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mercoledì 7 maggio 2014

IL GUITTO 2.0 E I FIGLI DI NESSUNO di Norberto Fragiacomo




IL GUITTO 2.0 E I FIGLI DI NESSUNO 
di 
Norberto Fragiacomo





Ma chi è ‘sto Matteo Renzi, l’erede di Silvio o un Benito 2.0?
Frasi come quelle pronunciate di recente (“Sogno un sindacato che, nel momento in cui cerchiamo di semplificare le regole, dia una mano e non metta i bastoni tra le ruote”; “non sarà un sindacato a fermarci”) puzzano di autoritarismo – e, se vogliamo, di corporativismo fascista - lontano un miglio, e non meno inquietante suona la preventiva, sprezzante rinuncia ad una “legittimazione popolare che non avrò mai”, e dunque non è indispensabile. Davvero il commento di Piero Pelù non sembra sopra le righe, in questi primi di maggio: Renzi adopera stabilmente toni aggressivi, inusuali per il mondo politico italiano, e mostra di voler gestire il Paese come fosse cosa sua. Circondarsi di signore nessuno è stato il primo passo, dopo il riuscito putsch di palazzo; successivamente si è lanciato in una campagna di denigrazione delle opposizioni – più presunte che reali, purtroppo – cercando di squalificarle a colpi di battute e velati insulti. 
Nella neolingua renziana chi contrasta le “riforme” è un “conservatore”, e poco importa che i suoi ukase – in materia di legge elettorale e di lavoro, d’imbalsamazione del Senato e di “rinnovamento” della P.A. – siano degni del peggior reazionario, quale lui evidentemente è.

Il fiorentino pare una sorta di ibrido, un Silvenito che, più ancora di Berlusconi, brama di imporre la propria volontà a tutto e tutti, riscrivendo regole ed eccezioni – ma sempre col sorrisetto stampato in faccia. Ammicca e motteggia il “giovane” Matteo, e poi scende in strada a stringere mani, scambiare abbracci, spargere parole, promesse e buoni propositi che il tempo rivelerà essere bufale (v. la pantomina degli 80 euro). Un guitto senza pudore, di una specie tutt’altro che rara: alla vigilia delle elezioni, persino quelle circoscrizionali, l’italico politicante si comporta esattamente così. La particolarità sta nel fatto che la campagna elettorale è il suo – di Renzi – eterno presente. In realtà, sono i bagni di folla a piacergli, non la competizione in se stessa, di cui farebbe volentieri a meno. Crederà pure lui che governare gli italiani sia, più che difficile, inutile? E’ abbastanza verosimile, anche se – rispetto a Mussolini, che conquistò il potere più o meno alla stessa età, ma senza atteggiarsi a giovinetto – atteggiamento e tecniche di seduzione sono agli antipodi: il Duce puntava ad impressionare le masse, Matteo si contenta di abbindolare la “ggente” con la sua cantilena toscana. Suadente, simulata bonomia: non Mangiafuoco, dunque (che, in fondo, tra i personaggi citati era l’unico cuore d’oro), bensì la volpe della celebre coppia, che inganna – e all’occorrenza – colpisce spietatamente. D’altra parte, Mussolini e Renzi sono figli di tempi, situazioni e padri diversi. In un’epoca drogata dalla violenza – subita dai molti e propagandata dall’elite – il futuro Duce si era fatto le ossa come dirigente socialista, animando epiche lotte operaie e conoscendo l’onta (che lui definì “onore”) della prigione. Il rottamatore dell’Italia, che di sinistra non è stato manco per un istante, ha fatto politica inbusiness class, prima nei Popolari, poi nella Margherita, infine nel PD: da dieci anni, cioè da quando ne aveva 29, è mantenuto dai soldi pubblici. A parte una comparsata alla Ruota della fortuna, non risulta abbia mai tentato altre strade; il “professor Mussolini”, invece, aveva esordito come maestro di scuola, per poi rivelarsi giornalista (e direttore) di razza. Figli d’arte entrambi, ma mentre il fabbro di Predappio – militante e politico socialista d’assalto – aveva lasciato in eredità al rampollo soltanto fame, rabbia e tre nomi rivoluzionari, il DC Tiziano – potente notabile del Valdarno – non è stato certo d’intralcio alla carriera di Matteo. Una carriera, va detto, agevolata dalle doti istrioniche del nostro, oltre che da amicizie “importanti”, su cui Bersani aveva puntato il dito a suo tempo. Ma Bersani non era né carne né pesce, mentre Renzi junior sa muoversi come uno squalo. Il giovanotto (che giovanissimo è solo in un immaginario collettivo plasmato ad arte) è fra i dirigenti del PD il più convincentemente berlusconiano. Questo non perché gli altri siano “di sinistra” e lui no: vertici e quadri intermedi del partito non ammettono alternative alla vulgata neoliberista, le opposizioni sono di facciata. Nessuno dei predecessori di Renzi, tuttavia, è stato capace di adattare in maniera altrettanto spregiudicata ed efficace il format di Silvio, ideato – questo conta – per un pubblico larghissimo ma poco esigente. Il modello Zanicchi, caro a Berlusconi, ha lasciato il posto ad Amici: ritmi frenetici, colpi di tweet, giovanilismo in maniche di camicia e bicicletta (non ricorda, quest’ultima, il cavallo di Benito?) rincorrono le generazioni tra i venti e i quaranta, relativamente acculturate, scalpitanti, disorientate. Anche la scelta delle soubrette è funzionale: le nuove leve sono belle ma raffinate, botticelliane nei tratti armoniosi di una Madia o una Boschi – il pecoreccio delle labbra siliconate è ormai un ricordo. Il nomignolo Renzie, coniato da Beppe Grillo (pure lui uomo di spettacolo, e perciò esperto in materia), è insomma più di una storpiatura: è un ritratto.
Le polpette gettate dal fiorentino ai giovani sono tuttavia avvelenate: il nuovo Decreto Lavoro rappresenta l’istituzionalizzazione del precariato, che si erge a regola indiscutibile. Le residue eccezioni avranno vita breve: i giovani non conosceranno mai il tempo indeterminato, gli anziani “garantiti” ne perderanno memoria. Nel settore privato i licenziamenti giustificati con la crisi stanno mietendo decine, centinaia di migliaia di posti “sicuri”; per il pubblico è pronta la cura Renzi-Madia, una variante ancor più tossica delpharmakon distillato un lustro fa da Brunetta. 
Bastone pesantemente reale, carota olografica.

Il leitmotiv, l’elemento che accomuna il renzismo a tutte le esperienze di governo che l’hanno immediatamente preceduto è l’assoluta noncuranza nei confronti delle (legittime) aspirazioni dei cittadini, delle loro esigenze e storie – semplicemente perché, nella democrazia virtuale, essi sono trattati da sudditi, da reclute di un esercito destinato alla riserva.

Faccio un esempio, che mi riguarda personalmente e che però riassume una situazione più generale. Cinque anni orsono (autunno 2009) uscì un bando nazionale per 200 posti di segretario comunale/provinciale. Decisi di partecipare, perché la prospettiva mi attirava – per avere qualche chance in più, mi iscrissi ad un corso online che, ovviamente, non era gratuito. Altri, per seguirlo, si recarono a Roma, spendendo qualche migliaio di euro, vitto, alloggio e trasferimenti compresi. Le preselezioni – quiz a risposta multipla – si tennero dopo un anno; nel marzo 2011 ci toccarono tre giornate di scritti. Assicuro che non fu una scampagnata… e che altri bei soldini ci uscirono dalle tasche, insieme a tante energie. Per i risultati dovemmo aspettare “appena” due anni e quattro mesi: vennero pubblicati a fine luglio 2013! Poco tempo per preparare le 17 materie dell’orale: due mesi e briciole per i più “sfigati”, quasi cinque per gli ultimi della lista. Fu una full immersion che mise a dura prova rapporti familiari ed equilibri mentali: in 260, alla fine, potemmo gioire (cautamente, perché terminato il corso ne sarebbero rimasti solo 200). Iniziò l’attesa: il corso partirà forse a primavera, no, dopo l’estate… contrordine! se tutto va bene, si incomincia a dicembre. Se tutto va bene, perché di comunicazioni ufficiali nemmeno l’ombra. Il 30 aprile la doccia ghiacciata: al punto 13) della letterina di Renzi e Madia ai dipendenti pubblici sta scritto: “abolizione della figura del segretario comunale”. Una riga in tutto, neppure un abbozzo di motivazione: una figura fondamentale, specie nei piccoli comuni dove mancano dirigenti e competenze specifiche, viene cancellata da un giorno all’altro, vanificando (così pare) cinque anni di pazienza, mesi di sforzi, insonnia, nervosismo e speranze. Doverosamente il sindacato di categoria dichiara lo stato di agitazione, e il bellimbusto che fa? ribatte “me ne frego” con altre parole. Nessuna sorpresa. A chi gioca allo sfascio non serve un garante della legittimità dell’azione amministrativa negli enti locali: gli giovano l’anarchia, la disorganizzazione e l’inevitabile caos che agevoleranno nuovi tagli e riduzioni, visto che “le cose non funzionano, i dipendenti pubblici sono dei fannulloni, vanno licenziati, e noi lo faremo”.

Lo faranno, sicuro – perché l’uomo del “fare” (promesse a vanvera ai figli di nessuno), quello che mai ha dovuto cimentarsi in un concorso e ha avuto tutto a gratis non risponde, no, agli agrari che si comprarono i servigi di Mussolini: il punto di riferimento, i foraggiatori della sua sconfinata ambizione sono i finanzieri. Il loro obiettivo è una privatizzazione integrale della società, da perseguire con qualsiasi mezzo: famiglie sul lastrico e tratti di penna su aspettative conquistate a caro prezzo sono danni collaterali, robetta. Così come ogni guerra, la crisi offre pazzesche opportunità di guadagno: inutile dire per quale forza politica, per quale brillante decisionista i signori dell’elite faranno il tifo il 25 maggio. Se Renzi vince, voleranno migliaia di tappi di ottimo champagne, pagato interamente da noi poveracci. Se invece, come mi auguro, il toscano dovesse incappare in un insuccesso capace di tarpargli (forse definitivamente) le ali, a festeggiare dovrebbe essere chi in lui ha riconosciuto un pericolo, un nemico di classe e un insolente epigono dei più machiavellici governanti italici. Brinderò alla sua sconfitta con un pessimo vino toscano, amaro almeno quanto il boccone che il guitto 2.0 vuol costringerci ad inghiottire. 




6 maggio 2013


dal sito Owenisti Giuliani






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