IL SUDAN DEL SUD:
L'ENNESIMO ESPERIMENTO NEOCOLONIALE
di Riccardo Achilli
E’ di questi giorni l’esplosione
di violenti scontri nel Sudan del Sud, che hanno fatto circa 300 morti, ivi
compresi alcuni caschi blu cinesi. Si tratta in buona sostanza della
prosecuzione della guerra civile del 2013, fra i due leader tribali più importanti,
il Presidente Kiir, un bizzarro buontempone permanentemente con un cappellaccioda
cow boy in testa, di etnia dinka (la più importante numericamente, si tratta di
pastori semi-nomadi animisti, ma largamente cristianizzati) ed il vice
Presidente Machar, di etnia nuer (il secondo gruppo più importante, in un Paese
diviso in circa 60 etnie, noto per gli studi antropologici svolti sulle
particolari forme di proprietà del bestiame dei clan).
Capire cosa ci sia dietro questo
conflitto equivale a risalire alla storia del Sudan. Pochi sanno che, ancora in
piena guerra fredda, il Sudan allora unito è stato un banco di prova del
conflitto globale fra Occidente ed islamismo radicale, che avrebbe infiammato
il mondo dopo la caduta del muro. Costituito come Paese unitario in sede di
decolonizzazione, con alla guida le tribù del Nord di religione musulmana, il
Sud, animista e di caratterizzazione culturale sub-sahariana, cui il nuovo
Governo di Khartoum nega un progetto di federalismo precedentemente promesso,
insorge nel 1955 per paura di ritrovarsi privato di ogni influenza nel futuro.
Esplode quindi la prima guerra civile, che durerà per ben 17 anni, producendo
effetti catastrofici: 500.000 morti, quasi tutti civili, centinaia di migliaia
di profughi che contribuirono a destabilizzare gli Stati vicini dell’Uganda,
dell’Etiopia e del Centrafrica, le infrastrutture e le città coloniali
britanniche distrutte. In realtà, dietro al conflitto vi sono Israele ed i
Governi allora filo occidentali dell’Etiopia e dell’Uganda (lo spostamento a
sinistra di Obote avvenne infatti molti anni dopo) che cercano di indebolire
Karthoum, il cui spettro politico è caratterizzato da una forte presenza dei
comunisti (che riusciranno a prendere il potere per un breve periodo nel 1971).
E d’altra parte, a seguito di un colpo di Stato militare, dal 1969 il Sudan
finisce sotto il controllo di un gruppo di ufficiali guidato dal colonnello
Nimeiry, inizialmente animato da ideali nasseriani e pan-arabisti ed alleato di
Gheddafi, assistito economicamente e militarmente dall’Unione Sovietica.
Il conflitto, sopito nel 1972 a
seguito di un accordo di pace che concede qualche limitata autonomia
amministrativa al Sud, riesplode nel 1983, ma in un quadro completamente
cambiato. Da un lato, fra 1979 e 1981 vengono scoperti enormi giacimenti
petroliferi nel Sudan del Sud ed il regime di Nimeiry cerca con ogni mezzo di
controllare tali risorse, costruendo le strutture di raffinazione nel Nord, e
dirigendo verso il Nord gli oleodotti che partono dai campi petroliferi del
Sud. Ciò lo mette in contrasto con le compagnie petrolifere occidentali, e
quindi con la ex potenza coloniale britannica, la Francia e gli USA. D’altro
canto, l’ex nasseriano Nimeiry, per sopravvivere al potere, aveva cambiato
notevolmente l’asse della propria linea politica, integrando dentro il governo
i partiti islamici (ivi compresa la branca sudanese dei Fratelli Musulmani,
guidata dal potente imam Al-Tourabi) cambiando la Costituzione per introdurre
la sharia con applicazioni di livello talebano (legge del taglione, velo
obbligatorio per le donne, ecc. ecc.), fino a proclamare il Sudan “Repubblica
Islamica” nel 1983.
La crescente influenza islamica
inquieta gli USA, allora già scottati dalla Rivoluzione iraniana, preoccupa
Israele, che vede il Sudan come il retroterra per il rifornimento e
l’addestramento delle forze palestinesi dell’OLP che combattono nel Sinai
all’epoca controllato dallo Stato ebraico. Ma soprattutto riattizza il
conflitto con le popolazioni cristiane ed animiste del Sud. I leader musulmani
di Karthoum non fanno mistero di voler fare una sorta di “crociata” per
islamizzare tali popolazioni, e ciò ne alimenta la storica paura di perdere
ogni autonomia sulle proprie terre. Nel 1983, quindi, da una serie di
ammutinamenti nelle caserme dell’esercito governativo nel Sud, nasce la Spla,
ovvero l’Esercito sudanese di liberazione popolare, guidata dal colonnello John
Garang, dichiaratamente anti-islamico, non secessionista e di simpatie
socialiste (sarà infatti supportato dal governo comunista etiope di Menghistu)
che, in nome di un Sudan unito, popolare e non islamico, inizia la guerra
civile, attaccando le basi meridionali dell’Esercito lealista. Tuttavia, lo
Spla, benché utile per combattere il governo islamista e antioccidentale del
Nord, non è amato dalle potenze occidentali (per le sue simpatie socialiste) e
da buona parte della popolazione del Sud (sia perché la sua base etnica è
prevalentemente Dinka, escludendo gli altri gruppi, sia perché non si pone
l’obiettivo della secessione del Sud, molto caldeggiato invece a livello
popolare).
Per questo motivo, l’Spla si
scontrerà immediatamente con una guerriglia parallela, quella degli Anyanya, di
base etnica Nuer, supportata dal nuovo Governo di Karthoum che, nel 1985, fa
cadere Nimiery ed installa una nuova giunta militare filo-occidentale e solo
moderatamente islamista. Il nuovo governo del Nord promette infatti agli
Anyanya una maggiore attenzione allo sviluppo del Sud, più posti di potere a
Karthoum, e limitate concessioni autonomistiche. Gli Anyanya, di fatto,
combatteranno quindi contro l’Spla ed in favore del nuovo governo sudanese,
gettando nuova benzina al conflitto etnico storico del Sud: i Dinka, inquadrati
nell’Spla, contro i Nuer, che compongono gli Anyanya.
Questa situazione intricata si
traduce in una guerra sanguinosissima che dura fino al 2005, ma ovviamente
occultata dai mass media, una delle più cruente dopo la fine del secondo
conflitto mondiale: due milioni di morti, un milione di profughi, stupri etnici
di massa, migliaia di bambini soldato che non potranno più reinserirsi nella
società, l’abbandono dei campi, la totale distruzione del Paese. Si mescolano,
nel calderone caotico della politica sudanese, una prima prova di conflitto fra
Occidente ed islamismo radicale, quando ancora siamo in piena guerra fredda e
l’asse geopolitico principale è ancora quello Est-Ovest, il peculiare conflitto
etnico che, nella realtà sociale africana, si sovrappone a quello di classe,
con il conflitto nel posizionamento rispetto ai mezzi di produzione, con relativo sfruttamento, che si svolge per
tribù anziché per gruppo sociale, il tentativo di appropriazione delle risorse
petrolifere e minerarie locali, nel quale entra prepotentemente anche la Cina,
con il suo specifico modello di cooperazione, che prevede ingenti investimenti
infrastrutturali e per lo sviluppo a latere di quelli minerari, a partire dai
primi anni Novanta.
L’accordo di pace del 2005
prevede, come sbocco di questo immane caos, un percorso di autonomia
amministrativa per il Sud, che debba confluire, tramite un referendum da
tenersi nel 2011, in una possibile indipendenza dal Nord. Referendum che,
infatti, vede vincere l’opzione indipendentista con percentuali talmente
prossime al 100% da lasciar pensare a qualche irregolarità. L’indipendenza del
nuovo Stato è una soluzione che accontenta tutte le potenze esterne che
vogliono partecipare alla spartizione petrolifera del Paese, dagli USA alla
Gran Bretagna, fino alla stessa Cina, e che viene incontro alle storiche rivendicazioni
indipendentiste delle popolazioni meridionali del Paese. Questa soluzione viene
vista come l’optimum per spartirsi tranquillamente i campi petroliferi,
negoziando con un Governo giovane e debole, che in un Paese distrutto dipende
in forma vitale dagli aiuti esterni. Ma non è ovviamente il meglio per il
Paese. Oleodotti e capacità di raffinazione, infatti, si trovano nel Nord, con
la conseguenza che il Governo di Karthoum continua ad esercitare influenze
molto forti su quello di Juba, da esso dipendente per l’approvvigionamento di
combustibile ed energia. Manca completamente una classe dirigente che non sia
costituita dai signori della guerra, talché ai vertici dello Stato vanno due ex
combattenti con le mani sporche di sangue, ovvero Kiir, quello con il cappello
da cow boy, in rappresentanza dei Dinka, ex ufficiale dell’Spla e Machar, per i
Nuer, leader di una fazione dissidente dell’Spla e protagonista del massacro
etnico di Bor, nel 1991, perpetrato contro 2.000 civili Dinka.
Salva Kiir Mayardit con Obama
Inevitabilmente, sin dalla formazione del nuovo Stato, gli ex guerriglieri trasformati in amministratori e politici non possono che rapidamente tornare all’unica cosa che sanno fare, ovvero ammazzarsi. Due anni dopo l’indipendenza, nel 2013, scoppia infatti una nuova guerra civile fra le due etnie principali, il cui strascico, come detto, si rivela negli scontri di questi giorni. Manca completamente un ceto di tecnici e professionisti in grado di prendere in mano le sorti del Paese. Mancano persino le vie di comunicazione esterne: privo di sbocco sul mare, il Paese è collegato, in forma rudimentale, soltanto da una antica ferrovia a binario unico verso il Sudan del Nord e da una pista non asfaltata verso l’Uganda, i due aeroporti internazionali offrono solo collegamenti regionali. La rete sanitaria e quella scolastica sono più teoriche che reali, e metà della popolazione non ha accesso all’acqua potabile in condizioni di sicurezza, nonostante il fatto che il Paese sia attraversato dal Nilo. Non ci sono soluzioni per i 750.000 rifugiati interni prodotti dalla guerra, né per altri 209.000 rifugiati esterni, provenienti dal Darfur. Il Governo centrale non ha alcun controllo su quelli locali, e non riesce ad intervenire nelle ricorrenti crisi umanitarie e sanitarie, nonché nei conflitti continui fra le tribù, motivati dai terreni di pascolo e dall’accesso alle fonti di acqua. Il debito estero è altissimo, e costituito soprattutto da creditori privati. Più del 90% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno, il tasso di diffusione della malaria è il più alto al mondo, malattie ovunque debellate, come la dracunculiasi, sono ancora presenti.
Stiamo quindi parlando di uno
Stato fantoccio, che non ha le condizioni minime per esercitare una parvenza di
autonomia nazionale, che dipende in forma vitale dagli ingenti investimenti
infrastrutturali, sanitari e scolastici che la Cina, il principale soggetto
operante nell’estrazione petrolifera, eroga. Che con l’indipendenza non ha
risolto nessuno dei nodi fondamentali della sua storia, che non ha futuro, che
è il classico prodotto dei giochini sulla carta geografica, di tipo
neoimperialistico, che potenze esterne all’Africa stessa da sempre hanno
esercitato.
http://www.pravdareport.com/opinion/columnists/21-07-2016/135084-african_blood-0/
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