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martedì 16 dicembre 2014
12 DICEMBRE: UNO SCIOPERO “GIUSTO” A PRESCINDERE di Norberto Fragiacomo
12
DICEMBRE:
UNO SCIOPERO “GIUSTO” A PRESCINDERE
La
CGIL va criticata stando in mezzo ai “suoi” lavoratori, non al
chiuso di una torre sperduta nel deserto
di
Norberto
Fragiacomo
Prima
che andasse in scena, domenica 14, la pantomima piddina – con il
cinepanettone narrativo di Renzi, l’ira (autentica) di Fassina,
l’ennesima replica di Pippo adelante
con juicio
e le tergiversazioni di minoranze assortite – qualcosa in Italia
s’è mosso, e non solo metaforicamente: allo sciopero generale
indetto da CGIL e UIL e appoggiato dall’UGL (!) hanno aderito
milioni di lavoratori, un milione e mezzo dei quali avrebbe dato
vita, secondo le stime, agli imponenti cortei che hanno attraversato
cinquanta città italiane, azzerandone il traffico.
Parafrasando
Giovannino, potremmo anche dire che stavolta la “Grande Proletaria”
s’è messa in cammino, e ha preso la direzione giusta.
Il
dato davvero significativo mi sembra quello citato: tutto il resto
(il fatto che Barbagallo, dal palco, sia stato più incisivo della
veterana Camusso, invocando una “nuova Resistenza”; la solita
battaglia di cifre tra organizzatori e ministero dell’interno e
quella – ben più cruenta – tra attivisti di sinistra e celerini
a Milano, Torino ecc.) è, a parer mio, mero contorno.
Del
serpentone triestino sono stato… una scaglia, e penso di poter dire
che la partecipazione ha oltrepassato le aspettative: la sfilata,
sotto un cielo incoraggiante, di sei-settemila persone per le vie del
centro (stima fatta ad occhio, oltre che “media” fra i conteggi
della questura e quelli del sindacato) vale due feste dei lavoratori
ed è paragonabile, sotto il profilo numerico, solamente alla
dimostrazione del Movimento Trieste Libera di metà settembre 2013.
La scelta, da molti giudicata poco coraggiosa, di ospitare il comizio
conclusivo nell’insufficiente piazza Verdi anziché in piazza
dell’Unità dimostra che, come ben sappiamo, la domanda di
rappresentanza seria è superiore all’offerta, ma non sminuisce il
successo di un’iniziativa realmente sostenuta da chi lavora: capita
di rado che gli uffici pubblici si svuotino per uno sciopero, e
questa volta è avvenuto.
Il
richiamo al MTL, dissoltosi dopo l’effimero exploit di un anno fa,
vuole però essere una sorta di memento:
le mobilitazioni di massa acquistano un significato durevole soltanto
se riescono a veicolare un messaggio, una strategia, un progetto
concretamente attuabile nel breve-medio termine – in caso
contrario, si riducono a eventi di cronaca, ben che vada a note a
margine sugli annali di storia locale.
Questo
sciopero riuscito, seguito dell’altrettanto felice dimostrazione
romana di fine ottobre, è stato proclamato dalla CGIL obtorto
collo:
concordiamo tutti sul fatto che il grande sindacato “riformista”
(nell’accezione cremaschiana di votato alla concertazione e
pienamente compatibile con le esigenze del sistema capitalista)
scende in piazza non tanto per contrastare il Governo Renzi, quanto
per difendere il proprio diritto ad esistere, per garantirsi una
sopravvivenza che il brutale accantonamento della concertazione mette
a rischio – non si spiegherebbe altrimenti la blanda, svogliata
reazione, nella primavera 2012, alle “riforme” montiane,
altrettanto distruttive ma attuate da un premier che mai si è messo
in testa di disconoscere formalmente
il ruolo dei sindacati. Personalizzando all’eccesso, la Camusso non
è rinsavita: è stata messa con le spalle al muro – a
dichiararcelo è il carattere innegabilmente moderato delle sue
richieste (“riammetteteci al tavolo!”), che l’asprezza dei toni
non riesce ad occultare.
L’alternativa
che dunque ci si pone è la seguente: salire su un autobus che
spesso, in passato, ha sbagliato strada (e che potrebbe esaurire la
benzina a metà del tragitto) oppure proseguire a piedi.
La
seconda opzione è quella preferita dall’USB, una combattiva
organizzazione di base che ha boicottato lo sciopero per ragioni
assai diverse da quelle esposte da Cisl e Cisal. Quest’ultima
confederazione ha comprato una pagina del Sole 24Ore per spiegare ai
pubblici dipendenti che «il vero malato grave» non è la Pubblica Amministrazione,
bensì «il datore di lavoro pubblico» (verità inconfutabile), che
«l’ingerenza della politica nella gestione della cosa pubblica»
ha reso «le tante riforme della P.A. invariabilmente inefficaci»
(le cose stanno proprio così) che, «da solo, lo sciopero non basta»
(irrefutabile) e che, di conseguenza… boh, non si sciopera e si
formula l’augurio che il governo e la politica si emendino dai
propri vizi. Insomma, la Cisal spera di vincere la Sisal, la Cisl
neppure quello: per Bonanni e i suoi eredi scioperare è disdicevole
a prescindere.
L’Unione
Sindacale di Base, al contrario, l’arma dello sciopero la
brandisce, eccome! Di recente, ne ha indetto pure uno generale (il 24
ottobre…) e - grazie alla sua forza nel settore dei trasporti -
quando si muove l’Italia se ne accorge: il blocco del trasporto
pubblico locale e dei treni non lascia indifferenti autorità e
cittadinanza. Al pari dei Cobas – che raccolgono molto consenso in
certi ambiti del pubblico impiego – l’USB è dunque un sindacato
che “si sente” ma, tocca aggiungere, si
vede poco:
privo di una capacità di mobilitazione anche solo paragonabile a
quella della CGIL porta in piazza esclusivamente i propri militanti,
determinati ma abbastanza pochi. Nell’era dell’immagine non è un
limite da sottovalutare: un presidio sparuto, per quante ragioni
possa avere dalla sua, resta invisibile al pubblico.
Questa
constatazione (al più una critica al metodo, che non coinvolge il
merito) non sembra turbare granché i vertici dell’USB, che in un
duro comunicato – dal titolo “Uno sciopero a babbo morto” -
hanno attaccato la CGIL alla vigilia dello sciopero del 12. L’analisi
della situazione – bisogna ammetterlo – è ineccepibile: il
sindacato della Camusso si pone l’obiettivo della riconquista della
concertazione, che è peggio del male che vorrebbe combattere, perché
«ha determinato il disarmo unilaterale del mondo del lavoro e la
resa incondizionata al “dio mercato” e ai suoi “sacerdoti”
che governano l'Italia, l'Europa ed i maggiori Istituti finanziari ed
economici mondiali»; inoltre, lo sciopero arriva con estremo
ritardo, a legge delega approvata anche grazie al voto «di Epifani,
di Damiano e delle decine di altri senatori e deputati provenienti
dalla Cgil e in molti casi ancora iscritti a questo sindacato, senza
neanche una “scomunica” formale della Camusso». Il sospetto poi
che alla base dell’iniziativa vi sia un «freddo calcolo per
mantenere rapporti di potere con il maggior partito italiano e allo
stesso tempo cercare di far sfogare con uno sciopero inutile milioni
di lavoratori che giustamente non ce la fanno più a sentire
chiacchiere e prendere schiaffoni senza neanche potersi difendere» è
secondo me eccessivo (la CGIL si batte alla disperata, e di “freddo”
oggi c’è solo il sudore che imperla le fronti dei suoi dirigenti
culturalmente impreparati alla sfida del renzismo – v.
l’illuminante saggio di Giorgio Cremaschi Lavoratori
come farfalle),
ma non assurdo: fosse stata ammessa al tavolo delle trattative, la
confederazione si sarebbe certamente accontentata di irrilevanti
limature al Jobs act, simili a quelle che hanno placato la
sinistra-per-finta bersaniana.
Impostazione
del ragionamento correttissima, conclusioni sbagliate e – per conto
mio – deleterie: «Ciò che poi ci fa inorridire (sic!)
è il comportamento di certa sinistra politica, sociale e sindacale
che pur condividendo questa nostra analisi non riesce a staccarsi
dalla sottana di “mamma Cgil” (o non vuole per altri motivi) e
invece di contribuire a costruire un'alternativa sindacale credibile,
continua a portare acqua ed energie a chi le usa per altri scopi e
non per la difesa del mondo del lavoro».
Orrori
e dietrologie a parte (la psicosi del tradimento è sempre in
agguato, a sinistra), sarebbe forse il caso di riflettere sui motivi
in forza dei quali “certa sinistra politica, sociale e sindacale”
– il PRC, la minoranza cigiellina de Il sindacato è un’altra
cosa ecc. – “pur condividendo quest’analisi” abbia comunque
deciso di partecipare allo sciopero generale. Questi motivi, assai
banalmente, hanno a che fare con il senso della realtà: quale
occasioni migliore per diffondere le proprie idee e le proprie
proposte che un’immensa adunanza nazionale di lavoratori,
pensionati e studenti? Mischiarsi alla folla, intonare un
controcanto, svelare incoerenze e debolezze della monca “proposta”
camussiana… impossibile? Inutile? Provar non nuoce, tenuto conto
del dato che molti dei manifestanti di venerdì scorso e del 25
ottobre ripongono una limitata fiducia nella CGIL (per non parlare
degli altri sindacati “istituzionali”) e sono alla spasmodica
ricerca di risposte più rassicuranti di quella neoliberista nelle
due versioni hard
(Renzi) e very
hard
(troika).
Non
è un caso che l’astuto Lutero abbia affisso le sue 95 tesi sulla
porta della cattedrale di Wittenberg (la “tana” del nemico
cattolico!), non su quella di un casolare sperduto: voleva che
venissero lette, e lo furono. Anche Müntzer predicava le sue
“eresie” in chiesa, e non certo per conciliarsi l’avversario:
lo scopo era dare al proprio messaggio il massimo risalto, e a tal
fine il “pubblico scandalo” riusciva utilissimo.
Il
quesito è: può un’organizzazione piccola ma agguerrita strappare
la guida di un movimento ad un’altra, magari elefantiaca, ma
incerta e spaesata? Può far passare le proprie parole d’ordine e
magari riprogrammare il navigatore, in modo che lo scalcinato bus di
cui sopra non sbagli nuovamente strada? Se la risposta – anche solo
in astratto – è sì, allora boicottare lo sciopero è stato un
errore marchiano… implicitamente riconosciuto dai numerosi
militanti USB che il 12 hanno messo a tacere i loro sacrosanti dubbi
e si sono uniti ai cortei.
Fermare
i treni e il Paese va benissimo - pretendere di arrivare lontano a
piedi, sfuggendo alla meteora della crisi, è roba da illusi.
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