OLTRAGGIO ALLA CATALOGNA
di
Norberto
Fragiacomo
Alcuni giorni fa ho
rilanciato, sulla mia pagina Facebook, “Omaggio alla Catalogna” di Giorgio
Cremaschi, un post in cui il glorioso leader sindacale riprendeva la sinistra
pedante - sempre alla ricerca di rivoluzioni da manuale - provando a ricordarle
che le c.d. rotture di sistema avvengono alle condizioni e nei luoghi più
impensati, che i moti popolari mischiano sovente rivendicazioni schiettamente
borghesi ad altre più avanzate, che una dose di ambiguità e contraddizioni è
fisiologica; che, in ogni caso, «lo stato confusionale dei poteri forti UE»
dinanzi alla vicenda catalana «dimostra che la rottura c’è», e dunque la causa
di Barcellona va sostenuta. Citando una frase napoleonica spesso ripetuta da
Lenin (on s’engage, et puis on le verra)
Cremaschi ha inteso dire che quasi sempre i primi passi sono al buio, ma vanno
fatti – perché l’alternativa è l’immobilismo, l’attesa beckettiana di
un’irrealistica insurrezione perfetta.
Condivido l’analisi e
l’appello, ma la reazione al post di stimati compagni (più dell’ozioso
chiacchiericcio che intasa la rete) suggerisce che la mia posizione,
all’interno della c.d. estrema, è controversa e forse manco maggioritaria.
Quali obiezioni vengono
mosse alla visione cremaschiana, che mi risulta coincidere con quella di Risorgimento Socialista? Le esternazioni
anti-indipendentiste sono riconducibili a due posizioni diverse: la prima è
quella di coloro che tacciano i catalani di avarizia, perché vogliono tenersi
la ricchezza prodotta in loco tutta
per sé, senza spartirla con i poveracci dell’Andalusia o dell’Estremadura – il
movente dell’indipendentismo sarebbe insomma grettamente economico, i suoi
fautori borghesi meschini e “di destra”. La seconda tesi è più articolata: si dubita
della genuinità del movimento e lo si ricollega ad oscure trame di
destabilizzazione europea. Assisteremmo all’ennesima “Rivoluzione colorata” di marca sorosiana.
Ora, non escludo a priori che in alcuni settori della
società catalana possa allignare un atteggiamento leghista prima maniera: la
regione è economicamente molto sviluppata e il suo popolo potrebbe, in teoria (solamente in teoria, come già
abbiamo visto), trarre profitto da una secessione, specie se morbida. Ridurre
l’indipendentismo catalano alla micragna è però una puerile semplificazione,
che non tiene conto della Storia. La contrapposizione tra Barcellona e Madrid
data almeno dalla guerra di successione spagnola, combattuta tre secoli fa. Fu
una lunga e sanguinosa lotta per il predominio europeo, che vide contrapporsi
l’Inghilterra e l’Austria a Francia e Spagna: il pretendente asburgico, futuro
Carlo VI, s’insediò proprio nella capitale della Catalogna, e da lì si oppose
al candidato dei Borbone francesi. Il conflitto durò anni, finché – liberatosi
il più appetibile trono viennese – l’Asburgo abbandonò baracca e burattini per
tornarsene a casa; i suoi sostenitori inglesi fecero lo stesso. Gli orgogliosi
catalani rimasero tuttavia in armi, e affrontarono il loro 11 settembre: quel giorno «un
esercito franco-spagnolo formato da trentacinquemila soldati di fanteria e
cinquemila di cavalleria si è battuto contro sedicimila soldati e cittadini.
Berwick, al comando degli eserciti di Filippo V, ha raso al suolo la città (Barcellona), mettendola a ferro e fuoco[1]». Seguirono lunghi anni di
oppressione e reiterati tentativi di sradicamento dell’identità nazionale che
si ripeterono nel ‘900, dopo che Franco ebbe trionfato sul sentimento
repubblicano fortissimo soprattutto in Catalogna. La popolazione, malgrado
tutto (compresa la forte immigrazione promossa dal governo a partire dal
dopoguerra), ha conservato nei secoli fisionomia e tradizioni e difeso la
propria lingua, affine all’occitano, marcando – ogniqualvolta se ne presentasse
l’occasione – le distanze anche culturali da Madrid: si pensi alla messa al
bando della corrida, cui va riconosciuto un significato eminentemente politico.
Ad ogni modo è sufficiente visitare una sola volta la bellissima capitale (io
l’ho fatto) per rendersi conto dell’enorme differenza di mentalità e di
abitudini che separa gli abitanti della Catalunya dai castigliani, se vogliamo
assai più estroversi e festaioli. Neppure bisogna dimenticare la tradizionale –
e motivata - avversione dei catalani per la Casa di Borbone, in cui si
mescolano le già citate reminiscenze storiche con l’afflato repubblicano sempre
vivo e che spiega la rabbiosa reazione popolare all’arrogante e infelice
discorso di un re percepito come straniero ed erede del franchismo (Felipe, al
pari del nemico di tre secoli fa!) e la decisione degli amministratori
dell’importante Girona di dichiararlo persona non grata in città.
Questo schematico
riassunto storico è più che sufficiente a mettere in ridicolo chi, senza sapere
ciò che dice, sostiene l’estemporaneità/novità della passione indipendentista;
a quanti ne affermano la natura “di destra” ci limitiamo a ribattere che i
principali sostenitori dell’indipendenza sono – oggi come ieri - Esquerra Republicana de Catalunya, un
partito di centro-sinistra (ma assai meno centrista dei vari MDP e Pisapia
italiani), e Candidatura d’Unitat Popular
(CUP[2]), che si batte per
l’uscita dall’Unione Europea e dalla NATO; lo stesso Puigdemont , ex sindaco di
Girona e fervente indipendentista, è considerato un esponente “di sinistra” del
moderato Partito Democratico Europeo Catalano. Travestitismo, replicherà il
complottista irriducibile – ma con i dogmatici discutere è tempo sprecato: i
matti hanno sempre ragione.
Per altri commentatori
non ha alcun ha senso domandarsi se gli “insorti” siano di destra o di
sinistra: saremmo alle prese con un moto artificiale, eterodiretto – una
classica “rivoluzione colorata”. Qualche indizio in tal senso ci sarebbe:
Fusaro cita, ad esempio, un contributo di venticinquemila euro versato da un
ente della galassia Soros a un’organizzazione catalana, e che dire del video
anglofono in cui una graziosa ragazza affranta (che poi si è scoperto essere
un’attrice, pagata per la “prestazione”) invoca l’aiuto della comunità
internazionale dopo i pestaggi di ottobre[3]? Una copia dell’appello
videoregistrato ai tempi di piazza Majdan, sostengono gli spagnoli – e non
hanno davvero torto. Personalmente sono stato incuriosito da uno striscione
apparso in piazza la sera della votazione: “non picchiate mio nonno”, diceva
pressappoco – naturalmente in inglese. Uno slogan ben congegnato – fin troppo – che come “Aiutate la
Catalogna, salvate l’Europa” ha fatto il giro del globo. Tre indizi fanno una
prova? Dipende. Le finte rivoluzioni cui ci hanno abituato gli americani seguono
un copione immodificabile: una marea di giovani riempie una piazza per
presidiarla stabilmente, dopo averla colorata di verde, arancio o verde – le
tivù del “mondo libero” si appropriano dell’evento, sottolineando
invariabilmente la natura “pacifica” della protesta (anche a Kiev?) e
stigmatizzando la brutalità di governi andati al potere “con la frode” –
emergono due o tre eroi fotogenici, meglio se martirizzati – le parole d’ordine
della rivolta, pronunciate in ottimo inglese, sono facili e orecchiabili – la
passione dei ragazzi e l’indignazione dell’opinione pubblica internazionale
(con l’aiuto magari di qualche squadraccia addestrata, che però resta
nell’ombra) costringono tiranni e usurpatori alla fuga, quando gli va bene.
Nella zuppa catalana
mancano quasi tutti questi ingredienti: il luogo simbolo si anima di folla
soltanto nei momenti topici, e i media danno maggior rilievo alle
manifestazioni “unioniste”, moltiplicando a dismisura il numero dei
partecipanti; ben lungi dall’assediare il governo (locale), i dimostranti pro
secessione lo cingono in un abbraccio protettivo; la gente per le strade si
esprime nella lingua madre ed è vestita normalmente, le uniche tinte
riconoscibili sono quelle del vessillo catalano. C’è di più: fino ad oggi le
rivoluzioni colorate hanno avuto luogo in Paesi osteggiati dal blocco
occidentale (Iran, tentativo fallito in Russia anni fa) oppure “contesi”
(Ucraina due volte, Georgia, Kirghizstan ecc.), mai in Stati inseriti nel
sistema NATO.
A ben vedere, gli stessi
indizi citati prima si rivelano labili – o comunque non gravi, precisi e
concordanti come si vorrebbe: dopotutto l’esperienza ucraina ha fatto scuola,
non occorre essere sponsorizzati/addestrati dalle ONG di Soros per riprodurre
tecniche che, alla prova fattuale, si sono rivelate efficacissime.
Inoltre le c.d.
rivoluzioni colorate hanno un costo, sia in termini organizzativi che
strettamente economici (dello scialo di vite umane non frega nulla a nessuno),
e dunque non vengono cantierate senza un valido motivo. Quale potrebbe essere,
nel caso in esame? La convinzione, ormai diffusa tanto a destra quanto nella
sinistra c.d. sovranista, che lo Stato nazionale sia oggidì l’unico possibile
“soggetto rivoluzionario” in grado di opporsi al sistema: questo implicherebbe,
per le èlite economiche, l’esigenza di sopprimerlo al più presto,
disintegrandolo in “piccole patrie” impotenti da consegnare (qui da noi) al
potere sovranazionale impersonato dall’Unione Europea. La tesi ha un suo
pregio, sebbene io non la condivida; il problema è che gli Stati non sono
ipostasi libresche, entità astratte, bensì organizzazioni concrete che, a
seconda dei circostanze e dei tempi, si comportano in maniera diversa. Esistono
oggi nazioni europee “ostili” alla globalizzazione di marca statunitense e,
dunque, candidate a una rivoluzione colorata? Probabilmente sì: l’Ungheria di
Orban, per esempio, che ha dichiarato una (lodevolissima!) guerra “preventiva”
al magnate Soros; la Polonia, il cui governo “autoritario e antidemocratico” ha
abbassato l’età pensionabile; fuori dai confini UE la Serbia che, malgrado gli
avvertimenti americani, sembra restia a rompere con la Russia di Putin. E la
Spagna? Membro fedele della NATO fin dai giorni della dittatura franchista, si
è dimostrata di recente un allievo modello della Commissione europea: i suoi
esecutivi hanno attuato alla lettera le politiche di austerità, cancellando
diritti e tutele, e alle proteste popolari hanno reagito con inequivoca
fermezza. Che senso avrebbe destabilizzare un volonteroso vassallo? La stessa
Unione Europea, ipotetico beneficiario della frammentazione del regno, non
sembra aver gradito le velleità catalane: al contrario, ha sostenuto il governo
Rajoy senza esitazioni, anche quando, per salvare le forme, sarebbero stati consigliabili
inviti alla moderazione. Esercizio di dissimulazione? Tutto è possibile, ma le
teorie dovrebbero basarsi su fatti, non su supposizioni avulse dalla realtà. Possibile
alternativa colorata: anziché a rafforzare le istituzioni europee il sostegno
al secessionismo catalano mirerebbe ad innescare un effetto domino teso a
indebolire l’Europa nel suo complesso. Cui
prodest? Non certo alla NATO (cioè agli USA), che dietro l’Unione si
nasconde: ai fini del mantenimento del controllo globale è più utile un pugno
di alleati-servi mediamente forti che una miriade di staterelli deboli e
recalcitranti. Quindi? Potremmo trovarci di fronte a un avvertimento lanciato
dall’èlite finanziaria globale ai reggitori dei Paesi europei: continuate a
rigare dritto, siamo in grado di colpirvi in qualsiasi momento. Inutile spreco
di denari e risorse, obbietto: l’esperienza insegna che basta un’alzata di
spread per ridurre qualsiasi establishment continentale all’obbedienza
cadaverica – pertanto i soldini spesi per il video catalanista sarebbero una
sorta di danno erariale. Avventuriamoci in ipotesi al limite del machiavellico:
l’insurrezione sarebbe stata finanziata e guidata da Soros&co. al precipuo
scopo di provare ai cittadini l’impossibilità
di qualsiasi insurrezione – tecniche di psyops
utilizzate .per persuaderci irrefutabilmente dell’irreversibilità della
situazione attuale. Un complotto orchestrato da menti sopraffine, non c’è che
dire: vi pare plausibile? Prima di rispondere domandiamoci se sia disponibile
una chiave di lettura alternativa: se c’è, presenta i crismi della
ragionevolezza e non implica l’intervento di forze diaboliche toccherà
impugnare il rasoio di Occam e far giustizia delle ipotesi fantapolitiche.
Una possibile
ricostruzione è questa, basata su una premessa che è un fatto notorio: il PPE
al potere in Spagna è una forza reazionaria e nazionalista, figlia putativa del
franchismo e nemica delle autonomie. Appena giunto al potere Rajoy si è
rimangiato le promesse fatte dal predecessore Zapatero ai catalani: siamo
(anzi: eravamo) allo stallo. Veniamo al passato prossimo: per indurre il
governo nazionale a sedersi al tavolo delle trattative i dirigenti catalani
indicono il referendum, il secondo in pochissimi anni. Il Tribunale
costituzionale ne dichiara l’illegittimità, ma fa niente: non è una questione
tecnico-giuridica, l’obiettivo è schiettamente politico. Puigdemont, sincero indipendentista ma uomo accorto, sa
che non otterrà mai quello che afferma di volere (metà dei catalani è
contraria): lo scopo è un maggior margine di autonomia. E’ conscio che Rajoy
potrebbe sventolargli sotto il naso il verdetto della Corte e irriderlo: il
vostro referendum è niente più che un sondaggio, non me ne importa nulla – in
tale evenienza la mossa si rivelerebbe inutile, ma l’ex sindaco di Girona
confida in una reazione “di pancia” del premier. Quest’ultimo però lo spiazza:
invitato al braccio di ferro, di ferro esibisce il pugno. Non semplice sdegno:
tracotanza. Il governo centrale, impersonato dalla terribile Santamaria,
trascina con sé una magistratura la cui indipendenza è solo nominale: l’arresto
dei deputati sorprende un po’ tutti, mentre le strade di Barcellona iniziano a
brulicare di poliziotti della Guardia
civil. Puigdemont e i suoi sono stati messi con le spalle al muro, ma non
possono fare marcia indietro: la causa e loro stessi perderebbero ogni
credibilità. Vanno avanti, col freno a mano tirato. L’Europa, vanamente
invocata, si schiera senza indugi con Madrid, e non trova nulla da ridire
neppure quando, nella domenica del voto, la polizia nazionale infierisce su
cittadini inermi. Nessun paragone con Bolzaneto, d’accordo, ma pure la cornice
è diversa: qui si pesta gente di mezza età che ha il solo torto di voler
esprimere un’opinione. In queste condizioni l’esito della consultazione (oltre
il 40% dei cittadini si reca alle urne di fortuna) è stupefacente. Puigdemont
ha vinto, ma è una vittoria di Pirro: banche e multinazionali (i suoi presunti
sponsor…) si incaricano di rammentarglielo, votando con i piedi. Lui, non
essendo sciocco, lo sa e con mossa da prestigiatore sospende l’indipendenza
appena dichiarata: desidera disperatamente trattare, ma Rajoy e la UE non
gliene offrono la possibilità. Di fronte al commissariamento, approvato da
Bruxelles, e all’attivismo dei procuratori – che scagliano accuse da dittatura hard - non resta che l’ultima carta,
simbolica più che disperata: Catalogna indipendente, festa in piazza e inno a
tutto volume. Segue quella che viene descritta come una fuga ignominiosa, e a
parer mio non lo è. Il Presidente ha sempre rifiutato l’opzione del ricorso
alla violenza; d’altra parte, l’immediata normalizzazione dei Mossos d’Escuadra (il cui comandante,
rammentiamolo, viene oggi perseguitato per non aver voluto impartire ordini
criminosi) renderebbe il confronto non impari: improponibile. Scorrerebbe il
sangue, quello dei suoi: Puigdemont si fa da parte, ma non fugge – attenzione!
– in un accogliente Paese dell’America latina, bensì a Bruxelles, la capitale UE, e non è affatto un caso.
Cosa vuole dirci, cosa ci ha detto in
conferenza stampa? Che lo Stato spagnolo non è democratico, che la sua
magistratura è tutt’altro che imparziale, che l’Unione Europea non rispetta
affatto i propri “principi fondativi” (tutela dei diritti umani,
autodeterminazione dei popoli ecc.), pur sbandierati a ogni piè sospinto – in
sintesi, che l’odierna democrazia liberale è una grottesca finzione, una
pagliacciata.
Il messaggio sarebbe –
ed è – dirompente, ma nessuno lo ascolta, nemmeno nella sinistra marxista:
tutti a ironizzare sull’armiamoci e
partite o a inventarsi complotti da pochade; una minoranza, più seriosa ma
altrettanto miope, soppesa col bilancino dell’etica i pro e i contro
dell’indipendentismo.
Non ci siamo, cari
compagni: non spetta a me né a voi sentenziare se le rivendicazioni dei
catalani siano fondate o meno, ci pensino loro – noi dovremmo invece valutare
se questa crepa apertasi nel sistema (parlare di “rottura” è, a parer mio,
eccessivamente ottimistico) possa costituire una minaccia per il medesimo e, in
caso affermativo, provare ad allargarla. Dovremmo denunciare la nudità del re
(non solo quello di Spagna), condannare le violenze poliziesche e quelle
giudiziarie, screditare – basandoci su crudi, incontrovertibili fatti – istituzioni
autoritarie, ipocrite e antipopolari. Istituzioni
che sono il sistema liberalcapitalista.
Dovremmo, e invece
seguiteremo ad aspettare la rivoluzione “ideale”, con l’irrompere sulla scena
di gioiose masse operaie marcianti al suono de L’Internazionale. Evitiamo
dunque, il sette novembre, di celebrare con troppa enfasi la presa del Palazzo
d’Inverno: anche Lenin, a un certo punto, scappò per non essere arrestato, e
quel suo slogan “la terra ai contadini!” mica era tanto ortodosso… senza
contare che la tinta rosseggiante delle bandiere, esibite senza parsimonia, richiama
alla nostra mente smaliziata i trucchi delle rivoluzioni colorate… o no?
[1] Dal rapporto dell’agente Tebaldo Fieschi al capo
dello spionaggio papale, cit. ne
L’ENTITA’ di Eric Frattini, pag. 131,
Fazi Editore, 2008.
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