C’ERA
UNA VOLTA IL
BUON IMPRENDITORE
(CHE SALTA ADDIRITTURA I PASTI!)
di
Norberto
Fragiacomo
Va
di moda, oggi, distinguere tra imprenditori buoni e pessimi.
I
secondi – adeguatamente rappresentati dal “caimano” Davide
Serra, l’amico di Renzi che propone di limitare il diritto di
sciopero1
– sarebbero identificabili nei supermanager alla guida di
multinazionali e fondi d’investimento, che storpiano le economie,
“tagliano” popoli interi, vivono di speculazione e non creano
nulla; i “buoni”, invece, corrispondono alla classe dei piccoli e
medi produttori che, stabilmente (?) legati al territorio, sono stati
gli artefici di miracoli italiani reali o presunti, ed oggi appaiono
strozzati dalla crisi.
In
sintesi: finanza
contro manifattura.
Alle piccole e medie imprese, sostenitrici in passato (perlopiù) del
centrodestra, si rivolge l’efficacissima propaganda di Matteo
Salvini, che – appropriatosi di un’inedita dimensione nazionale –
annuncia la riscossa contro l’euro e le tecnocrazie europee, ma
strizzano pure l’occhio molti ideologi della sinistra
extraparlamentare. L’auspicio è quello di un’alleanza fra datori
e forza lavoro, che consenta al Paese di riacquistare un minimo di
prosperità e - prima ancora - di uscire dalle secche in cui la
tecnocrazia europea l’ha cacciato.
Alla
domanda se la strada sia percorribile se ne affianca nella mia mente
un’altra, affatto diversa: è auspicabile,
in concreto, un ipotetico percorso comune? Vale a dire: questo patto
federativo arrecherebbe benefici ad entrambi i contraenti o ad uno
soltanto?
Doverosa
premessa: prima di essere tale, l’imprenditore è un essere umano,
onesto/generoso o disonesto/avido di suo (comunque sia, non
indifferente al denaro). La Storia però ci rammenta che per un Owen
o un Olivetti ci sono stati centinaia di sfruttatori: colpa del caso
o di circostanze oggettive? Può un imprenditore di medie capacità
(le due eccezioni citate erano dei fuoriclasse in odor d’eresia)
permettersi il lusso di far prosperare i propri dipendenti,
garantendo loro alte retribuzioni, libertà e diritti?
Affido
l’onere della risposta ad economisti onesti; in quest’articoletto
mi limiterò a riportare un caso, a mio avviso emblematico.
Sul
Messaggero Veneto del 5 novembre compare un’intervista a Diego
Travan, titolare assieme alla moglie del Gruppo Interna di
Tavagnacco, un’impresa friulana che va forte anche in tempi di
stagnazione (v.
http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2011-03-20/solo-calcio-miracolo-friuli-081523.shtml?uuid).
Il titolo è stuzzicante («Alla
cena di Renzi? Io non ci vado, potrei stare male»),
lo scambio di battute iniziali conferma l’impressione positiva:
Travan è contrario “proprio in linea di principio” alle “cene
degli imprenditori”, perché “sanno tanto di classista”; lui
non è tipo da salire sul carro del vincitore – assicura – e
potrebbe “avere dei conati di vomito” sentendo “qualche
imprenditore o finanziere chiedere di limitare il diritto di
sciopero”. Seguono un durissimo attacco all’imprenditoria
italiana “storicamente prostrata davanti al potere”, l’orgogliosa
rivendicazione di aver sempre mantenuto le distanze dal potere
politico, il commosso ricordo del nonno operaio a Monfalcone (“era
comunista”, precisa) e della propria giovanile militanza marxista.
Il “compagno” Travan, estimatore di Bersani, non lesina critiche
a Matteo Renzi – in cui “c’è tutto e il contrario di tutto”
– e alla penultima domanda, sull’articolo 18, svicola un poco, ma
solo per fare l’apologia del sindacato, che auspica forte e potente
come in Germania.
Verrebbe
da commentare, rasserenati: ecco un imprenditore democratico,
dinamico e spiritoso – l’esatto contrario del “padrone delle
ferriere” che tratta i suoi operai come bestie da soma! La chiusa
dell’intervista, però, spiazza il lettore, e merita di essere
riprodotta integralmente: “Invece di sparare sulla croce rossa
bisognerebbe affrontare le sfide che il processo di globalizzazione,
a mio avviso positivo e importante, pone a tutti noi.
Nessuno,
per esempio, ha il
coraggio di metter mano ai contratti di lavoro
che, per la maggior parte dei lavoratori, garantisce (sic!) tra
ferie, permessi e giorni festivi, due mesi di ferie l’anno. In
Cina o in molti dei Paesi emergenti con i quali dobbiamo competere i
lavoratori fanno due settimane di ferie l’anno.
Questo è il vero problema: dirci con realismo e franchezza che forse
per competere nel mondo dovremmo rinunciare a qualcosa2
(…) avviando un grande sforzo collettivo per tenere il nostro Paese
al passo con i tempi.”
Errata
corrige: il simpatico Travan ha la mentalità del tipico padrone
delle ferriere – pardon: del
tipico imprenditore,
che non va giudicato sulla base del numero dei sottoposti. Per quanto
mi riguarda, nessuna sorpresa: anni fa, ad un incontro organizzato a
Udine dal PSI, avevo udito un manager della Danieli proporre la
medesima ricetta – prolungare gli orari e dimezzare le ferie a
parità di salario (tanto poi, grazie alle “benefiche”
liberalizzazioni, si può andare a far compere la domenica). Allora
reagii con veemenza, sbattendo in faccia al dirigente i valori non
negoziabili di una sinistra degna di questo nome… ascoltandomi, il
tizio assunse un’espressione stupita, più che contrariata, e
immagino che neppure il buon Travan si renda conto che i suoi
suggerimenti sono più “di destra” delle porcate inserite da
Renzi nel famigerato Jobs Act (e non meno punitivi, per chi lavora,
delle sparate reazionarie di un Serra). Più di destra, sostengo,
perché priverebbero il lavoratore di quel poco di esistenza che gli
spetta, condannandolo ad una schiavitù senza scampo che avvalla il
pessimismo di Teognide (“non
nascere è la cosa migliore per
i mortali e
non
vedere mai il triste raggio del sole”), ma in fin dei conti figli della medesima impostazione che ispira la reintroduzione dei controlli a distanza, la libertà di demansionamento e la licenziabilità a capriccio3: in quanto strumento produttivo, il lavoratore deve inchinarsi alle superiori esigenze dell’impresa, e vivere in funzione di essa. Visto che i macchinari non vanno in ferie, perché mai dovrebbe andarci l’operaio?
vedere mai il triste raggio del sole”), ma in fin dei conti figli della medesima impostazione che ispira la reintroduzione dei controlli a distanza, la libertà di demansionamento e la licenziabilità a capriccio3: in quanto strumento produttivo, il lavoratore deve inchinarsi alle superiori esigenze dell’impresa, e vivere in funzione di essa. Visto che i macchinari non vanno in ferie, perché mai dovrebbe andarci l’operaio?
In
realtà, malgrado la sua fede nella globalizzazione, Travan è il
modello di imprenditore cui guarda Salvini: con una sessantina di
dipendenti e un fatturato di 20 milioni l’anno4,
Il Gruppo Interna è un’azienda media, quasi piccola5,
che “opera nel
settore dei progetti di alta gamma destinati all’industria
dell’ospitalità e del contract”
(http://miojob.repubblica.it/aziende/9028Interna_Group/135Chi_siamo),
cioè nell’arredamento di alberghi e boutique di lusso: un made
in Italy di cui
andare orgogliosi, che nulla ha a che fare con le sozzure della
finanza speculativa. L’atteggiamento complessivo nei confronti
della manodopera è tuttavia analogo a quello delle grandi società
transnazionali, e un tanto non dipende da sadismo individuale né
dalla frequentazione dei mercati internazionali, bensì da quella
necessità di accumulare profitti che affratella tutte le imprese
private del pianeta – e il profitto non cresce sugli alberi: è
legato a doppio filo al livello di sfruttamento quantitativo (in
termini di ore lavorate) e qualitativo (in termini di controlli ed
“esigibilità”) delle energie dei prestatori d’opera. La Nestlè
e Mario Bianchi, costruttore edile di paese, potranno avere interessi
contrastanti (e se vengono a conflitto, la prima schiaccerà il
secondo senza manco avvedersene), sicuramente hanno un giro d’affari
incomparabile e operano su scala diversa, ma traggono ambedue la
propria forza da un’unica pozione magica: il plusvalore. Di questo
elisir non esistono surrogati.
Conclusione:
un asse le tra piccole e medie imprese italiane6,
da un lato, e le masse lavoratrici dall’altro contro lo strapotere
della UE, dei mercati ecc. avvantaggerebbe – “a legislazione
vigente”, e nell’eventualità di un esito positivo della lotta –
esclusivamente le prime: a crisi finita, ovvero ad Europa
privatizzata, ci saranno comunque lavoro servile e paghe da fame per
(quasi) tutti. Il discorso cambierebbe se la sinistra, conquistata
l’egemonia tra le forze ostili alla globalizzazione, riuscisse ad
imporre al padronato nostrano una sorta di Magna Charta che sancisse,
ad esempio, limiti insuperabili ai licenziamenti ingiustificati,
divieto assoluto di delocalizzare, partecipazione delle maestranze
alle decisioni aziendali e agli utili, una drastica riduzione delle
disparità stipendiali ecc. La lezione del 1848 francese, registrata
per noi da Karl Marx, andrebbe riascoltata: il rischio di fare i
comodi altrui è sempre in agguato. Fare i propri – come lavoratori
– significa, se non realizzare il Socialismo, apportare tante e
tali modifiche al sistema attuale da mutarne i connotati, creando
comunque un nuovo modello:
se permaniamo in quello vecchio, magari ridimensionato e
“nazionalizzato”, a cambiare saranno i carcerieri, non le catene.
NOTE
1
Ma forse ancor meglio da Mister Eternit Stephan Schmidheiny
(“graziato” iersera dalla Suprema Corte di Cassazione),
malgrado costui abbia incominciato a occuparsi di finanza in età
relativamente tarda.
2
Chissà perché il nostro usa la prima persona plurale in luogo
della terza: nessuno vieta all’imprenditore, se lo desideri, di
lavorare 7 giorni su 7…
3
Perché all’ex compagno imprenditore non garba Renzi, allora?
Forse per incompatibilità caratteriale, forse per quell’eccesso
di spocchia e scomposta aggressività che, a lungo andare (certi
sondaggi negativi suonano come un campanello d’allarme), potrebbe
esasperare gli italiani e contribuire ad incendiare il Paese,
prospettiva certo sgradita al padronato. In molti, ci scommetto,
avrebbero preferito a Palazzo Chigi un Bersani con doti di
comunicatore o un Letta “svelto”… qualcuno, insomma, capace di
“riformare” a fondo il Paese senza isterismi, usando le buone
maniere. Visti anche i precedenti, mi sa che gli toccherà
accontentarsi di quel che passa il convento…
4
V. l’elogiativo articolo de Il Sole24 ORE.
5
La Raccomandazione della Commissione europea n. 1442 del 6 maggio
2003 classifica come “piccole imprese” quelle che impiegano fino
a 50 persone e raggiungono un fatturato di 10 milioni, come “medie
imprese” quelle che arrivano a 250 dipendenti e 50 milioni di
fatturato. Sotto i dieci addetti l’impresa è definita “micro”.
6
Non è per dimenticanza che non ho citato le microimprese, per lo
più a condizione familiare: per molti padroncini, ormai, la
proletarizzazione è un dato di fatto.
La vignetta è del Maestro Mauro Biani
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