Rivoluzione industriale 4.0 e Medioevo insorgente di Riccardo Achilli
Il dibattito sull’automazione ed i suoi effetti lavoristici e sociali sta avendo una rinascita, in corrispondenza con quella che sembra prospettarsi come una nuova rivoluzione tecnologica pervasiva, fatta essenzialmente di sviluppi nei settori della intelligenza artificiale, della produzione, uso e distribuzione sostenibile dell’energia, delle biotecnologie e della progettazione digitalizzata in 3D. Qualcuno chiama “Rivoluzione Industriale 4.0” questa ondata tecnologica imminente, che riconfigurerà completamente gli assetti produttivi, occupazionali, sociali e politici del mondo.
Naturalmente non mancano
i cantori dell’ottimismo, appositamente convocati per preparare il
campo a questi sconvolgimenti che saranno, per chi dovrà viverne la
fase di transizione (cioè noi) devastanti non meno di quelli che
hanno accompagnato la prima Rivoluzione industriale. Nel campo della
green economy, si va da chi, come Jeremy Rifkin, immagina un futuro
di “produzione democratica” di energia da parte di autoproduttori
individuali proudhoniani, che si scambiano energia fra loro in una
rete in cui nessuno può assumere una posizione oligopolistica,
all’idea che l’innovazione tecnologica in materia energetica
possa risolvere il riscaldamento globale (quando probabilmente il
problema è quello, da un lato, di preparare le contromisure nei
confronti di un fenomeno già in atto e non reversibile, e dall’altro
di preoccuparsi di problemi ambientali altrettanto se non più gravi,
come l’eccessiva impronta idrica ed alimentare). La progettazione
in 3D vede altrettanti cultori dell’idea neo-proudhoniana della
“democrazia progettuale”, in cui gruppi di giovani in blue jeans
e senza capitali produce innovazioni tecnologiche nel garage di casa.
Le biotecnologie navigano su un’onda che è preoccupante sotto il
profilo filosofico, prima che tecnologico, ovvero sull’idea della
“costruibilità” e della producibilità e modificabilità
manifatturiera della vita stessa, sull’onda dei microrganismi
ibridi di Craig Venter, oppure degli Ogm. Idea che a mio parere si
rivelerà fallimentare, perché la vita, il cui concetto stesso
sfugge ad una definizione specificamente scientifica (la stessa
definizione più avanzata della vita, quella di Schroedinger, basata
sul disequilibrio energetico stazionario e la capacità di sintesi
dall’ambiente esterno, è più che altro una osservazione delle
proprietà termodinamiche e chimiche della vita, non una sua
spiegazione) è qualcosa che va al di là del volgare bric-à-brac
del DNA cui pensano i genetisti. Però questa idea, per quanto
fallimentare, modifica profondamente il concetto di vita, riducendolo
ad un processo manifatturiero. La vita, spogliata della sua aura di
sacralità e mistero, diverrà un prodotto da supermercato
disponibile “on-the shelf”, e gli effetti sulle relazioni sociali
ed umane saranno devastanti, improntati a cinismo e crudeltà.
Ovviamente sfugge a tutte
queste visioni ottimistiche un semplice concetto: dentro una società,
l’innovazione tecnologica non è neutra. La direzione che essa
imprime dipende dalle relazioni sociali e dai modi di produzione che
la generano e la assimilano. Per fare un semplice esempio, la
tendenza spontanea dell’accumulazione capitalistica verso forme di
oligopolio smentirà, con ogni probabilità, le fanfalucche della
“democrazia energetica” o “dell’autoprogettazione
partecipata”, forme che probabilmente si esauriranno nelle prime
fasi di varo delle innovazioni in materia energetica o di
progettazione in 3 D.
Focalizziamoci sul
dibattito relativo allo sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Dove perlomeno i termini del dibattito si pongono in misura più
chiara e cruda. Da un lato, si riconosce che la robotica, al culmine
del suo sviluppo, non sostituirà le professioni basate sulla
creatività e, più in generale, sulla necessità di fare scelte di
fronte ad eventi imprevedibili ex ante, o di assumere decisioni
etiche sulla base di un sistema di principi personale. Questo perché
l’intelligenza artificiale, anche la più avanzata, si basa su un
modello matematico, e come tutti i modelli matematici sottostà al
teorema di Goedel, per il quale un sistema matematico non può essere
al contempo completo e coerente. Se si vuole coerenza, occorre
sacrificare la completezza, cioè la capacità di reagire a eventi
non modellizzabili ex ante nel sistema di algoritmi della
cyber-intelligenza. E ciò impedisce che le macchine acquisiscano la
coscienza di sé e quindi il libero arbitrio, poiché esso implica la
libertà di lavorare per il completamento di un sistema
matematicamente coerente. Come afferma Kant, se si vuole costruire un
sistema di pensiero che includa anche le idee trascendentali, ovvero
quelle che fuoriescono dall'utilizzo empirico della ragione, si
finisce per cadere nell'indeterminatezza. Ed un sistema matematico
non può cadere nell’indeterminatezza senza cessare di funzionare.
Già questo dovrebbe servire per riaffermare l’unicità del mistero
della vita, e in specie di quella umana, in grado di funzionare in
forma non-algoritmica, e quindi di incorporare l’incoerenza nel suo
sistema di pensiero senza cadere nella paralisi delle funzioni
intellettive.
D’altro lato, però, si
riconosce che l’intelligenza artificiale applicata alle macchine
comporterà un processo gigantesco di soppressione di lavoro,
eliminando tutti quei mestieri ripetitivi, routinari, completamente
controllabili da un soggetto terzo, o dove la possibilità di scelta
è limitata entro un campo di opzioni controllabili e replicabili:
dall’operaio in catena di montaggio al soldato di truppa, passando
per l’addetto al telemarketing, o l’impiegato dell’ufficio
anagrafico del Comune, fino al tassista o al camionista. E qui
naturalmente si apre la questione, storicamente dibattuta da tutte le
grandi menti da almeno due secoli: la soppressione del lavoro
necessario aprirà una nuova alba per l’umanità, in cui diverremo
tutti dei cultori dell’arte e della letteratura nel nostro tempo
libero, oppure un incubo simile a quello di Huxley, dove una élite
tecnocratica (magari geneticamente controllata) dominerà su un mondo
di macchine e di reietti?
Ci sono tante angolature
per rispondere a tale domanda, ad esempio chiedersi, sotto un profilo
filosofico ed antropologico, se l’uomo possa esistere senza
applicare la sua energia ad un lavoro, non meramente intellettuale,
ma di trasformazione del suo ambiente. Il lavoro nell’ambiente
esterno corrisponde ad una istanza psicologica fondamentale
dell’uomo, senza la quale l’umanità potrebbe degradare verso
psicosi di massa difficilmente immaginabili? C’è poi l’angolatura
sociologica. E su questa occorrerebbe partire dal presupposto che le
evoluzioni del mercato del lavoro indotte dall’intelligenza
artificiale avvengono all’interno di un modo di produzione
capitalistico. Sarà anche capitalismo 4.0, ma le regole
dell’accumulazione capitalistica continuano a valere, al fondo.
Perché il lavoro è sempre lavoro “sociale”, determinato cioè
da un modo di produzione collettivo, non mero lavoro “necessario”
alla mera riproduzione fisica del produttore. E allora facciamo
riferimento a chi il capitalismo lo ha analizzato a fondo, ovvero a
Marx. Nello specifico, al “Frammento sulle macchine”, dei
Grundrisse.
In questo capitolo di
poche pagine, estremamente condensato e di difficile lettura, che
Marx stesso aveva scritto come bozza preliminare in vista di uno
sviluppo più organico della riflessione nel rapporto fra capitalismo
ed automazione, si trovano profezie straordinariamente azzeccate.
L’automazione supera di gran lunga il restrittivo concetto di
“strumento di lavoro”, poiché mentre quest’ultimo è
controllato dalla volontà e dalla perizia del lavoratore, la
macchina media direttamente il rapporto fra la perizia professionale
ed il lavoro, riducendo il lavoratore ad un organo della stessa,
sicché si ha la massima sussunzione possibile del lavoro vivo nel
lavoro oggettivato nelle merci che produce: non soltanto la classi
alienazione da plusvalore che si realizza nel momento in cui
l’oggetto del lavoro è stato prodotto e prelevato dal capitalista,
ma addirittura a monte, nello stesso processo produttivo, dove il
valore oggettivato della macchina supera di gran lunga il valore che
può essere apportato dalla forza-lavoro vivente, grazie allo
straordinario aumento di produttività che la macchina consente di
ottenere.
Di conseguenza,
l’incentivo dato dall’enorme sviluppo della produttività genera
un riassorbimento del progresso scientifico e tecnico dentro l’alveo
del capitale e dei suoi meccanismi di riproduzione: “l’accumulazione
della scienza e dell’abilità, delle forze produttive generali del
cervello sociale rimane così, rispetto al lavoro, assorbita nel
capitale, e si presenta perciò come proprietà del capitale”. E
quindi “non è più nel lavoro, ma nel capitale, che si esprime il
lavoro generalmente sociale”.
Queste previsioni hanno
un riflesso enorme nella realtà sociale attuale: il riassorbimento
della coscienza di classe dentro i paradigmi del capitalismo ne è la
conseguenza, poiché il lavoro vivo del proletario diviene sempre più
strumentale a quello della macchina, anche quando si tratta di un
tecnico che controlla il funzionamento della macchina stessa. Il
lavoro sociale si trasforma sempre più in un proletariato del
general intellect, che non vende più la sua forza-lavoro fisica,
come l’operaio tradizionale, ma la sua energia intellettuale
arricchita dalle competenze acquisite nel percorso di formazione.
Dovendo lavorare dentro contesti produttivi di rete, di tipo
orizzontale e non verticale, essendo sottoposto al precariato come
forma di disciplina del lavoro che non può più essere garantita dai
contesti disciplinari tipici del fordismo, oggettivando il proprio
lavoro in un prodotto intellettuale o creativo, il proletario del
general intellect tende a cadere in un processo di “astrazione del
lavoro”, perché il tempo di lavoro direttamente impiegato tende ad
essere un sottomultiplo del valore oggettivato dal prodotto, grazie
all’incremento di produttività. La differenza risiede nel valore
di lavoro “astratto”, intellettuale, necessario per ricondurre le
forze della scienza verso l’aumento della produttività. In questo
modo, detto proletario cognitivo tende a perdere la percezione del
rapporto fra il suo valore-lavoro e il valore del prodotto , e quindi
si allenta la percezione del suo ruolo subordinato “collettivo”
dentro il processo produttivo, acquisendo schemi meritocratici,
intimamente individualistici, che ne distruggono la percezione di
classe. “In questa trasformazione, non è né il lavoro immediato,
eseguito dall’individuo stesso, né il tempo che egli lavora, ma
l’appropriazione della sua produttività generale, la sua
comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua
esistenza di corpo sociale – in una parola, è lo sviluppo
dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di
sostegno della produzione e della ricchezza”.
Perciò, avverte Marx, i
cultori dell’ottimismo sociale legato all’automazione produttiva
sbagliano profondamente. “E’ quindi una frase borghese
assolutamente assurda – scrive – quella che l’operaio ha
interessi comuni con il capitalista perché questi, con il capitale
fisso (…) gli agevola il lavoro o gli abbrevia il lavoro (…) le
macchine non intervengono a sostituire forza-lavoro mancante, ma per
ridurre la forza-lavoro presente in massa alla misura necessaria.
Solo dove la forza-lavoro è presente in massa intervengono le
macchine”. Ed eccoci al cuore della disoccupazione generata
dall’automazione industriale e, più di recente, dallo sviluppo
dell’intelligenza artificiale.
La disoccupazione
tecnologica, nella logica marxiana, è però un passaggio, seppur
doloroso, verso una società superiore. Naturalmente, Marx vede in
tale processo la base per il superamento, a lungo periodo, del
capitalismo. Per diverse contraddizioni dialettiche insorgenti:
- Il capitale fisso, con l’incremento di produttività che genera, riduce il lavoro umano diretto ad un minimo. Ciò rappresenta la “condizione dell’emancipazione del lavoro”, per Marx: di fatto,, il capitale, essendo valorizzato sotto forma di tempo di lavoro (vivo e morto) riducendo al minimo il tempo di lavoro necessario, produce una auto-svalorizzazione;
- Cambiano le condizioni stesse per l’accumulazione di capitale: “non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la più grande fonte di ricchezza (perché soppiantato dal lavoro “intellettuale”, nda) … il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo”, perché “il furto del tempo di lavoro altrui, su cui si basa la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è creata nel frattempo”.
Da queste contraddizioni,
si genera il crollo della produzione generata dal valore di scambio,
mentre si amplia lo spazio temporale dedicabile allo sviluppo
intellettuale, artistico e culturale del singolo individuo, generando
quindi una fuoriuscita dallo sfruttamento, dall’alienazione e dalla
miseria, materiale e spirituale, del capitalismo.
Evidentemente, poiché il
lavoro in Marx non è meramente “necessario”, ma “sociale”,
occorre che tali contraddizioni generino la forza sociale in grado di
imprimere una svolta positiva alla fase di “automazione” del
capitalismo. Perché se la fase “cibernetica” del capitalismo
produce contraddizioni potenzialmente esiziali, occorre sempre, nel
processo dialettico, una forza che diriga tali contraddizioni verso
una sintesi superiore di tipo socialista. Occorre cioè che le forze
del general intellect producano un nuovo lavoratore sociale, il
“lavoratore collettivo cooperativo associato”, “alleato delle
potenze mentali, tecniche e scientifiche del capitale”. Non più la
classe centrale del proletariato operaio fordista, ma, per dirla con
Costanzo Preve, “il soggetto intermodale di cui parlava Karl Marx
non era la semplice classe operaia e proletaria (tesi paradossalmente
'estremistica' del moderato Kautsky), quanto il lavoratore collettivo
cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo
manovale”.
In questa interpretazione
di Marx, si coglie una grande verità, purtroppo però rovesciata. Lo
sviluppo del capitalismo ha, in effetti, prodotto un “soggetto
intermodale”, ma lo ha prodotto dal versante dei valori del
capitalismo, non da quello dei valori socialisti, sicché “dal
direttore di fabbrica all’ultimo manovale” il riferimento
valoriale prevalente è quello dell’uomo unidimensionale di
Marcuse. La fine dell’antagonismo sociale profetizzata da Marx nei
Grundrisse e sopra citata avviene dal lato della resa ai valori
dominanti, non della resa del capitale. Se la riduzione del lavoro
necessario, grazie all’automazione, svalorizza il capitale fisso,
l’attività lavorativa del general intellect lo rivalorizza su
livelli enormemente superiori rispetto al capitalismo delle ferriere,
proprio perché, come Marx riconosce, il general intellect entra
dentro il capitale fisso, come sua componente integrante.
Lungi da uno scenario di
liberazione individuale e di socialismo, lo sviluppo
dell’intelligenza artificiale ci porterà ad uno scenario cupo, un
nuovo Medio Evo, dentro il quale le contraddizioni generate
dall’introduzione delle macchine si risolvono in una nuova
stratificazione sociale irrigidita, che abbandonerà anche il mito
liberista del “self made man”, che raggiunge il vertice grazie
alle sue abilità lavorative e il suo coraggio. Avremo piuttosto una
società divisa in caste impenetrabili, al cui vertice si collocherà
una élite tecnocratica e dotata dei capitali per sviluppare
l’innovazione, “blindata” da saperi scientifici esclusivi e
dotazione di risorse finanziarie. In mezzo, una casta di tecnici
addetti al controllo, alla supervisione ed alla manutenzione dei
macchinari, insieme ad un proletariato cognitivo che lavorerà per lo
sviluppo e l’applicazione di innovazione tecnologica sotto le
direttive generali dell’élite. Ed alla basa, una grande massa di
diseredati, privati degli strumenti cognitivi per ascendere, oramai
inutili perché soppiantati dalle macchine nei lavori manuali o
ripetitivi. Destinati ad essere eliminati da miseria e deprivazione,
nel deserto fuori dalle mura delle cittadelle, vittime della carenza
di risorse alimentari ed idriche verso il quale sembra andare il
pianeta, saranno oggetto di un neo malthusianesimo.
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