RECENSIONE DI "LETTERA A UN GIUDICE"
di Lucio Garofalo
Ho letto il libro di un autore irpino, intitolato "Lettera a
un Giudice".
È un romanzo scritto in forma epistolare che racconta
l'amara vicenda, non autobiografica, di un "secchione" (inteso in
un'accezione simpatica e goliardica) che, non essendo raccomandato,
fallisce la prova di un concorso per dirigenti pubblici, per cui decide
di rivolgersi ad un magistrato per offrire libero sfogo al suo sdegno
contro la corruzione ed il malcostume della società.
La trama narrativa è
ambientata in un paese immaginario (neanche troppo) denominato
Repubblica dei Pomodori. L'idioma nazionale è il pomodorese, i gendarmi
sono pomodoresi, tutto è pomodorese. Certo, l'autore non sembra essersi
arrovellato troppo con l'immaginazione per inventare altri nomi di
fantasia.
Non mi pare tanto originale nemmeno l'idea ispiratrice che ha
stimolato la narrazione di questo novello, aspirante Sciascia irpino. La
passione per lo scrittore siciliano si arguisce facilmente dai
frequenti richiami alle opere e ai personaggi sciasciani: Candido, A
ciascuno il suo, Il giorno della civetta ed altre citazioni contenute
nel romanzo.
Ma il tratto che risulta meno originale, quasi conformista e
addirittura banale, risiede in uno spunto ideologico di tipo
moralistico o (come si direbbe oggi nel lessico corrente) di stampo
giustizialista.
Questa mia valutazione critica non vuol sembrare affatto
una stroncatura nei confronti della prima fatica letteraria di questo
autore mio conterraneo. Il quale è un intellettuale assai esperto in
lettere classiche, un umanista ed un critico letterario, per cui non
potrei mai competere con l'autorità e l'erudizione di tale studioso.
Non
possiedo la competenza, la perizia necessaria ad esprimere un giudizio
pertinente sul piano squisitamente tecnico-letterario. Mi limito ad
osservare che il registro stilistico del romanzo, per quanto lieve e
scorrevole, nient'affatto stucchevole, volgare o dozzinale (ed è già
tanto di questi tempi) non risponde al mio personalissimo gusto
estetico. Trattasi, dunque, di un giudizio assai soggettivo e relativo.
Il romanzo si legge tutto d'un fiato, è leggero e mai tedioso, ma non
sono riuscito ad intravedere il fuoco che infiamma il vero genio
artistico, l'inquietudine interiore, il pathos che assale lo "spirito
guerriero" dello scrittore e del poeta. Per me la letteratura e l'arte
non sono uno "specchio" che riflette il mondo reale, bensì una sorta di
"martello" che picchia sull'incudine con furia, fatica e sofferenza per
plasmare e per modificare lo stato di cose esistente. Scrivere,
dipingere, scolpire, suonare, danzare, recitare, esigono un ardore
militante, una tensione civile, una pulsione rivoluzionaria. È una
battaglia in cui l'artista si cimenta in modo indiretto, senza avere
tessere di partito. Ciò accende ed esalta il valore più autentico
dell'arte, che altrimenti non sarebbe in grado di esternare
assolutamente nulla.
Aggiungo una chiosa conclusiva, ma non certo
esaustiva. Non basta saper scrivere per fare di un autore qualsiasi un
grande scrittore.
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