JEREMY CORBYN, IL LEADER CHE NON TI ASPETTI
L’ultimo laburista del ‘900 vince clamorosamente le primarie di partito: forse non ce la farà a cambiare la Gran Bretagna e l’Europa, ma impersona la voglia di giustizia sociale e di eguaglianza espressa soprattutto (sorpresa!) dai più giovani
di
Norberto Fragiacomo
L’outsider stravince (59,5%) le primarie del vecchio e acciaccato Labour Party inglese, lasciando agli avversari le briciole, e la stampa continentale ne prende atto, con un misto di stupore, costernazione e fastidio (1). I più lungimiranti lanciano grida isteriche: ma cos’è successo di tanto grave?
In questa tarda estate del 2015 Jeremy Corbyn sembra uno appena sceso dall’ottocentesca macchina del tempo di H. G. Wells: è piuttosto anziano (66 anni), demodé, barbuto, integerrimo, fieramente e coerentemente anticapitalista. Ha pure una bella faccia simpatica, e un eloquio senza i fronzoli, le battute standard e gli artifici che gli spin doctor apolidi confezionano un tanto al chilo. Sotto ogni aspetto è l’antitesi del tronfio, ridanciano e reazionario Matteo Renzi, ma soprattutto di quel Tony Blair che, dopo il suo disastroso premierato (per i lavoratori inglesi, mica per lui, che ad ogni conferenza raccatta milioni!), si era illuso di aver traghettato una volta per tutte il Labour sulla sponda “giusta”, quella neoliberista.
Corbyn sta in Parlamento da tre decenni, alla perenne opposizione di conservatori e New Labour: fino a qualche mese fa la sua esistenza mi era del tutto ignota, ma gli scampoli di identikit forniti dai media consentono, oggi, di inquadrare una persona che non è personaggio.
In politica economica non è un estremista: semplicemente un Socialista vero, che chiede un aumento della progressività dell’imposizione fiscale (l’opposto della flat tax neoliberista agognata da tanti “antisistema” per finta) e la rinazionalizzazione delle ferrovie britanniche, auspicata due decenni orsono da un indignatissimo Tony Judt (2). Proposte di banale buon senso, cui si aggiungono un pacifismo intransigente e una profonda avversione per il sistema di potere americano imperniato sull’Alleanza Atlantica: Corbyn ha condannato tutte le aggressioni imperialistiche, dall’Irak alla Libia, e non nasconde l’intenzione, se eletto premier, di far uscire la Gran Bretagna dalla NATO. Russia Today riporta, definendole infondate, voci dell’establishment britannico su un sostegno economico russo alla sua candidatura: in realtà il nuovo segretario ritiene – in maniera assolutamente corretta – che gli Stati Uniti rappresentino la maggiore minaccia per l’equilibrio mondiale, e che di conseguenza un avvicinamento alla Russia di Putin sia nell’interesse dell’Europa. Condivido al cento per cento.
Per quanto riguarda l’Unione Europea, l’opinione del barbuto Corbyn sembra essere più sfumata (3): solidale con i greci e contrarissimo all’austerity, rettamente interpretata come uno strumento di oppressione brandito dalle classi dominanti, il leader in bicicletta (vera: a differenza di Renzi, che la sfoggiava quando era inquadrato dalle telecamere, lui usa le due ruote come principale mezzo di trasporto) pare essere dell’idea che quest’Europa – che pure lui detesta per le feroci politiche neoliberiste – possa venir riformata dalla Sinistra. Va rimarcato, in merito, che il fatto di essere britannico e laburista non può non influenzare l’atteggiamento di Corbyn: buona parte del Capitale isolano, e il Governo conservatore che ne è espressione, sono convintamente euroscettici non certo per distinguo ideologici, bensì per il fatto che guardano con interesse all’altra sponda dell’Atlantico. Dunque è più facile per un inglese di sinistra, rispetto a un continentale, confondere la UE con “l’Europa che vogliamo”: le circostanze rendono l’errore maggiormente scusabile.
Tirando le somme, la posizione del vincitore delle primarie sembra avvicinabile, per fare un esempio italiano, a quelle del PRC di Ferrero: immaginiamo per un istante che il buon Paolo, o un esponente di Sinistra Anticapitalista, venga consapevolmente scelto dagli elettori del PD come loro leader e realizzeremo quanto clamoroso, eclatante, “enorme” sia il risultato di domenica 13 settembre.
Questo sia nella sostanza che nella forma: Polly Bojko di Russia Today ha intervistato giovanissimi sostenitori commossi, che esprimevano con passione la voglia di un cambiamento che sia effettivo, radicale. Quale siderale distanza dal giovanilismo indossato da Renzi, dalle mannequin al governo e in Parlamento: i ragazzi svegli scelgono in base alle idee, non alle carte di identità ostentate per nascondere il nulla mischiato a malafede.
Sostanza, dicevamo: Corbyn non ha ancora vinto nessuna elezione, l’unico leader laburista a tendergli cavallerescamente la mano è stato l’ex Ed Milliband (accusato a sua volta di essere “troppo di sinistra”, anche se era una sinistra domestica), gli altri si adopereranno per garantirgli future batoste. Ha di fronte a sé un compito difficilissimo, e ne è consapevole.
Però fa paura: le classi dirigenti d’Albione (e immagino la Clinton, alle prese con un altro “fantasma”: il socialdemocratico Bernie Sanders, che insidia la sua marcia trionfale verso la nomination democratica) sono cadute nel panico, urlando alla “minaccia per la sicurezza nazionale”, niente di meno! Il fatto è che sono rimaste spiazzate, assieme ai principali leader europei social conservatori: dopo la resa senza condizioni di Tsipras si riteneva che l’annichilimento della sinistra radicale europea fosse completo, essendone stati dimostrati velleitarismo e impotenza. Ma il sessantaseienne Jeremy non è l’ambizioso quarantenne Alexis, il secolare Labour non è Syriza e soprattutto la Gran Bretagna non è la misera Grecia: il Regno Unito è ancora una grande potenza economico-finanziaria, e quando batte i pugni sul tavolo europeo, quest’ultimo trema per davvero. Lo ricordate lo sconto preteso e ottenuto sulla contribuzione britannica al bilancio UE? Io sì: non furono una sterlina e una manciata di penny.
La vittoria settembrina del compagno Corbyn potrebbe essere la classica rondine che non fa primavera, ma ci offre comunque un segnale importante: malgrado la disinformazione mediatica, lo scontento si diffonde e dove trova terreno (anche intellettualmente) fertile fa germogliare proposte, che non per caso assomigliano a quelle di un secolo fa – non sono identiche, talvolta appaiono confuse, ma non possono prescindere dai dati acquisiti attraverso la più geniale analisi socio-economica eseguita negli ultimi duecento anni.
Malgrado le volgarizzazioni e i fraintendimenti, il Marxismo si conferma oggi l’unica chiave di lettura disponibile della realtà in cui viviamo, oltre che uno strumento ineguagliabile per smascherare i grossolani falsi ideologici perpetrati da un sistema intrinsecamente disumano e – forse – meno saldo di quanto in genere si creda. - Si dia un’occhiata all’articolo – come sempre indegno di commento – di Gianni Riotta su La Stampa.
- TONY JUDT, L’età dell’oblio. Sulle rivoluzioni del ‘900. Si noti che Judt era un progressista “moderato”, assai critico verso i regimi comunisti dell’est.
- Il mio articolo abbonda di “sembra” e di “pare”, ve ne sarete accorti: il motivo è la mancanza di informazioni di prima mano. In parole povere, sto facendo un collage di citazioni e pezzi giornalistici.
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