L'AUTOMA E IL CAPITALE
di
Norberto Fragiacomo
Qualche giorno fa, rientrando a casa dopo un interminabile pomeriggio d'ufficio, ho casualmente orecchiato una discussione radiofonica tra il conduttore e due ospiti di un programma, uno dei quali era un giornalista di Repubblica che di cognome fa Staglianò e, a quanto pare, scrive libri di futurologia.
Parlavano dell’ormai
prossimo passaggio di consegne fra lavoratori umani e robot, e mi è sembrato di
capire che si alludesse non soltanto agli operai, ma pure a impiegati di
concetto destinati alla “rottamazione”. Risultiamo superati, tutti.
Mentre il secondo ospite (credo, o forse era il conduttore) esultava per il
tempo libero che avremo presto a disposizione, Staglianò esprimeva forti
preoccupazioni per una svolta che ritiene comunque inevitabile: se non si hanno
soldi da spendere, il bene tempo perde molto del suo valore – ha osservato –,
l’unica proposta sensata sarebbe quella di introdurre un salario minimo per
quanti, “licenziati” dalle macchine, saranno espulsi dal mondo del lavoro.
Un’espulsione – intendeva – definitiva e riguardante la maggioranza della
popolazione.
La Rivoluzione dei cyborg,
in parole povere. E’ davvero imminente?, mi sono chiesto. Non sono un esperto
di robotica né uno scienziato, ma credo che sì, potrebbe succedere qualcosa del
genere, dal momento che le tecnologie sono già disponibili. In astratto,
dunque, la citata rivoluzione è possibile, persino probabile. In concreto le
cose potrebbero andare ben diversamente. Faccio un esempio: alla fine degli
anni ’80 si faceva un gran parlare di avveniristici aerei-razzo capaci di
volare a mach 5 o 6 e magari di sganciare missili nucleari dalla stratosfera.
L’inglese Hotol, il gigante sovietico Tupolev 2000: non erano fantasie, ci si
stava alacremente lavorando. Tuttavia non volarono mai, se non (l’Hotol) nelle
pagine di Dan Brown. Finita la Guerra Fredda, l’esigenza di super-armi venne
meno, e l’idea di convertire gli spazioplani in via di sviluppo all’uso civile
(per cui erano stati ufficialmente concepiti, almeno in Occidente!) fu
giudicata non abbastanza conveniente. Pertanto oggi, nel 2016, voliamo su
aeromobili dalle prestazioni paragonabili a quelli di mezzo secolo fa, e il SAC
si affida agli antidiluviani B52. Le ragioni dell’economia prevalgono su quelle
dello sviluppo tecnico, e i romantici (quelli che da bimbi si appassionavano a
Spazio 1999 e poi s'imbatterono nel genio di Bartini, il "Conte
Rosso") restano delusi: la realtà è prosaica.
Ad essere onesti, è (quasi)
sempre stato così. Quella ellenistica (dalla morte di Alessandro Magno
alla conquista romana) fu un’epoca di straordinarie scoperte ed invenzioni:
risulta che tale Erone abbia realizzato un modello di macchina a vapore, mentre
il tarantino Archita faceva volare la sua celebre colomba meccanica e Dionisio
di Siracusa festeggiava il varo di una corazzata (a vela e remi) lunga 75 metri. Le magie di Archimede e certi meccanismi
complicatissimi ripescati dal Meditteraneo ci suggeriscono che i tempi erano
maturi per una rivoluzione industriale ante litteram, che però non ebbe
luogo, malgrado l'elevata capacità delle manifatture di standardizzare i
prodotti (si pensi agli equipaggiamenti dell'esercito imperiale romano),
eguagliata appena nel diciottesimo secolo. La risposta all'immancabile
"perché?" è semplice: gli schiavi, fondamento di quel sistema
produttivo, bastavano alla bisogna. Dacché il mondo esiste, le elite finanziano
ciò che loro serve, non ciò che ci piace: pittori e scultori rinascimentali
furono artisti sublimi, ma se il Papato quattro-cinquecentesco non avesse
inteso trasmettere un certo tipo di messaggio alla cristianità (già in crisi)
si sarebbero probabilmente adattati a riparare muriccioli in campagna.
Il quesito in sostanza è
semplice: cui prodest l'automatizzazione del lavoro? In linea teorica
sarebbe gradita ai lavoratori stessi, che potrebbero destinare il sovrappiù di
tempo libero all'autorealizzazione - l'obiezione di Staglianò è tuttavia
validissima, un disoccupato senza mezzi sopravvive (se ci riesce) alla giornata.
Alle imprese sufficientemente fornite di capitale, allora? Non ne sono troppo
persuaso. Certo, rispetto all'uomo un cyborg di ultima generazione presenta
molteplici vantaggi competitivi: "mangia" di meno, non necessita di
riposo, garantisce una maggiore produttività e, in ultima analisi, costa meno.
Sbattere fuori dal mercato le aziende tradizionali, riducendo all'inattività le
loro maestranze, sarebbe un gioco da ragazzi... ma poi? Ci è stato insegnato -
e nessuno ha mai contraddetto convincentemente l'assunto - che il profitto
dell'imprenditore sorge dal consapevole, "fisiologico" abuso della
manodopera, pagata quanto è necessario ad autoconservazione e riproduzione ma
sfruttata per un maggior numero di ore; che il plusvalore estratto può essere
assoluto oppure relativo e che la seconda voce è collegata all'impiego di
macchinari, che consentono una prestazione più intensa; ma è stato pure provato
che "approfittare" degli automi è impossibile. Emergono dunque due
problematiche, tra loro interconnesse: la prima è che l'impiego generalizzato
di robot azzererebbe il margine di profitto, con ovvie ripercussioni sul
capitale; la seconda è che il crollo dell'occupazione determinerebbe una
spaventosa caduta dei redditi, annientando la domanda di beni. A che mi serve
un golem che produce come 10 uomini costandone un quinto se poi i
succosi frutti della sua "fatica" giacciono invenduti? Certo, un
reddito di cittadinanza (a carico di chi? del fossile di uno Stato in via di
sparizione... ma dove troverebbe l'ente le risorse indispensabili? mistero)
risolverebbe il secondo problema - il primo, in ogni caso, seguiterebbe ad
angustiare gli honestiores. Si porrebbe la questione di ricavare
plusvalore dai consumatori, ma come fare? Il sussidio di cittadinanza -
chiamiamolo per nome, senza ipocrisia - dovrebbe essere appena sufficiente a
sostentamento e consumo di beni "per tutti" di dubbia qualità, mentre
gli oggetti e i servizi pregiati verrebbero riservati alle classi alte. Nulla
che non si sia già visto: citiamo, a mo di esempio, il junk food
americano - tuttavia se i prodotti di scarto venissero venduti al prezzo di
costo nessuno ci guadagnerebbe mentre se, al contrario, i prezzi venissero
ritoccati verso l'alto una quota rimarrebbe invenduta. Un cane che si ingozza
con la sua coda. Certo, la globalizzazione offre a chi abbia attitudine ad
operare in ambito sovranazionale rimedi efficaci, se non altro nel breve
periodo: un paio di scarpe sportive prodotte in India per pochi spiccioli da un
bambino-schiavo viene poi venduto allo svanito cliente europeo per 60-70 euro.
Anche tenendo conto delle spese di spedizione il guadagno è mostruoso, al pari
del crimine che lo rende possibile. Nei Paesi relativamente più ricchi si
potrebbe quindi quantificare il reddito-sussidio minimale sulla base dei prezzi
locali, e poi concentrare la produzione di consumo in aree del globo arretrate,
ma... come sostituire il bimbo da spremere? Si potrebbe optare per macchine più
scadenti ed economiche, che sarebbero in ogni caso anche meno efficienti.
Per queste ragioni e per
molte altre (si tenga presente che oggidì il lavoro in fabbrica, in ufficio o
nei call center svolge pure una funzione "educativa", giacché
abitua alla docilità e svuota di energie fisiche e mentali, facilitando il
controllo sociale) reputo verosimile che una siffatta
"espropriazione" del lavoro non avverrà a breve, e sarà casomai
parziale. Vedo ben altri rischi all'orizzonte; di sicuro, i fantasmi dei
dipendenti-robot andranno a costituire una centuria (virtuale) dell'esercito di
riserva, e potranno essere utilmente impiegati per giustificare un ulteriore
abbassamento del costo del lavoro e nuove sforbiciate ai diritti.
La prognosi è quindi
riservata, ma mi permetto di aggiungere qualche considerazione finale. La prima
è che il capitalismo, cresciuto grazie alle macchine, potrebbe trovarsi
costretto - oggi - a ripudiarle. Sarebbe, a mio avviso, un indizio di
senescenza: la contraddizione tra le esigenze di uno sviluppo tecnologico
"a tutto campo" - non limitato cioè a particolari ambiti - e quelle
di non affossare il guadagno costituisce un pericoloso (per il Capitale, si
intende) elemento di novità, poiché segnala che la spinta propulsiva di un
modello produttivo "vincente" in quanto frenetico si va esaurendo. Il
predatore diviene parassita a tutti gli effetti, ponendosi come ostacolo al
"progresso", mentre il profitto diventa indistinguibile dalla
rendita.
C'è un ulteriore aspetto: se
ragioniamo a mente fredda, senza dare eccessivo peso a certe suggestioni
cinematografiche, dobbiamo concludere che la progressiva meccanizzazione del
lavoro sarebbe – a determinate condizioni - un formidabile strumento di
affrancazione dell'umanità dal bisogno. Sua conseguenza non sarebbe la crapula
o la pigrizia generalizzata, bensì il fruttifero otium esaltato dagli
antichi romani (da quelli che, come Cicerone, potevano permetterselo). Mi sento
di affermare che una simile trasformazione rivoluzionerebbe il concetto stesso
di lavoro, rendendo finalmente attuabile l'articolo 4 della nostra Carta fondamentale
nella parte in cui prevede il dovere, per ogni cittadino, “di svolgere,
secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione
che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Un
liberista e un socialista, infatti, attribuiscono allo stesso termine due
significati antitetici: per l'uno il "lavoro" è sinonimo di
produttività, salario e obbedienza, per l'altro si configura come il libero
contributo – materiale o di pensiero - offerto dal singolo al benessere della
società.
La tecnologia è attualmente
in grado di moltiplicare a dismisura la ricchezza disponibile, ma le scelte sul
come distribuirla toccano agli esseri umani - e finché permarrà questo stato di
cose essa non potrà che essere penalizzante per la stragrande maggioranza di
noi.
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