L’oscena
(insanabile?) contraddizione
fra aumento della ricchezza globale e crescente povertà dei
cittadini
di
Norberto
Fragiacomo
Cosa
c’è che non va nella ricchezza? Nulla, a parte il fatto che nella
storia umana ha sempre avuto un doppio in cui specchiarsi: la
miseria.
Ne
L’Ideologia
Tedesca
Karl Marx individua uno dei presupposti del Comunismo nello “sviluppo
universale della forza produttiva” (e nelle sue “relazioni
mondiali”): in mancanza di questa precondizione
–
ammonisce – “si
generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno
ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe
per forza tutta la vecchia merda.”
Al
di là del suo carattere profetico – visto che spiega…
scatologicamente,
con cento e passa anni di anticipo, le ragioni del fallimento di
quello che Costanzo Preve definiva “comunismo storico novecentesco”
– la frase dovrebbe infonderci ottimismo e coraggio, inducendoci a
raddoppiare gli sforzi: oggi (assai più che nel 1917) lo “sviluppo
universale della forza produttiva” è un dato di fatto. Le
geremiadi a cottimo di funzionari e chierici del Capitale non possono
nascondere, infatti, che il pieno sfruttamento delle risorse
planetarie mette oggigiorno a disposizione dell’umanità ricchezze
inimmaginabili1
nei secoli precedenti che, se equamente distribuite, garantirebbero
ad ogni essere umano un’esistenza più che dignitosa, cioè il
completo soddisfacimento dei bisogni fondamentali. Se ciò non
avviene è perché qualcuno ha innalzato delle dighe, accaparrandosi
l’acqua che altrimenti potrebbe scorrere liberamente. Esiste una
lampante contraddizione tra il benessere potenziale e il malessere
reale, che dalla periferia va diffondendosi nel centro (gli USA,
l’Europa sotto scacco dei mercati e delle lobby): i tempi sono
maturi per un suo superamento, per una “sintesi” che
consentirebbe al genere umano un nuovo balzo in avanti e forse –
come preconizzato da Gene Roddenberry, l’utopista di Star Trek –
la conquista di remoti
corpi celesti. Da un certo punto di vista, l’arresto della corsa
allo spazio è un altro frutto marcio del crollo dell’URSS:
l’abbandono del contendente ha privato di senso una sfida lanciata
per ragioni di prestigio (cioè di marketing politico). In fondo,
inventarsi i derivati e saccheggiare il patrimonio pubblico, welfare
europeo in primis, richiede minore impegno (e minori investimenti)
che intestardirsi nella ricerca tecnologica
– è per questo che l’ipersonico Hotol, ad esempio, vola
solamente sulle pagine di Dan Brown. A lungo andare toccherà
rimettersi le ali (la maschera Obama ha accennato alla futura
colonizzazione di Marte), ma nel breve-medio periodo il Capitale
ritiene che mangiarsi le terre emerse sia l’opzione più proficua e
meno dispendiosa.
Sto
divagando, tuttavia: volevo parlare - a ruota libera - della
ricchezza. Se il Capitalismo è un fenomeno relativamente recente, la
ricchezza è vecchia quasi quanto la società. In antico essa si
personifica in figure divenute proverbiali: il Creso raccontato da
Erodoto, l’ateniese Nicia, il dives
Marco Licinio Crasso. Riflesso della distinzione aristotelica fra
“economia” (buona, perché favorisce il prosperare della
comunità) e “crematistica” (intesa come incetta smodata di beni,
e perciò da esecrare, in quanto rottura di armonia), l’atteggiamento
degli scrittori classici nei confronti dell’accumulazione è
negativo: la rovina del re della Lidia e la tragica, forse romanzata
morte di Crasso assurgono a monito per chi ardisca oltrepassare la
giusta misura. L’ostentazione dispiace agli antichi, ma qualsiasi
eccesso è malvisto: Plutarco accusa di grettezza il protocapitalista
Catone, che vive frugalmente, amministra di persona i suoi
possedimenti e – in nome della razionalità economica - non esita a
vendere gli schiavi vecchi e malati (“non
vede altro legame tra uomo e uomo, se non quello dell’utilità”).
L’essere (troppo) ricchi è insomma considerato una colpa da cui
emendarsi con condotte ed azioni pubbliche su cui si fonda il
prestigio sociale dell’individuo. A ben vedere, Nicia utilizza
l’influenza che gli deriva dalla ricchezza per ricoprire un ruolo
guida nella politica ateniese, assumendo all’occorrenza incarichi
militari (non sopravvivrà alla sfortunata spedizione siciliana),
Crasso arma a sue spese un esercito per schiacciare la ribellione di
Spartaco: il denaro è niente più che un mezzo per farsi strada, di
per sé non dà alcun lustro e, ove ammassato per finalità
“abbiette”, espone al dileggio - si pensi al volgare Trimalcione
messo alla berlina da Petronio Arbitro.
L’affermarsi
del Cristianesimo non cambia le cose, anzi: la condanna della
ricchezza acquisisce maggiore nettezza, anche alla luce delle parole
del fondatore sulla “cruna dell’ago”. Per quanto l’ideale
comunitario delle origini si perverta in fretta, la Chiesa rincorre
sempre nuovi alibi per giustificare la propria opulenza, e risponde
con scomposta rabbia – indice di coscienza sporca – agli inviti
più o meno imperiosi ad una rigenerazione che provengono, quasi
sempre, dal suo interno (Fra’ Dolcino, Pietro Valdo, i catari
ecc.). Per quanto utile all’istituzione, l’obbediente povertà
dei francescani disturba le alte sfere, perché risuona come un
implicito rimprovero. Il divieto di usura, cioè di prestito a
interesse, riassume quest’ambivalenza nei confronti della
ricchezza, tollerata nei fatti – perché “vantaggiosa” per la
causa cristiana – ma riprovata in linea di principio. Nello
squallido medioevo la tesaurizzazione è un fenomeno sconosciuto:
l’economia curtense si basa sul baratto e sullo sfruttamento della
mano d’opera locale (che non si avvicina neppure lontanamente agli
estremi ottocenteschi), da cui ciascun vassallo trae il necessario
per puntellare, con le armi, il proprio potere. Persino re e
imperatori (da Arrigo VII a Massimiliano d’Asburgo) si dibattono
nella penuria, e la nascente, subito prospera classe mercantile
individua nel denaro non un fine, ma un instrumentum
per nobilitarsi ed eternare il proprio nome (si pensi ai Medici a
Firenze). D’altra parte, in una repubblica schiettamente
plutocratica qual è Venezia, l’elite economica regge lo Stato e
impugna la spada; in realtà affatto diverse, come la c.d. Repubblica
nobiliare polacca, i magnati seguono l’esempio di Crasso e
assoldano eserciti privati per conquistare nuovi possedimenti.
E
poi? Poi tutt’a un tratto il mondo cambia, ed inizia ad affacciarsi
l’idea della ricchezza come valore in sé, come condizione
necessaria e sufficiente per acquisire credito sociale. I capitani
d’industria descritti da Marx e dai romanzieri dell’800 non
ambiscono più a “comprarsi” i gradi di maresciallo o ammiraglio
né a scritturare le vedettes dell’arte: il loro regno è la
fabbrica, lo scopo moltiplicare i profitti (da godersi semmai in
vecchiaia, al riparo da occhi indiscreti). Occupano la scena politica
tramite fiduciari, tendono a ritrarsi nel privato – consacrano la
loro esistenza al “lavoro”, paravento ideologico dietro il quale
occultano una sete di guadagno che non ha precedenti nella Storia.
Improvviso insorgere di una nuova patologia, l’avidità? No, quel
male è presente da sempre… ma ad essere mutato è il mondo, lo
scenario su cui i nuovi protagonisti proiettano le loro ombre
febbrili. L’accumulazione è un ciclo che non si arresta mai, il
motore va alimentato con sempre nuova moneta… chi si ferma, chi
resta a corto di soldi è perduto. Questo ritmo infernale ottunde le
coscienze, stravolge valori (e punti di vista) secolari: il denaro
non è più soltanto strumento, è anche e soprattutto fine. Si è
ricchi perché si è produttivi: se la sterlina è dio, chi la
detiene e la fa fruttare ne è il profeta. Inediti rapporti economici
ridisegnano pian piano la sovrastruttura, ma la tendenza è chiara
sin dal principio: ad ogni giro corso nella ruota l’imprenditore
capitalista smarrisce una parte di sé, prosegue sulla via che lo
porta dritto ad un’alienazione certamente meno traumatica di quella
subita dal lavoratore, ma altrettanto inevitabile – l’alienazione
nel profitto.
Questa forma di nevrosi, di disconoscimento di sé, è l’elemento
caratterizzante la civiltà contemporanea, visto che affligge
l’essere umano anche al di fuori dell’ambiente produttivo,
tramutandolo in un consumatore compulsivo di beni e servizi che, non
a caso, trasmettono l’impressione
della ricchezza. L’acquisto di un SUV a debito da parte
dell’operaio, la stipula di un mutuo trentennale per assicurarsi
“una bella casa”, persino le attese notturne in fila indiana per
l’ultimo modello di smartphone e il viaggio in “isole da sogno”
pagato a rate rappresentano altrettanti omaggi alla cultura
dell’esteriorità e del denaro, oggetto di un’idolatria mai
riscontrata nell’epoca precapitalistica. Nel sentire comune è
andata sedimentandosi l’idea di una coincidenza tra avere e essere
che ha condotto, negli ultimi decenni (più o meno in concomitanza
con la vittoria americana nella Guerra Fredda) ad un completo
sovvertimento dei valori sociali ed allo svilimento integrale della
cultura come valore: l’agognata laurea non è più opportunità di
riscatto, ma di guadagno, e il rampollo dell’industrialotto può
permettersi - col tacito consenso della società - di irridere
dall’abitacolo del suo coupé a 16 valvole l’insegnante che
prende una paga “miserabile”. L’affresco più riuscito
dell’inedita realtà sociale è forse il romanzo American
Psycho
di Bret E. Ellis (1991), in cui il protagonista – giovane,
ricchissimo e sanguinario yuppie – riconosce “amici” e colleghi
dall’abito firmato che indossano. Spersonalizzazione totale,
perdita di qualsivoglia identità… ma anche le spaventose torture,
gli insensati omicidi che nel libro abbondano sembrano in realtà
anticipare, in forma allegorica, le silenziose stragi di popoli
perpetrate da funzionari di FMI, UE ecc. che, fasciati come Patrick
Bateman nei loro completi alla moda, non lasciano impressi nella
memoria delle vittime né i nomi né tantomeno i volti.
Nel
mondo nuovo forgiato da un capitalismo in continua evoluzione il
delitto per eccellenza si chiama povertà: l’appartenenza ai ceti
subordinati è un marchio d’infamia. Fino a pochi anni orsono i più
si illudevano di poter sfuggire a questo destino munendosi di gadget
adeguati: oggi però l’implacabile maglio della crisi frantuma
anche palliativi e false coscienze, mentre il precipitare di milioni
di uomini e donne in un’indigenza mai sperimentata prima costringe
a rimettere in discussione certezze abilmente inculcate.
L’accanimento nei confronti di chi, palesemente senza
colpa,
viene espulso dai rapporti produttivi e dalla cittadinanza attiva
(pensiamo anche alle politiche renziane, pianificate a livello
sovranazionale) sveglia un’indignazione che si credeva morta, e
pone domande inedite su un sistema ed un’elite impermeabili al
dubbio e assolutamente incapaci di autoriformarsi.
L’acqua
si scalda lentamente finché – senza apparente preavviso – entra
in ebollizione: la Storia ci insegna che un tanto vale anche per le
masse umane e le società, e che le previsioni degli esperti – così
come quelle di chi per la prima volta pone una pentola sul fuoco –
danno scarse garanzie di affidabilità.
Da
questa bruma di chiacchiere novembrine emerge un unico fatto certo:
lo sviluppo universale della forza produttiva è, come scrivevo
all’inizio, un elemento assodato. Il futuro può essere nostro,
loro, o appartenere al caos…
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