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venerdì 4 luglio 2014

IL FIORE RECISO DELLA PRIMAVERA DELLA PATRIA (a Goffredo Mameli) di Carlo Felici


IL FIORE RECISO DELLA PRIMAVERA DELLA PATRIA
(a Goffredo Mameli)

di Carlo Felici




Non c'è mai stato in Italia un eroe romantico più grande, appassionato e devoto alla causa come Goffredo Mameli, artista, poeta rivoluzionario, di cui purtroppo molti tra gli italiani (o quelli che almeno sono rimasti a considerarsi seriamente tali) sanno solo che è l'autore del nostro inno nazionale. Nessuno, infatti, ne parla nelle scuole, nessuna antologia scolastica contiene le sue poesie o i suoi interventi politici, nessuna casa editrice, dal centenario della sua nascita, si è più preoccupata di ristampare la sua intera opera, tuttora reperibile solo nel mercato antiquario dei libri.
La sua fu, e decisamente resta, una sorte sfortunata, se almeno consideriamo la dovuta conoscenza che egli avrebbe meritato e gli onori che avrebbe dovuto avere sin da dopo la sua morte.
E invece proprio dopo la sua morte iniziò una serie di disgraziate vicissitudini, destinate a concludersi quasi un secolo dopo.
Mameli morì con la Repubblica Romana, primo, straordinario e fulgido esempio di democrazia socialmente avanzata in Italia e nel mondo. Una Repubblica non atea o giacobina, o tanto meno inficiata di bonapartismo, come quella francese, né di fatto timocratica come quella americana e neppure schiacciata su una ideologia da imporre a tutti, ma che rispettò ed attuò pienamente la sovranità popolare, combatté il potere temporale del clero, senza minimamente minacciare i principi religiosi su cui essa stessa si fondava, inserendo nella sua bandiera il detto “Dio e Popolo”, che spezzò i monopoli, le rendite parassitarie, distribuì terre ai contadini, case ai più poveri e che diede persino un albergo di villeggiatura, prima appartenuto ai gesuiti, ai malati di mente prima reclusi dalle autorità ecclesiastiche in una zona malsana di Roma . Sarebbe opportuno parlarne a lungo, ma lo faremo magari in un'altra occasione con un intervento specifico a parte.

Mameli incarnò pienamente gli ideali e i valori su cui tale Repubblica si fondava ed intendeva affermarsi: 1) Onestà e integrità morale che governasse con il buon esempio contro ogni forma di corruttela, di dispotismo e di conformismo 2) Esaltazione del merito dell'essere buoni cittadini, trascinatori con il sacrificio e la testimonianza personale del popolo, di quello stesso popolo che si voleva risvegliare e di cui si cercava il consenso 3) Rivoluzione permanente per affermare tali principi su scala nazionale ed europea, fino alla vittoria e fino al loro pieno conseguimento.
Erano tali in fondo gli ideali mazziniani, ma, più di essi, con Mameli, fatti carne e sangue, con un esempio e con una azione permanente e continuativa che abbinava gli scritti politici, la poesia alla lotta sul campo, al combattimento e alla purezza dell'esempio.
Mameli non vide in vita la caduta della Repubblica, morì il 6 luglio mentre le truppe francesi occupavano Roma e Garibaldi era già uscito dalla città, gli fu risparmiata la tristissima sorte di essere un esule mutilato, o forse persino imprigionato, come accadde ad altri eroici combattenti che restarono a Roma, ma gli impedì comunque, con altri scritti che sicuramente sarebbero stati preziosi ed estremamente autorevoli, di continuare ad accompagnare il processo risorgimentale che, però, sappiamo bene, non prese la direzione auspicata da Mazzini e dallo stesso Mameli.
Il suo corpo fu imbalsamato dal Bertani, il medico che disperatamente cercò di salvarlo, sapendo della sua giovanissima età e quanto fosse preziosa quella vita per le future speranze dei patrioti italiani. Come sappiamo, non ci riuscì, perché il fisico di Mameli era troppo debilitato e debole e l'infezione, dovuta probabilmente ad uno stoppaccio non rimosso prontamente e forse inserito con le prime cure nella ferita per evitare l'emorragia, seguita al suo ferimento, che aveva causato l'amputazione della sua gamba sinistra, lo portò ad un ulteriore e finale collasso fisico.
Il suo corpo però continuò ad essere fonte di seri imbarazzi e di contrasti accesi.
Esso venne inizialmente deposto nel cimitero sotterraneo della chiesa delle stimmate a Roma, ma nel 1871, con Roma ormai italiana, le autorità ecclesiastiche consentirono la sua riesumazione. Il nuovo governo monarchico e sabaudo però si oppose alla celebrazione pubblica delle esequie di un eroe repubblicano e mazziniano, in un periodo in cui Mazzini era costretto a nascondersi e a girare sotto falso nome, perché considerato ancora come un “pericoloso terrorista”. 
La cerimonia ci fu lo stesso, ma fu riservata a vari suoi vecchi compagni d'arme e vi mancò sia Garibaldi (a cui l'aria di Roma dopo il 1867 non faceva più tanto bene), sia la sua stessa famiglia.
Ai vecchi compagni d'arme però non mancò la libertà e la dignità di cantare quell'inno che poi sarebbe diventato di tutti gli italiani, così come quella di leggere brani delle opere del giovane artista combattente. L'avessero mai fatto! I rappresentanti del governo sabaudo, nonostante il funerale fosse civile, non gradirono, ma si affrettarono a far seppellire il cadavere di Mameli in un loculo qualsiasi del cimitero, in attesa di una sistemazione più dignitosa che attese ben 18 anni prima di essere concessa. E lo fu nel 1889, solo perché un figlio di un ex ministro delle Finanze della Repubblica Romana: Guiccioli, propose finalmente di costruire un mausoleo che fosse degno di Mameli al Verano, in un'epoca in cui gli ultimi reduci di quella eroica impresa democratica erano ancora vivi e prima di sparire, vollero almeno consegnare al futuro una testimonianza del loro sacrificio.
La costruzione del monumento impiegò circa tre anni e solo il 26 luglio del 1891, le sacre spoglie di Mameli vennero traslate lì.
E lì restarono per circa 50 anni, fino a quando cioè Mussolini, deciso a ridare slancio patriottico ad una guerra poco popolare e che già si considerava a serio rischio per gli italiani, e forse anche per giustificare la cosiddetta “pugnalata alle spalle dei francesi” decise di erigere un monumento a tutti coloro che, in un'epoca precedente, dai francesi erano stati numerose volte trafitti e non solo alle spalle.  Così, prima ancora che i lavori fossero ultimati, le spoglie di Mameli furono traslate un'altra volta e portate in una cripta sotterranea dove tuttora riposano insieme a tutti gli eroi garibaldini, nei pressi del Gianicolo.

E' importante infatti ricordare che Mameli nacque come patriota combattente, mazziniano, ma morì garibaldino, ufficiale della Legione di Garibaldi, distintosi, prima di essere ferito e già febbricitante probabilmente perché colpito da quelle febbri malariche che allora imperversavano nella campagna romana, già nelle operazioni contro l'esercito borbonico nel maggio del 1849. Da quella operazione militare Mameli tornò già fortemente indebolito, debilitato e febbricitante, tanto che nell'immediato fu costretto a letto e a riposo. Ma non ci restò per molto. L'improvviso attacco a tradimento alle prime luci dell'alba del 3 giugno 1849, lo costrinse di nuovo ad entrare in azione e sebbene alcuni suoi fedelissimi amici lo scongiurassero di riguardarsi.
Perché è tuttora importante cercare di capire come e perché fu ferito e morì Mameli? Non certo per cambiare di una virgola ciò che è stato scritto su di lui in merito al suo valore ed al suo esempio, ma, più specificatamente, per apprezzare o meno quanto coloro che lo videro combattere e morire, cercarono o no di salvarlo, magari per consegnarlo alle future generazioni come un tesoro prezioso e un testimone di valore, in particolare di un' “arte patria” di cui egli davvero sembrava il più esperto di tutti: univa infatti in sé l'ardore combattente di Garibaldi, con la passione civile e politica di Mazzini. E siamo sicuri che, se fosse vissuto ne sarebbe diventato, per la sua giovanissima età, il più autorevole successore. Di questo erano consapevoli sia Mazzini che Garibaldi che lo amavano come un figlio, e dunque, è assai arduo e amaro mettere in discussione ciò che essi stessi scrissero su di lui.
Sulla questione del ferimento di Mameli, infatti, tuttora gli storici non sono d'accordo e sebbene Garibaldi e Mazzini avessero parlato chiaro nel merito da molto tempo.
Garibaldi infatti scrisse una lettera alla madre di Mameli che fu sì indirizzata vari anni dopo la morte di Mameli, ma che ricalca un medesimo scritto commemorativo su Mameli dello stesso Generale composto nel periodo immediatamente successivo all'uscita della Legione di Garibaldi da Roma.
Entrambi gli scritti furono menzionati da un autorevole storico garibaldino: Barrili che per primo, nel 1907, quando qualche reduce della Repubblica Romana era ancora vivo (l'ultimo superstite della Costituente Romana morì nel 1912), pubblicò tutti gli scritti di Mameli con un'appendice di documenti che include la versione di Garibaldi sul suo ferimento.
Da essi leggiamo che Mameli fu ferito “verso sera di quel giorno fatale” e ancora “nella sera dell'infausto 3 giugno, quando i nostri, stanchi e decimati, sopraffatti dal numero, si slanciavano ancora, ma inutilmente, per ritogliere i Quattro Venti” e solo per le molteplici insistenze del giovane, che si cercò, secondo le parole del Generale, di risparmiare per tutta la giornata.
Mameli fu dunque ferito, secondo Garibaldi, perché sfuggito alla sua attenzione e senza aver condotto una carica dietro suo esplicito ordine.
Mazzini, dal canto suo, asserisce, confermando quanto scritto in una lettera dallo stesso Mameli, che egli fu ferito da un “bersagliero”, ma aggiunge, anche se 10 anni dopo, in un momento in cui era deciso avversario di Napoleone III e della sua alleanza con il Piemonte contro l'Austria, “francese”
Il primo a mettere seriamente in dubbio l'attendibilità della versione di Garibaldi sull'accaduto fu Codignola nella sua pregevole edizione della vita e degli scritti di Mameli, pubblicata in occasione del centenario della sua nascita, quando però nessun reduce della Repubblica avrebbe più potuto smentirlo. Il Codignola, osservando gli scritti di Vecchi e contraddicendo quanto riportato dal Treveylan e dal Loevinson, autori rispettivamente di un'opera su Garibaldi e la Repubblica e Romana e su Giuseppe Garibaldi e la sua Legione nello Stato Romano, asserisce che Mameli fu ferito durante uno dei primi scontri. Il Codignola, a suffragare la sua tesi, riprende anche uno scritto di Maestri a Bertani menzionato nel libro di Jessie White Mario “Agostino Bertani e i suoi tempi” ed anche Hoffstetter, a sua volta autore di una cronaca degli eventi bellici della Repubblica Romana che però dà Mameli per morto durante lo scontro.
Tale tesi, di recente, è stata ripresa e rilanciata dal Prof. Monsagrati sia in un suo scritto sulle “ultime ore di Mameli”, sia nel suo pregevole libro sulla Repubblica Romana recentemente uscito dal titolo “Roma senza il papa”. Il prof. Monsagrati scrive testualmente che “su una questione che tutto sommato è di poco conto forse l'ultima parola bisogna lasciarla ad un testimone oculare” E così, nel suo scritto pubblicato dall'associazione Cipriani, cita un ufficiale medico: Goglioso, ligure e mazziniano che, in una lettera del 7 giugno scrive “Sortendo io di casa la mattina trovai nella strada dove dimoro un tenente di Garibaldi [in vettura] ferito al ginocchio, mentre conduceva i suoi per prendere un casino alla baionetta, e gli diedi quei soccorsi dell'arte opportuni”
Codignola non menziona Guerrazzi, il quale nella sua famosa opera “Lo Assedio di Roma” parla di Mameli e del primo assalto, aggiungendo testualmente: “E tu Mameli, Tirteo e Koernern italiano in questo combattimento riportasti la ferita, che inciprignendo ti tolse all'ammirazione della gioventù italica” Egli però ci dice anche qualcosa in più...
Il Guerrazzi ci parla anche del cavallo di Mameli che pare fosse di grandi proporzioni ma piuttosto malandato e già messo a riposo dal precedente proprietario, prima che Mameli se ne appropriasse; lo stesso Guerrazzi imputa alle proporzioni del cavallo e alla sua mole l'esposizione al colpo fatale che ferì il giovane patriota italiano.
A chi dar ragione dunque? E' poi così importante tale questione?
Procediamo con ordine: Mameli era un grande personaggio osannato da tutti i patrioti avidi lettori delle memorie della Repubblica Romana, che uno storico come Vecchi si attribuisse il fatto di aver partecipato ad un assalto con lui, pur essendo smentito dallo stesso Mameli che scrive che era stato ferito durante una carica e non di ritorno dalla missione come dice il Vecchi, non poteva che dargli ulteriore prestigio, e quindi può darsi che lo stesso Vecchi abbia operato una forzatura nel suo racconto, da cui anche Guerrazzi può essere stato condizionato. Per altro smentendo se stesso, se infatti è vera la storia del “ronzino gigante” con cui Mameli sarebbe andato alla carica, menzionato esplicitamente dallo stesso Guerrazzi, c'è anche seriamente da dubitare che quel cavallo fosse più veloce di coloro che correvano a piedi.
Il Maestri non lo vide arrivare in ospedale, ma lo incontrò solo varie ore dopo, quindi può aver confuso o aver solo sentito dire che fu ferito durante uno dei primi assalti. Ma veniamo al Goglioso e alla sua lettera.
Parliamo dell'altro ufficiale medico menzionato da Monsagrati. Goglioso scrive genericamente di un “ufficiale” (per inciso gli ufficiali morti e feriti della Legione di Garibaldi furono decine in quel giorno), lui che era ligure e fervente mazziniano non avrebbe dunque riconosciuto Mameli con il suo nome? Strano davvero..e poi ci dice che arrivò “in vettura” (non menzionata nella citazione del prof. Monsagrati) “ferito ad un ginocchio” Potevano, nelle prime ore del giorno dei primi assalti, transitare le vetture da e per Porta S. Pancrazio quando era tutto un affollarsi ed un accorrere di feriti lungo la stretta strada che conduceva a quell'entrata? Da una stampa dell'epoca vediamo Mameli condotto in barella, e ci è più facile credere che fosse così trasportato fino al luogo di cura. Infine Mameli fu ferito, come sappiamo dal dettagliato rapporto di Bertani, alla tibia, circa un palmo sotto il ginocchio, tanto che lui stesso implorò i medici che la gamba gli fosse amputata sotto l'articolazione. La ferita fu causata da una palla che fratturò l'osso e uscì dalla parte posteriore con entrata quindi anteriore alla tibia. Poteva un ufficiale medico ligure e mazziniano non solo non riconoscere Mameli, ma anche confondere una tibia con un ginocchio? La lettera, infine, di Goglioso fu pubblicata circa 90 anni fa, nel 1924, nella seconda parte del Catalogo del museo del Risorgimento di Genova. Possibile che in ben 90 anni nessun altro storico del Risorgimento abbia collegato quella lettera a Mameli?
Non pretendiamo di smentire nessuno o tanto meno di sostituirci all'opera paziente degli storici di prestigio, oppure di dare una risposta definitiva a tali domande che però ci auguriamo non risultino solo retoriche.
Altra questione riguarda il “bersagliero” che ferì Mameli, dato, appunto, che certi storici insinuano anche il sospetto che fosse stato ferito da "fuoco amico. Si può affermare senza tema di smentita che fu uno dei bersaglieri di Manara, nella confusione della mischia? E soprattutto a chi e a che giova supporlo, se lo stesso Mazzini che sicuramente su Mameli era informatissimo e si trovava spesso al suo capezzale, ci dice esplicitamente che era “francese” Avrebbe potuto Mazzini “usare” la memoria del suo affezionatissimo “figlioccio” come strumento propagandistico antifrancese, soprattutto se altri testimoni ancora in vita avrebbero potuto smentirlo?
E' vero sì che questa questione resta di poco conto sia rispetto allo sviluppo della storia risorgimentale sia rispetto alla figura complessiva di Mameli, ma il bello (o il brutto a seconda delle prospettive) è proprio capire perché, se è di così poco conto, gli storici vi si accalorano ancora, e per di più cercando di smentire la versione di Garibaldi, facendolo passare per una sorta di “smemorato di Collegno”, quando la sua memoria appare davvero straordinaria e confermata sia da Koelman, che cita come ricordasse tutti i nomi dei feriti con sorprendente precisione, sia da Filippo Zamboni, Comandante del Battaglione Studentesco Romano, nelle sue memorie il quale riporta che in tarda età, quando andava spesso a trovare il Generale ormai convalescente e semi immobile, egli ricordava particolari di quel periodo con una nitidezza a lui ignota e stupefacente. Ma cercando anche di smentire Mazzini che, non poteva non sapere bene e con dovizia di particolari come il suo carissimo Goffredo era stato ferito. A noi, per altro, risulta piuttosto arduo credere che chi guida a cavallo una carica possa essere ferito da chi lo segue, dato che il foro di entrata della ferita, come conferma Bertani, era anteriore e non posteriore alla gamba. 
Pertanto, senza indulgere in inutili e sterili polemiche, restiamo convinti che le versioni di Garibaldi e di Mazzini siano le più veritiere e convincenti, sia per quanto attiene alla concretezza degli eventi storici, sia per quanto attiene al valore e al significato della figura di Mameli.
Pensiamo tuttora che sia giusto credere che colui che era considerato da tutti il “Vate della Repubblica e della Novella Italia” sia stato trascinato nel gorgo della battaglia solo nella sera di quel tragico 3 di giugno, mentre si cercò disperatamente di dissuaderlo per tutta la giornata, considerate le sue condizioni di salute e soprattutto il ruolo che avrebbe dovuto svolgere negli eventi risorgimentali futuri. Non vogliamo credere che sia stato mandato allo sbaraglio nei primi assalti e tanto meno che glielo abbia ordinato il suo Generale Giuseppe Garibaldi.
Cosa resta di Mameli oggi è comunque assai più importante di tale questione, e su questo ci piace concludere questo modesto intervento.
Ci resta soprattutto il suo inno che crediamo si debba tuttora cantare nelle scuole e non solo ogni due o quattro anni insieme a qualche miliardario in mutande che, prendendo a calci una palla, non riesce a procedere, dando valore nel campo dello sport all'Italia, più di un primo girone eliminatorio.
Ci restano le sue opere, non solo quelle giornalistiche e politiche, ma anche le sue poesie che sono tutt'altro che auliche o banali e che, se l'Italia non fosse viziata originariamente da un vulnus clericale perdurante, criptato e trasversale ormai in ogni compagine politica, potrebbero anche arricchire i programmi dei licei più di quelle dell'intramontabile Manzoni, di tutt'altra tempra e stoffa patriottica.
Ci resta soprattutto la sua purissima fede cristiana che pochissimi conoscono e di cui gli storici quasi non parlano affatto, ma che tuttora parla per lui, e che vogliamo ricordare, a conclusione di questo  appassionato ma umile omaggio alla sua memoria:
“Noi siamo cristiani e repubblicani, ed è anzi come repubblicani che veneriamo quanto rappresenta lo spirito del Crocefisso dai potenti. Non è a noi, i cui fratelli di fede furono dati per anni al martirio, che occorre insegnare la religione della Croce. La nostra rivoluzione lo prova solennemente. La croce era profanamente collegata col triregno, e noi, senza toccar quella abbiamo saputo spezzar questo. E anche a spezzar questo esitammo. Pio IX vedeva scorrere il sangue italiano e porgeva la mano all'austriaco. I Romani gemevano e pregavano Dio che gli toccasse il cuore. Pio IX finalmente proclamava non far la guerra all'Austria, non poter essere cogli uomini della libertà. Da quel momento egli non poteva più governare e il principato temporale cadde per intrinseca necessità, senza bisogno di sforzi estrinseci come la foglia inaridita cade dal ramo. I principati sono cosa terrena e perciò passano, la religione è cosa divina e però resta. Chi dice che la religione vien meno colla decadenza del potere temporale dei papi, dice un'empia bestemmia perché è scritto “il Cielo e la Terra passeranno, ma la mia parola non passerà”
E noi crediamo che la Religione si farà più sublime e pura tra noi, liberandosi dai pensieri mondani che si sono infusi in lei come un germe di corruzione: noi crediamo che il Cristianesimo si rinvigorirà dello sviluppo democratico, il quale non ne è che un'applicazione. Il Cristianesimo fu santo quando fu la religione del popolo, e lo ritornerà quando ridiverrà religione del popolo”
A chi dedicare oggi queste parole? Forse a chi ci dice in questi giorni che “I comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana”..
Mameli non era comunista né lo era il governo della Repubblica Romana sebbene preti e bonapartisti (li chiamo così perché ci furono anche francesi che si sacrificarono e morirono a Roma e a Parigi per la Repubblica Romana) li accusassero di essere tali e in balia dell'anarchismo.
Però sui bastioni della Città Eterna, presi a cannonate da quell'esercito benedetto da Pio IX, nei quartieri di una Roma mai più bombardata con tanta frequenza e ferocia nemmeno durante la seconda guerra mondiale, assieme al Tricolore, sventolava la Bandiera Rossa, la bandiera di quei poveri che finalmente avevano avuto per la prima volta non più elemosine, come disgraziati Lazzari o lazzaroni, gettate sotto opulente tavole imbandite, ma una mensa tutta loro, di cittadini degni di creare, con il loro lavoro e il loro sacrificio, il futuro di un Paese libero e degno di giustizia sociale, quella che addirittura, secondo la Costituzione del 1849, riconosceva cittadinanza al migrante. Un solo anno di residenza bastava infatti per essere riconosciuti a tutti gli effetti, cittadini della Repubblica Romana.

Quando vedremo un papa chiedere scusa anche a Mameli ci fideremo ancor di più di lui, quando vedremo una Repubblica Italiana esaltare quei valori per i quali i martiri della Primavera della Patria sacrificarono le loro purissime vite, e non li vedremo invece rinnegati nella mortificazione della sovranità popolare scippata mediante accordi tra consorterie di partito, indegni di una  vera democrazia, quando vedremo che chi disperatamente arriva sulle nostre spiagge potrà senza difficoltà essere chiamato “fratello d'Italia”, quando la difesa dei diritti dei lavoratori non sarà più affidata agli 80 euro dell'elemosina di Stato, dati nemmeno ai più poveri, ma corrisponderà ad un serio programma di rinnovamento sociale e civile basato sulla giustizia sociale, sul lavoro e sulla libertà, quando la politica onesta tornerà a prevalere sull'economia disonesta e speculativa e soprattutto infine quando vedremo questo “volgo disperso" in realtà virtuali, mediatiche, onanistiche ed autoreferenziali, di nuovo “stringersi a coorte”, allora torneremo ancora da Goffredo Mameli a dirgli, più che al soldato Ryan:
  “ Grazie, ti abbiamo meritato”




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