precedente Governo Prodi nel 2006), nel 2010/2011, di “federale” non ha quasi niente, trattandosi principalmente di un enorme processo di taglio di risorse statali per trasferimenti ordinari alle Regioni del Mezzogiorno, e di una partita di giro delle risorse del Fondo Sanitario Nazionale, per beneficiare maggiormente le Regioni settentrionali. La fine anticipata del Governo Berlusconi, infatti, fa sì che il nuovo Governo Monti conservi del federalismo fiscale solo ciò che gli conviene per tagliare la spesa pubblica (riduzione strutturale dei trasferimenti statali, imposizione dei costi standard in Sanità ed agli enti locali) ed abbandoni del tutto i previsti spazi di incremento delle compartecipazioni e delle addizionali alle imposte nazionali, cioè gli unici simulacri di vero federalismo fiscale che tale provvedimento conteneva.


Da allora, le Regioni vengono sottoposte ad un vero e proprio assalto mediatico, mirato ad evidenziarne sprechi, inefficienze e corruzione, un assalto evidentemente mirato ad indebolirne la resistenza in direzione di un riassetto neo-centralista dello Stato. Per carità, dietro tale assalto non c'è niente di sbagliato nel merito: i casi-Fiorito, l'infame utilizzo dei rimborsi spettanti ai consiglieri regionali per pagarsi spesucce private ed amanti, la duplicazione dei centri di costo indotta dai confini sempre incerti delle competenze concorrenti, l'utilizzo a dir poco deficitario dei fondi strutturali europei, gli squilibri nella spesa sanitaria in molte regioni, specie del Sud, a fronte dell'assenza di miglioramenti del servizio, il “pasticcio programmatico” derivante dagli incerti confini delle competenze fra Regioni e Province in merito alla programmazione del territorio e dei servizi di area vasta, sono tutti fatti oggettivi.

Fatti oggettivi sui quali però si è fatta molta propaganda eccessiva, e naturalmente, nel caos di ciò che rimane della sinistra italiana, tale propaganda è stata amplificata da vecchi tromboni veterostalinisti, irragionevolmente innamorati di un'idea di centralismo statuale di sane tradizioni del Baffone. La corruzione, infatti, non riguarda solo le Regioni. In un Paese che, secondo le classifiche internazionali del Corruption Index, è su livelli analoghi al Ghana e al Montenegro per corruzione amministrativa, è semplicemente impossibile che le Regioni siano l'unico epicentro della corruzione. E' molto più ragionevole ipotizzare che il grosso della corruzione si annidi nei Ministeri e nei Comuni, enti questi ultimi più vicini ai cittadini ed ai circuiti economici locali, quindi più facilmente “corruttibili” (come dimostra la penetrazione di criminalità organizzata in un gran numero di enti comunali, peraltro non solo meridionali, attestata dai relativi provvedimenti di scioglimento del Consiglio Comunale e di commissariamento). E' vero che la spesa per fondi strutturali è bassa. Però soprattutto per colpa del Governo centrale. Intanto perché i negoziati per i quadri comuni di sostegno, condotti dal Governo centrale, sono sistematicamente lenti e farraginosi, comportando mediamente ritardi di un anno, un anno e mezzo, (ivi compresa la prossima programmazione 2014-2020, atteso che il Governo Letta è riuscito a farsi bocciare la bozza di Accordo di Partenariato, giudicata gravemente insufficiente dalla Commissione Europea, con conseguenti ritardi di avvio della spesa anche per i futuri fondi) e poi perché i PON, cioè i programmi gestiti da Ministeri e non dalle Regioni, sono, nel ciclo 2007-2013 appena chiusosi, fra quelli in maggior ritardo attuativo: mi riferisco al PON Reti e Mobilità, al PON Ricerca e Competitività, al PON Sicurezza, tutti quanti sotto il livello medio di spesa al 31.12.2013. Per quanto riguarda la spesa sanitaria, andrebbe ricordato che, al di là degli sforamenti e dei disavanzi accumulati dalle Regioni più spendaccione, il costo totale del servizio sanitario nazionale, per il cittadino, è determinato dallo Stato, nel momento in cui, nella legge di stabilità, definisce l'ammontare del finanziamento per il Fondo Sanitario Nazionale, e non dalle Regioni. Quanto alle duplicazioni di centri di spesa, va infine ricordato che il disegno regionalista dello Stato, contenuto nel Titolo V della Costituzione, è stato fatto da un Governo, non dalle Regioni.

Come si vede, per quanto male siano state gestite le Regioni in questi anni (e anche questo giudizio è discutibile, perché in materia di fondi strutturali esistono esempi virtuosi come la Basilicata, in materia di politiche sociali e sanitarie esistono casi di studio di eccellenza in Toscana ed in Emilia Romagna, la Puglia ha sperimentazioni avanzatissime in materia di politiche ambientali e di contrasto al lavoro nero, il Lazio ha progettato il primo modello di reddito minimo garantito, ecc.) le colpe vanno equamente divise fra esse ed il livello centrale dello Stato.

Un possibile motivo sotteso a tale aggressione mediatica potrebbe avere un nome chiaro: si chiama Europa. Lo ha spiegato benissimo Velardi, ex consigliere politico di D'Alema ed ex Assessore bassoliniano in Campania, in un'intervista rilasciata, qualche giorno fa, su un quotidiano meridionale. In prospettiva di una futura unificazione politica europea, i livelli intermedi fra il Governo federale ed i territori vanno ridotti, e, sul modello statunitense, ricondotti al livello dello Stato e della contea (qualcosa di simile ad una Unione di Comuni, o ad una città metropolitana). Per questo motivo, le Regioni e le Province devono sparire. Il processo di sparizione delle seconde è già stato avviato: la non-riforma Delrio appena approvata, infatti, crea, nelle more di una revisione costituzionale che abolisca definitivamente tali enti, un voluto caos di competenze pianificatorie e gestionali fra le neo-Province/aree metropolitane, le Regioni e le Unioni di Comuni sottostanti, affidando tale caos ad amministratori comunali non retribuiti per le loro funzioni di amministratori delle Province ed aree metropolitane, quindi non motivati a gestirle come si deve, e sempre propensi ad anteporre gli interessi del Comune in cui sono stati eletti a quelli della Provincia/città metropolitana che amministrano a titolo gratuito ed in forma non elettiva, in caso di conflitto di poteri. Tutto ciò, associato al panico dei dipendenti delle Province, cui volutamente nessuno dice che fine faranno in futuro, darà il colpo di grazia finale a tali enti, paralizzandoli definitivamente e quindi fornendo la giustificazione “ideologica” per la loro abolizione finale, nel giro di due o tre anni.

Poi verrà il turno delle Regioni. L'idea delle macro-regioni è l'antipasto del loro superamento. Prima le si ridurrà di numero, poi le si cancellerà, e naturalmente Beppe Grillo, formalmente oppositore ma in realtà menestrello del Potere, ha già espresso favore per tale scelta. Ove tale passaggio fosse particolarmente indigeribile per popolazioni ancora legate ad una identità regionale, è presente anche una versione transitoria “light”, in cui le macro-regioni, in una prima fase, diventano una sorta di micro-Conferenze Stato-Regione, in cui negoziare interventi di livello pluriregionale, fermi restando i confini amministrativi dei singoli enti. Evidentemente si tratta di un'idea del tutto assurda nel merito (le Regioni non sono capaci di negoziare fra loro nemmeno un percorso turistico interregionale), ma che però ha il pregio di consentire una riduzione più progressiva delle Regioni, meno traumatica.

Riduzione inevitabile e già inscritta nei fatti: la riforma del Titolo V della Costituzione proposta dal Governo Renzi è infatti una durissima cancellazione di quarant'anni di regionalismo. Non solo il superamento delle competenze concorrenti è unilaterale, nel senso che riassegna competenze esclusive allo Stato persino in materie dove la specificità del territorio suggerirebbe di mantenerle a livello locale (ambiente, territorio, beni culturali e paesaggistici) ma prevede una clausola di supremazia statale persino nelle poche materie ancora lasciate alle Regioni, in forza alla quale la legge statale, su proposta del Governo, può intervenire su materie o funzioni che non sono di competenza legislativa esclusiva dello Stato (come questo possa combinarsi con la previsione costituzionale relativa alle Regioni a Statuto Speciale i nostri governanti non lo spiegano; in fondo, si tratta proprio di quel tecnicismo da “prufessure” che essi aborriscono).

Sul versante dei fondi strutturali, Fabrizio Barca ha lavorato per l'imminente creazione dell'Agenzia della Coesione Territoriale, che per ora si limiterà a fornire assistenza tecnica alle programmazioni regionali (che però saranno costrette ad utilizzarla, e quindi ne risulteranno “eterodirette”) ed a imporre poteri sostitutivi solo in caso di gravi ritardi attuativi dei programmi operativi regionali, lasciando ancora le Regioni relativamente libere i nfase di programmazione, cioè di costruzione del programma e di proposizione delle sue modifiche in corso di attuazione. Ma, c'è da esserne sicuri, già a livello di valutazione dell'efficacia dell'attuazione nel 2019 l'Agenzia otterrà una significativa spinta in direzione dell'assunzione diretta di responsabilità programmatorie, giustificata da ritardi attuativi dovuti, come si è detto, in primo luogo all'incapacità del livello nazionale. Si ricreerà quindi una seconda Agensud. Chi ricorda gli esiti di Agensud dopo la prima fase di infrastrutturazione di base (nella quale era facile ottenere risultati positivi, sia pur al costo di un immane flusso di denaro investito, ben superiore ai fabbisogni effettivi) giudicherà circa l'utilità della neonata Agenzia per la Coesione, autentica “longa manu” delle burocrazie centrali sui territori, basata su una logica neo-coloniale, e non priva di un certo razzismo, secondo cui sui territori non si è capaci di fare niente (esattamente la stessa logica che, da giovane funzionario dell'IPI, una delle Agenzie ministeriali romane per lo sviluppo del Mezzogiorno che ruotavano nella galassia della Casmez, riscontrai nei dirigenti di allora).

D'altra parte, lo svuotamento del Senato previsto dall'inguardabile riforma-Renzi va nella stessa direzione. Lungi dal divenire la Camera delle istanze delle autonomie territoriali, come si potrebbe ricavare da una possibile interpretazione del dettato costituzionale, essa diventerà una sorta di “dopolavoro” di Presidenti di Regione, Sindaci e consiglieri regionali, che ancora una volta, a titolo gratuito e quindi senza alcuna motivazione a lavorare seriamente, si vedranno a Roma una volta al mese per prendere l'aperitivo. In questo modo, si crea un monocameralismo di fatto (ad eccezione delle leggi di modifica della Costituzione, nelle quali il Senato sarà ancora chiamato obbligatoriamente ad esprimersi, e delle leggi di bilancio, per le quali il Senato sarà ancora consultato in automatico, ma potrà decidere, se nella riunione mensile c'è tempo dopo l'aperitivo, di proporre modifiche, solo però a maggioranza assoluta; rispetto alle materie per le quali è previsto che il Senato possa, facoltativamente, formulare modifiche ai disegni di legge della Camera dei Deputati, c'è poco da illudersi: Presidenti di Regione e sindaci, impegnati nel faticoso lavoro di amministrare il loro territorio, vedendosi a Roma una sola volta al mese, non avranno modo di lavorare sulle questioni facoltative). Di conseguenza, si taglia la strada alla possibilità, per le autonomie territoriali, di farsi ascoltare in sede governativa. Senza contare che, possiamo esserne sicuri, una volta approvata la riforma del Senato, la Conferenza Stato/Regioni finirà nella tagliola di qualche prossima tornata di spending review, eliminando quindi l'unica sede in cui Stato e Regioni interloquiscono su basi paritarie e queste ultime hanno una visibilità ed un potere negoziale reale.

In sostanza, tutto questo processo di svuotamento di Province e, in un secondo momento, di Regioni, sarebbe effettivamente condivisibile se e solo se, come pensa Velardi, il processo di unificazione politica su scala europea fosse effettivamente in corso. Ma in realtà si tratta ancora più di una pia intenzione che di una realtà. Lo stesso documento della Commissione Europea, denominato “Blueprints for a deep and genuine economic and monetary union”, del 2012, colloca il processo di integrazione politica in un “lungo termine” imprecisato. E' del resto evidente che oggi non vi siano affatto le premesse per superare gli egoismi nazionali e realizzare il progetto di Stati Uniti d'Europa e che, anzi, la crescita dei movimenti euroscettici e nazionalistici segnala una direzione contraria in fasce sempre più ampie di elettorato europeo. Se quindi la previsione di Velardi fosse troppo ottimistica, come del resto credo, e ci volesse almeno un'altra generazione o forse anche due prima di fare il salto in avanti decisivo verso l'integrazione politica europea, lo smantellamento dei livelli intermedi di amministrazione dello Stato non avrebbe alcuna reale contropartita utile, nemmeno in termini di risparmio di spesa corrente, perché a fronte della estinzione di alcuni livelli di governance politica, ci sarebbero costi aggiuntivi per ricollocare utilmente il personale in esubero nelle Amministrazioni di livello superiore (in cui in genere si guadagna anche di più, senza contare le indennità di trasferimento di cui ancora godono alcune categorie di lavoro pubblico), a meno che questo personale non rientri nei famosi 85.000 dipendenti da tagliare previsti da Cottarelli, ed allora ci sarebbero immani costi sociali ed economici. Non è un mistero che, secondo l'analisi della Corte dei Conti, la riforma Delrio non comporterà alcun risparmio, ma anzi extra-costi. Così è quando ci si limita a tagli lineari di livelli amministrativi, senza sostituire gli stessi con bacini di utenza ottimali dei servizi.

Vicenda analoga riguarda l'idea, altrettanto scombinata, di eliminare le autonomie funzionali, smantellando le Camere di Commercio, trasferendo le loro funzioni di interesse pubblico (tenuta del registro-imprese, certificazioni varie, prezziari di legge e misurazioni) ad uffici speciali dei Comuni. Un'idea pazzesca, anche in questo caso confezionata dal M5S, che è il vero "ghost writer" dei programmi di Renzi, che cancella enti di grande rilievo nella promozione, a livello territoriale ed anche internazionale, degli interessi dei nostri distretti e cluster di PMI, e sostenuta agitando l'illusione che in questo modo si possano eliminare i diritti di iscrizione delle imprese (peraltro diritti di entità modesta, pari, ad esempio, a 88 euro per le imprese più piccole). Una vera illusione: se il registro-imprese viene semplicemente trasferito sotto la titolarità di enti diversi dalle Camere di Commercio, che ne assorbono le competenze ed il personale (e quindi i costi relativi) per cancellare i diritti di iscrizione sub-Fiscal Compact occorrerà trovare altre tasse o balzelli, oppure altri tagli di spesa pubblica, per coprire il gettito venuto meno. E che, al pari del processo di "non-riforma" delle Province, rischia di generare costi (da trasferimento di competenze e personale, da ristrutturazione degli enti che assorbiranno le nuove competenze) superiori ai risparmi derivanti dall'eliminazione di Presidenti e Segretari Generali degli organismo camerali. D'altra parte, l'obbligo di iscrizione ad un registro-imprese riveste una importanza fondamentale ai fini fiscali, contributivi ed anche per l'azione di repressione contro la criminalità organizzata ed economica, quindi è semplicemente impensabile che un Governo che deve combattere l'evasione fiscale possa promuovere una simile "semplificazione". Il sistema camerale ha ovviamente bisogno di ristrutturarsi, smantellare aziende speciali ed agenzie inutili, al contempo preservando, ed anzi potenziando, quelle che svolgono funzioni effettive in materia di analisi economica del territorio e promozione delle imprese e dello sviluppo locale, togliere di mezzo le Unioncamere regionali che spesso sono mere sovrastrutture, però da qui ad eliminare il sistema camerale bollandolo come inutile, e far passare un obbligo informativo essenziale a fini fiscali, contributivi e di certezza del diritto, come quello di iscrizione al registro-imprese, come un inutile appesantimento burocratico, ce ne passa molto, e ci vuole una notevole dose di ignoranza per sostenerlo. 

Qualora, come è del tutto probabile, il processo di unificazione politica europea dovesse tardare ancora molti anni, un intervento sui livelli intermedi di amministrazione non andrebbe realizzato nelle forme in cui si pensa di realizzarlo, cioè destrutturando le Province e poi le Regioni, ed obbligando i piccoli Comuni ad unirsi fra loro senza un disegno coerente di bacini di utenza dei servizi, ma su base più o meno automatica. Nella prospettiva di avere ancora per molti anni una Repubblica Italiana ancora non integrata in un'Europa politica, occorrerebbe a mio avviso procedere in modo diverso. In particolare, sarebbe utile disegnare la mappa dei bacini ottimali di utenza dei servizi pubblici essenziali, sia di quelli di prossimità che di quelli di area vasta, e configurare su tale mappa le opportune fusioni di Comuni (e non le mere unioni), realizzate di imperio, per gestire i servizi di prossimità (eliminando per fusione i circa 4.700 Comuni con meno di 3.000 abitanti, che oggettivamente non hanno la popolazione per rendere economicamente sostenibile alcun servizio di prossimità), lasciando a riconfigurate Province (abrogando quelle con popolazione inferiore ai 250.000 abitanti, che in generale non sono economicamente efficienti per gestire servizi di area vasta come ad es. quello idrico o il ciclo integrato dei rifiuti, passando dalle 110 province attuali a non più di 78) la gestione di quelli di area vasta, mantenendo le funzioni di programmazione del territorio e dello sviluppo socio-economico alle Regioni, anche in un numero minore, abrogando cioè le Regioni con meno di un milione e mezzo di abitanti, giungendo quindi ad avere 14 entità in luogo delle 20 attuali, ma con competenze reali ed autonome, effettivamente riconosciute. E con vertici politici, sia sul livello provinciale che su quello regionale, eletti e pagati, quindi motivati a lavorare in esclusiva e con il dovuto impegno e motivazione per l'ente in cui sono attestati, e non considerandolo un “dopolavoro”, come tende invece a fare la riforma Delrio e quella del Senato.

Si otterrebbe in questo modo l'obiettivo, più simbolico e demagogico che effettivo, di tagliare numerosi consigli e giunte, il personale in esubero potrebbe essere ricollocato presso lo stesso livello amministrativo, evitando i costi derivanti dal riassorbimento su livelli superiori, si avrebbe una gestione finalmente efficiente dei servizi pubblici essenziali, perché disegnati non su confini meramente amministrativi, ma su bacini ottimali di utenza. Ed un Senato di eletti su base regionale, anche in numero minore rispetto ai 315 attuali, e con compiti legislativi non solo limitati a quelli previsti dalla riforma-Renzi, ma anche estesi (esclusivamente per il Senato, senza quindi intervento della Camera dei Deputati) alla legislazione relativa alla delimitazione e specificazione dei ruoli dello Stato e delle Regioni nelle singole materie concorrenti, e con compiti di “risoluzione” delle controversie Stato-Regioni nell'interpretazione dei reciproci limiti di competenza, preserverebbe l'esigenza di avere un bicameralismo imperfetto, quella di risparmiare un po' sugli organi politici, e quella di avere una efficace stanza di compensazione fra interessi nazionali e locali.

Viceversa, il disegno renziano, molto approssimativo e sbrigativo, che non intende nemmeno aprire un dibattito prima di procedere, appare semplicemente come la volontà di smantellare “sic et simpliciter” il Paese. Attenzione: se non ci sarà subito un'Europa politica pronta a rilevare il testimone, lo smantellamento amministrativo del Paese condurrà ad una tragedia, al caos.

Nessun commento:

Posta un commento